sputiamo sui mostri sacri

settembre 1977

allarmate dal fatto che ogni nostra critica all’ideologia e all’operato della «sinistra» (dando a questo vocabolo la più ampia accezione possibile) viene accolta da altre femministe o sedicenti tali (fa tanto «in» dichiararsi femministe) con sbigottimento e/o indignazione, non dovuti al contenuto della critica, ma all’esistenza della critica stessa, ci pare opportuno mettere in piazza il problema per vedere se siamo rimaste solo in due a non lasciarci sopraffare dal bisogno di proteggere tabù e mostri sacri. Siamo così ingenue da credere ancora ohe il femminismo sia il primo tentativo fatto nella storia di rivoluzionare tutto alla base e di mettere in discussione qualsiasi dogma, un rifiuto deciso di qualsiasi addottrinamento culturale. Perché è vero ohe siamo, anche culturalmente, delle colonizzate, ma se lottiamo è per scuotere questo giogo, non per ribadirlo facendo il gioco di chi ce lo impone. Non vogliamo essere costrette a studiare musica al conservatorio, vogliamo suonare il nostro jazz, come anche i «poveri negri non politicizzati» avevano capito.
E a proposito di maestri e direttori di orchestra che impongono la solita musica, parliamo un po’ della prima parte dello spettacolo di Fo intitolato «Parliamo di donne». (Purtroppo, o forse fortunatamente, non abbiamo visto la seconda). Questa trasmissione era presentata (Paese Sera) come «interamente dedicata alla condizione femminile». Come ci ha informato lo stesso giornale, tutti i materiali dello spettacolo: i testi, le canzoni, le immagini, sono opera di Dario Fo. Nemmeno «La Capanna dello Zio Tom», per quello che vale, è stata scritta da un nero. Corsi e ricorsi storici. Come ha detto Elena Vitas, sul numero di maggio di Effe: «… la cultura borghese (noi diremmo meglio: la cultura del potere, quale ne sia la denominazione contingente) se da una parte è solo ideologica dall’altra però è anche realtà, vita, proprio perché costruita sulla ruberia dell’autenticità altrui, dell’espressione culturale e artistica di operai, contadini, donne, negri, emarginati. È una cultura di ” potere “, per questo prevaricatrice e violenta, che può esistere solo espropriando contenuti di altri, contribuendo così a costruire un metodo culturale di dominio, che nega la , differenza perché ne ha paura…». Anche a Dario Fo, evidentemente, questa differenza, cioè la contrapposizione uomo/donna nella fattispecie, deve fare paura, come del resto a tutti gli uomini, specie a quelli ohe vogliono sempre sentirsi nel giusto, riconoscersi solo nella veste di oppressi, mai di oppressori. Da qui la negazione della contrapposizione uomo/ donna, o la mistificazione di essa, magari sostituendo il primo termine, «uomo», con quello di «uomo-cattivo-odia-to-anche-da-noi-altri-uomini», cioè l’uomo in cui io, uomo giusto, certo non mi posso riconoscere e che anzi, guarda caso, è proprio quello che combatto io. Il secondo termine della contrapposizione, la «donna», acquisterà allora un’identità a seconda di quella che si dà appunto al termine «uomo» (operazione nuova!). Nello spettacolo di Fo, che voleva essere un’analisi dei problemi della Donna, con la D maiuscola, il termine donna ha designato l’Operaia e la Mamma Del Sindacalista Contadino, in contrapposizione al Padrone Della Fabbrica e al Latifondista. Fo ha esordito, nella sua chiacchieratina col pubblico, esortando le donne a non prendersela se per l’ennesima volta si trovavano rappresentate in un contesto comico, perché, ci ha ricordato, il comico è il mezzo che il teatro popolare ha sempre usato per ‘ denunciare le situazioni di oppressione. A questo punto siamo noi a ricordargli che il ridicolo -è sempre stato usato anche dal potente per ridere del subalterno, facendo la ■caricatura dei tratti che lui considera propri di un essere inferiore. Familiari sono le caricature e le battute sul contadino rozzo, sul nero eternamente se-‘mi-primitivo, sul popolo ignorante e, guarda caso, sulla donna, presa come tale. Quindi abbiamo due fronti del ridicolo, quello di chi è in posizione di potere e manifesta il suo disprezzo per i subordinati, e quello dell’oppresso che mette in ridicolo il potente, proprio per denunciarne l’oppressione. Fo, dunque, se voleva restare nell’ambito della comicità-denuncia, avrebbe dovuto mettere in ridicolo gli oppressori, e cioè gli uomini, gli uomini di tutti i giorni e dì tutti ì ceti, quelli che tutte noi, anche le non operaie (ci perdoni Fo), conosciamo benissimo. A meno che non abbia pensato che, dopo essere stato, da bravo maschietto, tanto «invadente»(! ) da scrivere «testi ‘femministi’ per la moglie», fossimo tanto minorate da rabbonirci facendosi spaccare in testa un vaso finto dopo aver fatto finta di essere un finto invadente.
Forse in quella trasmissione Fo si è un po’ ingarbugliato a proposito di comicità popolare, perché sul tema «donna» la comicità popolare ha una sua millenaria tradizione in fatto di ridicolo a spese della donna, perché a quanto pare anche tra il «popolo», tra gente senza potere, c’è chi ha ancora meno potere del senza-potere. Noi però non abbiamo più intenzione di tollerare rappresentazioni di testi scritti da uomini che ci presentano le donne come povere sceme inconsapevoli che, se qualcosa alla fine capiscono, è quello che l’uomo di turno vuole che capiscano (come Enea di «Ruba un po’ meno», la becchina stupida e credulona, ma che sta tanto bene in sottoveste, che ha la grande aspirazione di fare la prostituta e che solo alla fine arriva a comprendere l’alta missione dell’uomo che vuole denunciare le magagne dei potenti). E tantomeno tolleriamo codeste rappresentazioni quando oltretutto hanno il cazzo di bronzo di presentarsi come interpreti delle analisi e dell’ideologia create dalle donne.
Nella prima parte di «Parliamo di donne» Fo aveva esordito cominciando col parlare della mistificazione della costola e di Eva peccatrice, ma ha subito abbandonato qualsiasi analisi storica, poiché questa avrebbe inquadrato il problema in un’ottica che scavalca a pie pari la tematica della lotta di classe, e si è subito buttato su «l’Operaia». Ma la prima operaia che ci ha presentato, quella sbadata che confondeva lo zucchero col bicarbonato, l’unico discorso sull’oppressione che alla fine, davvero inaspettatamente, è riuscita a fare, non riguardava lei in quanto donna né i suoi rapporti con gli uomini di casa, il marito e il figlio, come avrebbe dovuto essere nel tema della trasmissione, ma riguardava «naturalmente» la presa di coscienza del marito sui rapporti tra operai e padroni, e le conseguenze della recessione. Poi, dopo una canzoncina sulla donna disperata perché sterile, che vuole «naturalmente» un maschio e «naturalmente» per far piacere al marito (e qui si sorvola su tutti i perché e i percome si arrivi ad un lamento del genere), canzoncina inframezzata da un tentativo alquanto abortito di mettere in ridicolo certi slogans pubblicitari per neo-mamme, forse con l’intento(???) di denunciare con questo l’obbligatorietà della maternità perché-altrimenti-non-sei-donna, si passa subito alla rappresentazione, e qui «naturalmente» si abbandona di colpo il tono farsesco, della Mamma-del-sindacalista-contadino, la quale parla per un quarto d’ora abbondante, ma mai di se stessa, per carità!, parla «naturalmente» dei problemi dei contadini e della vita morte e miracoli di suo figlio. Di lei sappiamo solo, perché ci è stato detto en passant prima del pezzo, ohe ha diritto di cittadinanza nella trasmissione interamente dedicata alle donne: l°perché è donna, 2° perché è madre di un maschio sindacalista e martire e 3° perché è addirittura impazzita dal dolore per la morte del figlio («Che cosa c’è di più bello di una madre ohe piange per la morte di suo figlio?», frase di un convegno fascista sul ruolo della donna). Per finire Fo ci presenta che cosa? un’altra operaia. Intelligente, almeno? No, scema e credulona anche lei. Ci avvertono però che questa volta non è un dono di natura, ma conseguenza di uso sconsiderato di psicofarmaci. Fo ci fa infatti presente ohe negli ultimi anni è di molto aumentato, da parte delle donne, il consumo di pillole per tirarsi su, di pillole per darsi una calmata e di liquori per evadere dalla realtà. Solo che la stragrande maggioranza delle donne codesti sedativi non li consuma in fabbrica, dove è il padrone che li offre, ma a casa loro. E qui chi glieli offre, perché la donna ne ha bisogno, per chi deve essere efficiente? Questo Fo non lo dice. Comunque il nocciolo di quest’ultima scenetta non sono gli psicofarmaci e neanche, di nuovo, la condizione della donna, ma la denuncia del tentativo fatto da parte del potere di dare sfogo sterile alla rabbia degli operai facendola ricadere su un fantoccio di gomma. Ma noi ci sentiamo di affermare senza complessi e sensi di colpa che tutta questa prima trasmissione, comicamente intitolata «Parliamo di donne», è stato un fantoccio di gomma con il quale le telespettatrici hanno avuto l’illusione di sfogarsi («Finalmente ci considerano!») senza colpire dove c’era veramente da colpire. Un bravo a Fo e a tutti quelli come lui, che riescono così bene a «imitare» il potere.