autodocenza: università in disfunzione della donna
seminario sul cinema e la donna ad opera di un collettivo femminista all’università di Bologna. Le donne devono riuscire a non essere più parlate, guardate, sentite, ma devono guardare, parlare, sentire.
facciamo parte di un collettivo femminista che si muove all’interno dell’istituto di Comunicazione e Spettacolo di Bologna.
A novembre abbiamo iniziato un seminario autogestito da donne sul cinema e la donna. Non scorderemo facilmente il sorriso pietoso del docente che dall’alto in basso esprimeva fastidio per un’iniziativa così «marginale», né la passività di molte di noi che hanno preferito continuare a seguire il dio programma, interiorizzate ed emarginate in seminari che facevano fatica a seguire e che non de interessavano, come se questo non fosse dipeso dai seminari, ma da loro. Né dimenticheremo i commenti sfottenti degli altri docenti ed assistenti (tranne sporadici casi cui va la nostra riconoscenza) ohe hanno accompagnato le nostre iniziative. Certo sentivano qualcosa che gli sfuggiva dalle mani, di cui la loro storia non parlava.
Era il periodo di Kinomata, che i critici avevano snobbato per correre a Parigi a farsi seghe ben remunerate. Quindi di fronte alla precisa richiesta di un’informazione sul cinema delle donne i più si trovavano impreparati. L’informazione sui film delle donne l’avevamo più noi che loro, e la loro ignoranza di docenti e la loro cecità storica non poteva che esprimersi col finto disinteresse di chi non sa.
Per noi è stato difficile mettere insieme un materiale minimo di partenza (Effe, DWT, Women & Film), e lo abbiamo fatto completamente da sole. Certo, poi si sono messi al corrente, adesso arrancano per non restare allo scoperto su un argomento che loro giudicano soltanto «attuale». Dobbiamo addirittura aspettarci un recupero per l’anno prossimo, dovremo valutare se un modo di zittirci non sia anche l’istituire ‘ seminari organizzati, senza la nostra riconosciuta partecipazione, sul nostro lavoro. Non possono, i docenti di sinistra, mostrare una contraddizione tanto evidente come quest’anno hanno fatto. Potranno però snaturare i nostri contenuti, e dovremo essere presenti in questa fase. Ma anche se avete trasferito il potere dei pantaloni alle parole, non riuscirà il gioco. Il nostro lavoro si interrompe con l’inizio delle lotte nell’università e fuori. Lotte che si muovono su parole d’ordine proposte da noi, ma che non sono più nostre. Al compagno che in assemblea si alza dicendo «mi fate violenza», «vivo male il mio corpo», «siamo i non garantiti della società», noi rispondiamo che se lui è non garantito ora, noi lo siamo ancora meno e da sempre.
Dopo i fatti dell’I 1 marzo, come collettivo femminista, sentiamo l’esigenza di individuare immediatamente dei terreni di lavoro ohe siano strettamente legati ai nostri bisogni. L’imperativo categorico pratico è :I miei bisogni sotto. Siamo un gruppo di donne aggregate su interessi comuni e che, in quanto studentesse, vivono in questo momento in modo prioritario i problemi che pone lo scontro donna-istituzione universitaria (molte di noi appartengono contemporaneamente a collettivi nelle rispettive città). Questo scontro comporta la constatazione della schizofrenia esistente tra i nostri interessi e la cultura che l’università ci propina.-Per questo riprendiamo il discorso sul cinema. Già a novembre avevamo chiesto fondi per far arrivare film delle donne, stanche di veder utilizzati i fondi a disposizione per film che investivano interessi universitari ed extra-universitari dei docenti. L’occasione si presenta quando alcuni docenti organizzano un ciclo di film sul ’68, per placare la smania giovanile dei nipotini del ’77.
il ’68 è una caramella
Dopo aver esposto il programma all’assemblea il professore rivoluzionario di turno pone la retorica domanda: «Ci sono altre proposte?». In realtà tutto è già stato predisposto a puntino, il programma definito, i films già ordinati ed in arrivo, insomma la domanda presuppone uno di quei consumati silenzi da parte degli astanti. Rapido sguardo tra di noi, dopodiché facciamo presente ohe le proposte ci sono da novembre. La contraddizione spaventa le sinistre. Otteniamo i fondi. Inizia il noiosissimo lavoro di organizzazione della nostra rassegna. Rivestiremo funzione di organizzatrici, proiezioniste, dattilografe, segretarie, telefoniste, bi-delle, trovarobe, fattorine, ecc.
A noi nessuno ci organizza il film sul sessantotto. Ci chiediamo cosa ci dà l’università, se quello ohe ci interessa ce lo dobbiamo fare tutto da noi. Ci è di grande aiuto un numero di Effe uscito in quei giorni, in cui troviamo indicazioni per la richiesta dei films. In una settimana reperiamo materiale che ci consentirà di riempire un’arco di sette giorni con films e video-tapes. Il nostro lavoro nasce dalla consapevolezza della nostra presenza-assenza tanto nelle istituzioni quanto nella produzione culturale più in generale. Cinema, cioè prodotto culturale maschile, dove il lavoro della donna è più che mai frainteso nel momento in cui le si nega un valore proprio, le si fa significare, attraverso il proprio corpo proiettato sullo schermo tutta una serie di stereotipi creati senza ritegno dall’uomo, che nega il valore di un film fatto da donne, facendolo apparire un caso sporadico, accidentale, tutti palliativi per non darle in mano gli strumenti tecnici che la donna potrebbe usare in maniera veramente rivoluzionaria. Unire con fatica, in uno spazio e un tempo ristretti, tutta una serie di film in super 8, in 8, in 16 mm. e videonastri, comporta uno sforzo notevole sia organizzativo che qualitativo: sta già nell’essere riusciti a comporre una rassegna cinematografica sia pur limitate, l’importanza politica di una presenza sia nell’istituzione che nella produzione culturale generale. Il seminario è stato fatto, centrando l’attenzione più che su un’analisi contenutistica, ormai scontata, sull’uso dei mezzi tecnici, forma e arte nel film, decodifica dei messaggi, non ponendosi di fronte ai film fatti da donne come talvolta ci si pone di fronte ad un disegno di un bambino di pochi anni, ma mantenendo costante l’atteggiamento critico, necessario quando non ci si vuol fermare al momento, ma progredire, creare qualcosa che superi sempre ciò che è stato fatto. Films come «L’aggettivo donna» e «La lotta non è finita», i videotapes sull’aborto, «Donne emergete», «È solo a noi che sta la decisione» sono films militanti nei quali vengono riprese manifestazioni o situazioni in qualche modo significative intorno e sulle lotte del movimento femminista. La macchina da presa volge l’occhio scrutatore sulla lotta delle donne. Sono films militanti poiché non aspirano ad usufruire di un circuito normale dato che specificano e informano e comunicano le battaglie delle donne. In ogni caso è utile specificare le qualità di ciascun film. Iniziamo da «Vanessa e le bambole» e «Prima del tradimento e dell’abbandono» di Maurizia Giusti e Antonietta Laterza fatti nel 74-75. Il primo di questi è il risultato di un lavoro di autocoscienza di un gruppo di donne.
il silenzio delia donna
Il contenuto politico è infatti rappresentato nella dimostrazione della creatività femminile. È la capriola che ci .fa ritrovare donne, è il corpo nudo della bimba, che nascondendosi si scopre, è la violenza nel gesto di rompere la bambola, il proprio ruolo, è l’essere lontano dal mondo dei rumori e del fumo, è la voce di Antonietta che fuori dal film canta. La dimensione onirica, ludica, il loro toccarsi e conoscersi, prescinde dalla parola, è la comunicazione nel «Silenzio della donna». La mancanza dell’audio determinato dal mezzo povero usato, non toglie, anzi aggiunge al film quell’aura misteriosa, come se la donna fosse veramente un continente sconosciuto, alla ricerca di un tempo e di uno spazio proprio, di una voce ohe non sia né petulante né sdolcinata, ma in armonia perfetta con i propri gesti espressivi.
Le donne devono riuscire a non essere più parlate, guardate, sentite, ma devono guardare, parlare, vedere. Il secondo è un tentativo comico-grottesco di interpretare il «maschio».
Contrapponendo l’aspetto virile ad una possibile «femminilità» che potrebbe appartenergli. Il grottesco consiste nel trasformarlo da «Bacco» in donna. La pelle dell’uomo sopporta male certi stravolgimenti.
Daopulo e Miscoglio ci portano in una dimensione totalmente diversa. La militanza è qui strettamente legata al dopo ’68. I films sono datati 72-73 cioè al momento di riflusso e di analisi delle tematiche sessantottesche, sono films legati ai primi collettivi femministi in Italia e riproducono quella scissione che da un lato vedeva nell’autocoscienza il nuovo modo di far politica, ma dall’altro, di fronte ad un prodotto tecnico doveva abbandonare parole di ordine quali «creiamo assieme». Nel film si vede un recupero di tematiche standard, di interviste stereotipe, di atteggiamenti «paternalistici» verso le donne non emancipate. Si tratta di un documentario sulla condizione della donna rispetto al lavoro (interviste ai mercati) e al problema dell’aborto. L’intento del film era dunque di informarci di una problematica posta sempre in secondo piano dagli organi maschili. Il risultato è però poco informativo in quanto la tecnica dell’intervista adottata dalle registe, ripropone l’intervista tipicamente televisiva che tende a canalizzare la informazione su ciò che vuol sentirsi dire l’intervistatore, escludendo il patrimonio conoscitivo dell’intervistato, costretto ad usare un codice binario e dire solo «sì» o «no», bene» o «male», «confermo» o «smentisco». Non vengono permessi processi di feedback, sebbene il vissuto delle donne sia in realtà il nodo centrale della politica femminista.
come e con quali mezzi veicolare
Probabilmente questi limiti sono dovuti al fatto che nell’urgenza di lotta del momento, la necessità immediata di comunicare e diffondere certi contenuti si presentava come prioritaria rispetto alla riflessione sul «come» e con «quali mezzi» veicolarli.
«La lotta non è finita» informa sulla festa dell’8 marzo, data storica del femminismo, in cui le donne divengono interpreti della politica, si potrebbe dire «soggetti di storia», anche se una volta all’anno è troppo poco. Il discorso diventa interessante se confrontiamo l’informazione della Daopulo e Miscoglio che hanno lavorato in sedici mm., con il videotape sull’aborto fatto dalla commissione Donna e Cultura di Roma.
Vedere registrata un’assemblea in video ci mette in condizione di percepire la visione di un problema come se fosse più reale della realtà stessa. Infatti l’emozione che ha suscitato il nastro sull’aborto difficilmente può esser resa con altri mezzi tecnici: l’intervista fatta alla ragazza che ha abortito non c’informa soltanto sul problema dell’aborto, ma sui problemi di vita della ragazza, sui suoi rapporti affettivi e sociali, sulla crisi della famiglia, sull’angoscia della coppia. L’assemblea delle donne di un condominio romano è gestita dalle stesse donne, ognuna di loro ha la possibilità di parlare del proprio vissuto interagendo con le altre.
Il salto di qualità lo si ottiene però quando il contenuto politico va totalmente al di là (indipendentemente dal mezzo tecnico) dell’intervista, della ripresa della manifestazione, e può diventare un fatto spettacolare con un effetto estetico e formale che stenta a far riconoscere il film come un film militante.
Isabella Bruno tenta, attraverso la finzione cinematografica, di recuperare una propria espressività, creatività. Recupera l’arte cinematografica introducendo elementi a lei peculiari: i pupazzetti di legno sempre presenti, che -si frantumano, si espandono, si muovono nello spazio, caricaturizzano da un lato personaggi reali, dall’altro agiscono come una fiaba riprendendo le tecniche dei films di animazione. Vengono recuperate da Isabella le categorie del film come finzione; si può parlare di aborto uscendo dal documentario fine a se stesso, anche la consapevolezza
di un problema crudele non deve negare spazio alla creatività. «La cavia» rappresenta invece un tentativo di interazione tra la cinepresa, la donna reificata in attrice, e la donna regista, emancipata, ma non liberata. È possibile liberazione con un ruolo imposto?
Se il ruolo è quello di regista bisogna trovare una mediazione tra la macchina che connota impero maschile ed un’attrice che da tutto ciò vuole liberarsi.
Solo se l’attrice smette di giocare si può mettere in crisi il sistema, si può far nascere un film diverso.
un video-tape per me
È nostra intenzione registrare col videotape i dibattiti che sorgono tra di noi alla fine delle proiezioni, e chiediamo lo strumento in dotazione all’università. Ci dicono che è necessario raccogliere firme di professori che diano autorizzazione all’uso, prassi che non ci risulta sia stata richiesta le innumerevoli volte che studenti maschi lo hanno usato. Questo dimostra come la presunta inabilità delle donne alla tecni-, ca non sia connaturata, ma, al contrario, sistematicamente indotta dalle istituzioni scolastiche, la cui trama burocratica si allenta molto più facilmente per agevolare l’apprendimento dello studente maschio, e si richiude per le iniziative delle donne. Difatti, gli strumenti che dovrebbero essere «anche» al nostro servizio, vengono usati solo da una fascia limitatissima di studenti che riesce ad entrare in contatto «confidenziale» con assistenti e docenti, secondo questo ordine gerarchico: docente (sempre maschio)-assistente maschio-studente maschio-assistente donna. Non è infrequente lo stato di soggezione in cui l’assistente donna si viene a trovare nei confronti dello studente maschio, e questa debolezza del personale docente femminile fa sì che nello stesso stato di esclusione si trovino anche le studentesse. Gli strumenti, inoltre, rarissimamente vengono usati a scopo didattico, e anzi sono quasi sempre occupati per i lavori privati di chi ci ha le mani sopra. Il video-tape alla fine ci viene «concesso» (paghiamo 30.000 lire all’anno di spese-laboratorio).
Lo utilizziamo collettivamente: alcune di noi lo sanno già usare e lo insegnano ad altre che a loro volta lo insegnano. Veniamo quindi a svolgere funzioni di docenza nei nostri stessi confronti, mentre, in forma di gioco, ci passiamo lo strumento divertendoci all’intercambiabilità dei ruoli.
In pratica, dopo le proiezioni cui possono assistere anche donne esterne all’università (anche se purtroppo sapevamo in partenza che il pubblico sarebbe stato prevalentemente di studentesse), hanno luogo dibattiti che sono metà dibattito e metà lezione pratica di uso dello strumento, alla faccia della verbosità dei dibattiti, dell’astrattezza delle lezioni, della ruolizzazione nel lavoro, che caratterizzano le attività culturali maschili all’interno della struttura universitaria, così come, ovviamente, fuori.
Riteniamo il lavoro svolto quest’anno un punto di partenza. Fermo restando che non vogliamo, l’anno prossimo, ritrovarci ad essere, come donne, l’argomento di attualità su cui vengono fatti seminari e pubblicazioni, magari a firma maschile.
Intendiamo continuare ad autogestire le nostre iniziative, e non gradiremo assolutamente trovare alla riapertura dell’università programmi di studio già istituiti che ci informano che si dà inizio al seminario diretto dal dottor Tale, magari sul tema «La donna e lo stuzzicadenti».
Non si può in un’estate colmare un vuoto di secoli.