il parto si impara

è nello scambio dei vissuti e delle informazioni che le gestanti possono uscire vittoriose di fronte all’incognita del parto, sì da gestirla in prima persona.

settembre 1977

Nei libri e nei giornali femministi si parla molto di sessualità, di rapporto con l’altro, di maternità cosciente e volontaria, ma ancora troppo poco di parto, del rapporto con il medico, figura maschile doppiamente vincente. La situazione di abbandono, di profondo disagio che la donna deve affrontare è delle più penose e lo è in particolare se ha raggiunto consapevolezza di sé e del proprio ruolo. Il medico è da tempi immemorabili vissuto come il salvatore, il consolatore per eccellenza, colui che ci protegge dal dolore e dalla morte. Questo rapporto filiale, che ci riporta tutti a condizioni di infantile dipendenza, si accentua in modo particolare nella situazione ostetrico-gestante, Lei è vissuta dal medico come «paziente» (cioè «malata»), passiva, incompetente: il bambino nascerà — nascono tutti! — ma perché c’è lui. La donna stessa si vive come impotente nelle mani di esperti che stabiliscono per lei ogni dettaglio, come se non ci fosse, con la ben nota arroganza. Proprio per recuperare un ruolo attivo e consapevole, la donna deve informarsi e prepararsi al parto. Controllare il proprio corpo, sapere che cosa vi accade e che cosa dovrà fare al momento giusto, le consentirà di affrontare il rapporto con il medico, le ostetriche, le infermiere con ben altra sicurezza, trovando anche la capacità di lottare per non essere trattata come oggetto o peggio.
La preparazione al parto le restituisce l’autorità del ruolo femminile e materno: è lei che partorisce, è suo il bambino che nasce; sue le sensazioni, le emozioni, la fatica, sua persino la capacità di favorire o di ostacolare il parto stesso. E’ questa consapevolezza che la condurrà a partorire bene, utilizzando — per mezzo della respirazione e del rilasciamento — le forze naturali del proprio organismo. Il bambino, quando scatta il meccanismo ormonale che mette in moto le fibre dell’utero, non chiede che di uscire e tutto lo spinge verso l’esterno a meno che forze negative interne alla madre (a volte indotte dall’ambiente esterno o da paure incontrollabili) non si oppongano all’espulsione. La madre che si prepara bene al parto aiuta in modo fondamentale il suo bambino: il trauma nella strettoia del «canale da parto» sarà tanto più ridotto per quanto più rapido è il passaggio e per quanto più regolari sono la respirazione materna e quindi l’apporto di ossigeno attraverso il cordone ombelicale.
La donna deve dunque riappropriarsi di questo fondamentale momento della propria femminilità; tanto più se ha scelto consapevolmente di diventare madre, diventa drammatica la contraddizione del suo ritrovarsi nelle mani di «tecnici» che decidono senza minimamente informarla, somministrano stimolanti o analgesici senza avvertirla né durante né dopo, lasciandola sola con le sue incertezze. Lo slogan femminista «Il corpo è mio e lo gestisco io» diventa tanto più significativo in sala ostetrica dove la partoriente è considerata solo corpo, macchina-oggetto che produce e dalla quale bisogna estrarre il figlio in fretta, in fretta… anche quando non ci sono rischi obiettivi.
Ora questo problema della preparazione al parto non si può risolvere sul piano individuale affidandosi al sanitario di fiducia (in tanti anni non è stato fatto alcun passo avanti, se non nel settore delle anestesie, ma qui non siamo più nell’ambito del parto naturale!). Non si risolve a livello di massa nemmeno andando a scuola, cioè frequentando corsi specifici di preparazione. È un rapporto questo – di esperti che insegnano e di gestanti che ascoltano o eseguono esercizi – che non soddisfa più. Certo le nozioni occorrono, gli esercizi anche, ma il rapporto deve essere diverso e deve raggiungere tutte le donne.
So di alcune che hanno portato avanti in gruppo i loro problemi di gestanti; altre che, insieme ai loro compagni, hanno programmato figli più o meno nello stesso periodo, proprio per vivere-insieme la loro gravidanza. Certo la maternità è prima di tutto esperienza personale, ma se non trova al tempo stesso la sua dimensione sociale, conduce a chiusura, a sterilità psicologica.
La maternità porta inevitabilmente con sé fattori positivi di introspezione ed anche di regressione che possono essere valorizzati, resi creativi dal confronto con esperienze similari. Ma le donne sanno anche, per sentito dire o perché hanno messo il naso in una «maternità», il rischio di eventi negativi che le attende e proprio questo può spingerle a unirsi, a scambiarsi idee e sensazioni.
Non sarebbe male d’altronde se le donne, partendo da vissuti personali (la paura, la volgarità di molti medici), coinvolgessero ginecologhe e ostetriche attente a una ben diversa realtà femminile. Il vantaggio sarebbe enorme per le gestanti che si sentirebbero ulteriormente sostenute (nove mesi sono lunghi a passare quando si è angosciate) e per le partorienti che giungerebbero al momento vitale ben più agguerrite. Infatti il lavoro di autocoscienza relativo a questo aspetto della femminilità non basta.
Occorre una preparazione specifica: conoscenza dello sviluppo embrionale e fetale, rischi che il bambino corre subito dopo il concepimento, nei primi tre mesi, durante e dopo la nascita; esercizi adeguati di rilassamento e di respirazione (si è parlato persino di un parto nell’acqua): lo scopo è di recuperare la dimensione naturale del partorire, faticosa se si vuole, ma non dolorosa quando si sappia fare buon uso del proprio corpo.
In questi gruppi di donne sarebbe utile anche il contributo di una esperta dei problemi dell’inconscio, che aiuti a districare il groviglio dei conflitti emergenti nel corso della gravidanza, a volte diversi da figlio a figlio: quelli arcaici con i propri genitori, quelli sessuali, le antiche paure della vita e della morte, del soffrire e del godere. È nello scambio dei vissuti e delle informazioni che le gestanti possono uscire vittoriose di fronte all’incognita del parto, sì da gestirla in prima persona. Da più parti si sente auspicare il ritorno del parto in casa, mentre si afferma la costruzione di grandi ospedali (e la abolizione — nei pochi dove ancora esistono — di stanze con minime «nurseries» individuali). Bisognerebbe almeno aumentare il numero di piccoli ospedali periferici, con personale preparato al rispetto della vita, oltre che seriamente addestrato sul piano sanitario. Sembrerebbe ovvio, ma sappiamo bene come vanno le cose da noi. In Olanda (ad es.), esiste una rete capillare di assistenza a domicilio per incoraggiare — là dove non ci siano gravidanze a rischio — il parto in casa. In casi d’emergenza scatta un pronto intervento che mette al sicuro madre e figlio. Da noi invece è meglio andare subito in ospedale — e prenotare per tempo — perché in casi estremi si rischia di non trovare ambulanze, medici, posti letto ecc., ecc.
Solo dalle donne — dirette interessate — può venire una spinta a concepire diversamente l’assistenza al parto e al nascituro. Sono.loro che devono ribellarsi alla più dannosa delle violenze: quella che rischia di danneggiare in modo definitivo i bambini — e quindi il sociale — o per lo meno di alterare il rapporto madre-figlio. (Il dolore si dimentica, ma non certo esperienze tanto negative).
Quando parlo ad amiche di questi problemi dico: «Donne, è bello partorire. Vale la pena. Importante è lottare perché sia un momento vittorioso della nostra vita e questo possiamo farlo solo noi»,
Con questo non voglio escludere a priori gli uomini, i padri. Bisogna certo coinvolgere anche loro. Non sarebbe male se assistessero al parto (nei corsi londinesi e francesi di psico-profilassi non frequenta solo la madre, ma si richiede la presenza della coppia, nei limiti del possibile) magari solo per essere vicino alla compagna se questa lo desidera; per vedere il figlio fin dal primo momento; per sentire sulla propria pelle la doppia fatica del partorire e del nascere. (Assistere a un parto naturale, ben condotto, è sempre una esperienza esaltante, fragile e potente insieme).
Taluni ostetrici incoraggiano il padre a tagliare il cordone ombelicale in loro vece: recupero di antichi rituali o presa di coscienza di un rapporto a tre, iniziato con il concepimento? L’altro polo del problema è il bambino, che trae vantaggio dall’essere accettato fin dagli inizi; dall’essere seguito amorosamente durante la gestazione; ‘ dal nascere bene. (C’è un parto e una nascita, una gravidanza e una gestazione: stiamo attenti a non confondere!). È ben noto come la psicoprofilassi al parto (metodi Read e Lamaze) o il R.A.T. (preparazione al parto per mezzo del Training Autogeno) riducono dell’80% e più il/tischio di «incidenti» nel parto ovvero di traumi perinatali che possono danneggiare il feto in modo irreversibile. Ho usato parole difficili? Macché, si tratta di due tecniche per il parto naturale, basate sul rilasciamento e sulla respirazione. Molto diverse tra loro, la seconda pare più efficace della prima, bisognerebbe conoscerle a fondo, diffonderle, non lasciarle nelle mani degli «addetti ai lavori». Sono tecniche da «medici scalzi» — non è, indispensabile essere ostetrici, anche se i medici lo affermano. In Francia e in Inghilterra i preparatori al parto non sono necessariamente laureati o esperti in arti sanitarie. Le donne dunque potrebbero padroneggiarle e diffonderle. Si tenga presente che il bambino può correre altri rischi: la meccanica stessa del nascere, l’intermittenza di ossigeno, farmaci presi attraverso la madre, l’uso del forcipe, del vacuum o di altri mezzi meccanici possono ledere centri vitali. Anche l’uso indiscriminato di farmaci «acceleratori» (parto pilotato) o di potenti anestetici non è del tutto senza pericoli.
Come donne dobbiamo fare quanto è in nostro potere per avere figli sani: «Pochi ma buoni!». Un altro vantaggio che il bambino trae da una buona nascita con una madre attiva e presente a ciò che accade è lo stabilirsi di un buon rapporto con lei fin dai primi istanti. Lei lo ha veramente «messo al mondo» e grazie alla preparazione non lo vive come un estraneo o un nemico.
L’ideale sarebbe che alla nascita seguissero momenti come li propone l’ostetrico francese Leboyer: luci basse, il bambino sul ventre della madre, le mani su di lei sul suo corpo, il bagno eseguito con calma, quiete, silenzio. In alcuni ospedali questo si va diffondendo ma l’opposizione è forte. Quest’attenzione al bambino e alla madre è vissuta come «debolezza» da parte maschile o come perdita di tempo (ma non si deve comunque aspettare che la placenta venga espulsa naturalmente dall’utero? E allora nel frattempo, invece di fumare o di raccontarsi barzellette… In realtà non si vuole rinunziare alla routine e alla condizione d’inferiorità della donna che accrescono il potere dei tecnici) .
C’è poi il problema delle cure al neonato nelle ore e nei giorni seguenti:
— la separazione dalla madre nelle grandi «nurseries» dove i suoi bisogni individuali restano inascoltati (e dove il pericolo di infezioni aumenta anziché diminuire) ;
— l’orario di sonno e di suzione imposto;
— lo scoraggiamento sistematico allo allattamento materno…
Ma c’è anche il problema della puerpera che si trova sola, inutile e come svuotata senza il figlio; di nuovo, oggetto.
Una situazione avvilente che aggrava lo stato fisiologico di depressione presente nei 2-3 giorni successivi al parto. In questi casi l’abbandono, la fragilità emotiva, la somministrazione indiscriminata di farmaci possono condurre a conseguenze disastrose per l’equilibrio della madre. Una ragione di più per essere sveglie e attive!

Amiche, diamoci da fare:
— raccogliamo informazioni sugli ospedali dove si partorisce bene e dove il figlio è rispettato al pari della madre;
— formiamo gruppi di sostegno e di studio con le gestanti;
— apriamo nel nostro giornale una rubrica per pubblicare testimonianze, appelli, indirizzi;
— pubblichiamo recapiti di consultori femministi dove il tema del parto sia affrontato in forma sistematica;
— cerchiamo nomi di ostetrici e ginecologi — femmine o maschi — che rispettino la donna;
— cerchiamo libri che parlino dell’argomento, tesi di laurea, di preparazione al parto…

Alcune indicazioni:
AA. Varie «Lager maternità» Bompiani;    L. Paggio «Avanti un’altra» La Salamandra;
Ehrenreich-English «Le streghe siamo noi»: c.s.;
Crocellà-Coradeschi «Nati in carcere» Emme;
E. Wright «Partorirai con gioia» Ferro;    F. Leboyer «Per una nascita senza violenza» Bompiani;
Montagu «Il tatto» Garzanti;
G. Eberlein «Sani con il training autogeno» Feltrinelli;
Berlinguer Terranova «La strage degli innocenti» Nuova Italia.
Centro Nascita Montessori (dir. Elena Belotti) Corso Vittorio Emauele 118, 00186 Roma;
Centro di medicina sociale (dir. Prof, Padovani) Ospedale di Zevio (Verona) per il R.A.T. e i corsi per preparatori rivolgersi a Padovani o al Dr. Piscicelli presso il Policlinico Gemelli di Roma.
All’estero:
Société Francaise de psychoprophilaxie obstétricale, Paris XI, 9 rue des Bluets;
The National Childbirth Trust, 41 Reeves Mews, London W 1.