l’amore materno è…

la scienza che calpesta l’essere umano, che invece di aiutare la donna inventa, per la sua gloria, modi sempre più rocamboleschi di diventare madri. Le ragioni, il movente egoistico che ha spinto due donne alla fecondazione artificiale

settembre 1977

in questi ultimi tempi due fatti di cronaca, di cui sono protagoniste due donne ed il loro bambino neonato, hanno avuto grande rilievo sulle pagine, di giornali e riviste.
Il primo è quello di una giovane donna inglese, autrice delle famose vignette «L’amore è…», che ha dato alla luce il suo terzo figlio, programmato con la fecondazione artificiale, e nato diciassette mesi dopo la morte del padre.
Il secondo è quello di una donna americana ohe è riuscita pure lei a partorire una figlia, nonostante abbia passato gran parte della sua vita in emodialisi (rene artificiale per il depuramene del sangue) per una malattia renale cronica che la costringe tuttora a sottoporsi due volte la settimana alla nefrodialisi.
In entrambi i casi, la stampa estera, e di rimbalzo quella italiana, si sono profuse in elogi sui successi della scienza e sul coraggio delle madri ed in entrambi i casi si è parlato di eventi eccezionali, unici negli annali della medicina. Ci sembra opportuna qualche considerazione su questi due fenomeni, che hanno al centro la donna ed un modo di esprimersi della personalità femminile, senza lasciarsi prendere dagli entusiasmi giornalistici sulle infinite possibilità della scienza.
Da un certo punto di vista femminista — quello più temuto a livello conscio e inconscio dall’uomo — nel primo caso si potrebbe persino ravvisare l’evidenza dell’assoluta superiorità biologica della donna sull’uomo, in quanto essa è l’unica capace e indispensabile nel creare e donare la vita. Con questa nascita postuma si è dato vita, infatti, per la prima volta, a certi fantasmi che si aggirano nei libri di fantascienza e che preconizzano (terrorizzando ovviamente il maschio) una società fatta tutta di donne. Queste ultime, dopo aver ottenuto una adeguata scorta di seme maschile, immagazzinato in apposite banche, potrebbero uccidere tutti i maschi, o semplicemente abbandonarli al loro destino per trasferirsi in un altro mondo a creare un nuovo regno delle Amazzoni, continuando a riprodursi grazie agli spermatozoi depositati e mantenuti in freezer. Una visione abbastanza agghiacciante (in tutti i sensi) dal nostro punto di vista di donna: non a caso, l’autore di questo terroristico intreccio, di fantascienza è un uomo.
Ma anche senza arrivare a tali eccessi, non si può fare a meno di rilevare che nei casi di queste due donne diventate madri, il protagonista maschile della riproduzione della specie è completamente trascurato, è un mero strumento di cui non interessano né i sentimenti (il marito che ha depositato il seme in banca prima di morire trovava ripugnante tutta la faccenda), né le vicende. La loro unica funzione diventa quella dello stallone o del fuco, poco più che un burocrate delegato dalla società alla riproduzione. Al contrario chi trionfa, sfidando le leggi naturali, anzi sfidando addirittura la morte (quella del suo compagno nel caso della disegnatrice londinese, quella propria nel caso della emodializzata) e ottiene caparbiamente di mettere in pratica le proprie ambizioni, è lei, la matriarea, la donna ohe ancora una volta si realizza come madre.
Ma per la donna tutto questo è davvero un vantaggio? Un successo personale? Qualcosa ,di cui trarre vanto e di cui gloriarsi? Abbiamo molti dubbi in proposito.
Anche la donna, in questi due casi, non ha altra funzione che quella di uno strumento, un contenitore per l’esattezza, nel quale vengono introdotti gli elementi necessari e nel cui interno avvengono certe trasformazioni che porteranno alla nascita di una nuova creatura che, per crescere, aveva bisogno solo di un involucro adatto. Ma allora, se protagonisti del processo della riproduzione umana non sono più né l’uomo né la donna, chi rimane? Rimane, purtroppo, la scienza, divenuta il vero partner della donna in questa relazione anomala, atta più a creare aborti ohe bambini. La scienza, che tradizionalmente non è mai stata donna (poiché a quest’ultima è precluso l’accesso alla scienza), non è neppure uomo, poiché si è ormai troppo raffinata per poter essere, nelle sue manifestazioni, opera di un singolo individuo. Essa rappresenta — almeno nei due casi esaminati — piuttosto un insieme, una équipe di uomini che hanno tuttavia bisogno del contenitore donna per poter portare avanti i propri progetti creativi. Poiché ancora non è concesso, alla scienza, di creare il nuovo essere umano in vitro, essa si serve tutt’ora di materiale vile e tradizionale ma funzionale, qual è il corpo della. donna, e lo utilizza per i propri esperimenti di avanguardia. La scienza utilizza inoltre per i suoi scopi i condizionamenti infantili della donna a sentirsi realizzata solo nella maternità.
Il fine? La gloria della scienza, l’affermazione dell’intelletto umano (maschile), il mito dell’uomo demiurgo e creatore, l’esperienza scientifica che non conosce più nessuna barriera e… la relazione ai dotti colleghi nel prossimo Congresso internazionale di genetica o di qualche altra branca delle scienze. Il risultato ultimo, sarà il saggio sulla rivista medico-scientifica specializzata che frutterà al suo autore la qualifica di «prof.» e la conquista di un incarico o di una cattedra universitaria.

Quello di cui nessuno ha parlato, su riviste e giornali, ed è stato trascurato come cosa di nessuna importanza, di fronte alla «nuova conquista della scienza» e al «coraggio della giovane madre», è stato il prodotto di questa ibrida relazione fra il progresso scientifico e la donna. Tale prodotto così trascurabile dal punto di vista emotivo e psichico (beninteso si è dato rilievo al fatto che i neonati erano perfetti, non mancava loro nessun organo, ed erano del giusto peso) è il bambino. Questo bambino che, nel primo caso, è nato «postumo, mediante fecondazione artificiale, da Kim e dal povero Roberto», secondo la sentimental-spiritosa partecipazione di nascita, redatta dalla sua mamma, una donna ostinata e viziata che dalla vita aveva avuto tutto e, dopo la morte del marito, «aveva il bisogno di soddisfare una sua personale aspirazione, anzi una sua necessità». Con questo nuovo giocattolo, il bambino, mammina otteneva così due cose: primo, con gusto un po’ necrofilo, farsi inseminare {artificialmente) dall’adorato marito morto e ricoprirne il vuoto lasciato e, secondo, essere la prima donna al mondo a poter dire di avere un figlio diciassette mesi dopo la morte del marito, una pubblicità da non sottovalutare per una autrice di vignette e comunque per una persona che ha un bisogno profondo di imporsi all’attenzione del prossimo. Il secondo bambino ha dato invece alla sua mamma la soddisfazione di sentirsi una donna come tutte le altre, di dimostrare a se stessa che con la forza di volontà si ottiene ogni cosa. Anche un figlio, a dispetto che, dato le gravi condizioni di salute, tutti sconsigliano la nascita di un bambino. Questa giovane americana avrà detto a se stessa: che mi importa di vivere se non posso neppure avere un figlio? Tutte le mie amiche hanno un figlio ed io no. Ebbene, allora preferisco morire. O faccio un bambino nonostante tutto o muoio.
E dire che qualcuno questi fatti li chiama «sublime amore materno», invece di chiamarli con il loro vero nome: egoismo, anzi egocentrismo, desiderio di affermazione personale, ignoranza, atteggiamenti infantili di rivalsa, nevrosi.
Ora queste due donne avranno il figlio che si sono conquistate grazie alla loro caparbietà e grazie al progresso scientifico.
Ma è davvero scienza quella che consente che un bimbo nasca orfano di padre, alle prese con una madre che aveva bisogno di un oggetto da amare al di là della morte del marito, che si autonomina valida madre e valido padre, capace di soddisfare tutti i bisogni psicologici del bambino? O è davvero scienza quella ohe aiuta una donna malata gravemente a diventare madre, facendo in modo che, fin dal suo primo giorno di vita, il piccolo abbia davanti a sé una creatura non sana e piena di gioia di vivere, capace di giocare con lui, di essere sempre a sua disposizione, ma invece una donna costretta all’emodialisi due volte la settimana, la cui vita e speranza di sopravvivenza è legata ad una macchina (e non si sa per quanto tempo), in cui l’intera famiglia sarà sempre preoccupata e presa dalla malattia della madre, piuttosto che interessata alla crescita del bambino… E quante volte diranno a questo bimbo, a misura che crescerà: «Sai la tua mamma ti ha fatto nascere, a sprezzo della sua vita. Forse, mentre tu nascevi, tua mamma moriva. O ancora : la tua mamma ti voleva tanto bene che ha voluto che tu nascessi nonostante questo potesse farla morire…». Un ricatto continuo, teso a persuaderlo dell’amore sovrumano della mamma per lui, un amore che non dovrà mai essere tradito, a costo di sentirsi responsabile della vita e della morte della madre, o di sentirsi un miserabile per ogni piccolezza che potrà compiere di male verso quella mamma che l’ha amato più della sua smessa vita.
Ecco come la scienza — quella davanti alla quale tutti rimaniamo estatici e ammirati — con tutto il suo sapere, con la sua prosopopea, grazie al progresso raggiunto può fabbricare non la vita, ma un aborto di vita, due esistenze di nevrotici o di psicotici, che altri dotti colleghi e uomini di scienza dovranno curare, nella psiche a misura che cresceranno.
Scienza sarebbe stata, in questi casi presi ad esempio, aiutare queste due donne a superare i loro periodi difficili con una terapia adeguata’ con la comprensione, con la presenza di persone valide accanto a loro, perché potessero riprendere piacere alla vita e si ponessero obiettivi validi per ottenere àncora la fiducia in se stesse e la gioia di vivere, senza mettere di mezzo sempre i bambini e usarli nel ruolo di tappabuchi, di assertori involontari della propria fecondità, di consolatori, di strumento di piacere dei grandi, indipendentemente dai loro bisogni, dalle loro caratteristiche personali, dalla loro vulnerabilità e dalla loro aspirazione a non essere soltanto un giocattolo degli adulti.
Ma certo, .tale tipo di scienza, sarebbe passato del tutto inosservato. Le vicende di queste due donne non sarebbero ribaltate sulle prime pagine dei giornali e non sarebbero neppure venuti alla luce i nomi di quei medici, scienziati e sperimentatori insigni, che hanno compiuto il «miracolo». E così continuiamo a sacrificare tutto alla scienza per gloriarci delle sue imprese sempre più ardimentose, e troviamo insignificante che, per affermare se stessa, la scienza debba calpestare l’essere. umano. Che importa se si usano strumenti, quali il seme di un uomo che non ne sa nulla? Che importa che per soddisfare due donne egocentriche si usufruisca del loro corpo a titolo di esperimento? Che importa l’equilibrio mentale e psichico del bimbo che nascerà e che sarà una vittima di più di quel complesso di Laio che tende a far sì che i genitori, le madri, i padri, abusino dei loro figli ed instaurino con essi una relazione di amore che spesso sconfina nell’egoismo materno e paterno?
L’essere umano non conta più, le sue conquiste scientifiche sono diventate molto più importanti, di esse ci beiamo, incuranti del fatto che ci distruggono ogni giorno un po’. Un’ultima considerazione infine, indirizzata a quegli uomini che temono di venire esautorati nei loro poteri da quelle che considerano donne femministe. Crediamo che nessuna femminista potrebbe identificarsi nelle due donne di cui abbiamo discusso, assetate di maternità. Esse rappresentano proprio quel modello femminile (madri amorose, spose perdutamente innamorate del marito, fedeli a lui anche dopo la morte, creature fragili e vulnerabili, spesso malate). Ebbene, non sono proprio queste donne e non le femministe, a fagocitare e destituire il maschio (come nei casi descritti) del suo potere e del suo prestigio?