cinque storie dell’arcobaleno
1 Anna
La scelta per tutte noi di metterci insieme in una cooperativa cinematografica è nata come ricerca di un modo di lavorare insieme che ci consentisse di essere autonome nella ideazione e nella produzione. Essere autonome significa per noi prima di tutto superare il mito della professionalità intesa come controllo-espressione proponendoci un lavoro di gruppo come riappropriazione collettiva dell’ideazione, dell’immagine, dei mezzi tecnici. Riprenderci quindi, contro la mistica della professionalità, quei mezzi tecnici che ci sono stati negati (tranne pochi casi, ma con quanta sofferenza!) proprio in quanto donne a cui è stato concesso in questo settore storicamente maschile soltanto di coprire lavori funzionali e produttivi al lavoro dell’uomo (regista, operatore, direttore di produzione…). Il senso rivoluzionario di questa esperienza non passa solo attraverso la scelta di lavorare tra donne e per le donne, ma anche attraverso la ricerca di un modo di produzione che possa mettere in crisi una struttura di ruoli ben determinati come quella cinematografica. La nostra creatività (la creatività delle donne) può permetterci e ci ha permesso di superare la specificità dei ruoli quando noi tutte abbiamo voluto controllare e gestire realmente tutto; all’efficientismo da set rispondiamo con un’organizzazione del lavoro che è un modo di stare insieme. Non è una semplice rotazione dei ruoli — non interessante per noi perché porta ad un altro efficientismo, ad una nuova professionalità a volte più produttiva ma un rischio che ci mette in gioco completamente; assumersi la gestione di un ciclo di lavoro come quello del cinema che è sempre esistito proprio in quanto strutturato gerarchicamente. Un’equipe ideativa e tecnica di donne è già per sé stessa altro dall’organizzazione del lavoro nel cinema. L’incontro tra donne che si erano confrontate a livelli diversi con la struttura-cinema ha significato avere fiducia in noi stesse. Finalmente appropriarci della nostra creatività. E non questo cade per noi ogni problema di professionalità. Non certo per gli altri, per quelli che non capiscono la nostra proposta. Il nostro primo film — realizzato per l’8 marzo 1977 per la 2″ Rete televisiva — è veramente il rifiuto di una struttura di lavoro che è oggettivamente contro le donne; la fine per tutte noi lavoratrici del cinema del mito del cinema — se ancora qualcuna di noi poteva credere…
2 Paola
Tutto iniziò come un’estrema conseguenza, quando ci incontrammo eravamo stanche deluse distrutte dai continui scontri con il mondo del lavoro, dove eravamo continuamente schiacciate dai ruoli: madri cosmiche di giovani autori, fiori all’occhiello di qualche intellettuale, assistenti abbastanza in gamba per poter fare tutto tranne naturalmente usare le macchine. Avevamo provato ad esistere in tutti i modi, ci restava l’esperienza degli scontri e la possibilità di capire la nostra situazione, forse insieme potevamo fare delle cose, forse insieme potevamo iniziare ad esistere. Le nostre differenze, differenze di linguaggio, differenze di vissuto (quotidiano), ci fecero capire la nostra forza e la possibilità di riconoscerci anche come prodotti culturali maschili. Il bisogno (= desiderio) era il tramite con la nostra storia, poter finalmente rompere gli antichi veli neri e scoprire il nostro mondo interiore, fare uscire i nostri miti, il bisogno dell’infanzia della favola del gioco della magia del femminile, con la possibilità di amare o odiare in un modo nuovo riappropriandoci della vita, poter giocare con i colori, con le parole, con le immagini, poter lottare per noi stesse poter finalmente gestire il nostro inconscio. Quell’inconscio (immediatamente sociale immediatamente storico) dal quale nasce la nostra creatività.
Con il nostro film, finito da poco, prendo possesso della moviola, scopro fino in fondo il segreto delle immagini: il gesto lo specchio il momento il non detto, la somatizzazione l’emozione, il mito la storia, riesco finalmente a trovare me stessa.
3 Silvana
Definire chi si è, come si agisce, per affermare che cosa significa confrontarsi con un’analisi, stabilire una linea di ricerca. Un tipo di ricerca e di analisi che definiamo storica, sia quando si occupa del passato — contro l’immagine eterna della «storia universale» — sia quando si rivolge al presente — contro la spettacolarità della cronaca, della «politica». La storia si racconta. Il nostro codice di racconto sono le immagini.
Il disagio dell’uomo di fronte alla sua immagine allo specchio. Ribaltare il concetto. Ricercare la propria immagine allo specchio — usare lo specchio per riflettervi dentro una «altra» immagine, l’immagine che non c’è stata. Raggiungere questo disagio di fronte alla propria immagine, per conoscere il disagio — conoscere la propria immagine — inventare la storia. «…di rallentatore non fa apparire soltanto motivi del movimento già noti: in questi motivi noti ne scopre di completamente ignoti». Studiare la «storia» al rallentatore significa leggere le righe bianche della scrittura, cercare nelle righe bianche il perché di ciò che appare, un perché in grado non solo di trasformare l’assenza in presenza, ma di sconvolgere il senso stesso della «storia». Ignorare il concetto di «storia» come parola del vincitore. Affermare che il passato anche ci appartiene — la nostra storia — perché ciò che ci nega ieri ha negato anche l’oggi.
Non «c’era una volta.» un movimento (delle donne), «c’era una volta» un episodio di lotta (sconfitto dalla storia»)). Affermare la nostra unità di esperienza, ricercare i ricordi e rivendicarli come nostri, contrapporli al mosaico cronologico e omogeneo della «storia» perché essa perda la sua falsa pretesa di oggettività. «Produrre» immagini è fare politica.
4 Rosetta
Autunno 1976. Un anno di lavoro inutilmente massacrante sulle spalle, ancora uno, e ne verranno tanti altri e io sono una vecchia principessa madre che non crede più al principe azzurro, al massimo solidarizza con la fatica del suo cavallo. O cavalla?
Stancamente, il danaro messo da parte negli ultimi mesi di lavoro è ormai in via di esaurimento, da Santa Maria ai Campi, dai Campi a Santa Maria, la gente che incontri ha la tua stessa stanchezza sulla faccia e l’angoscia del poi e del-perché-di-chi-fa-il-gioco-e bla e bla. Le lunghe chiacchierate dal vinaio, gli spaghetti di mezzanotte, l’ultima manifestazione a piazza Farnese, il vino è sempre più cattivo, Giovanni ormai si buca, si spara davanti al cinema d’essai, morti di Reggio Emilia, gli Inti II-limani, i Festival dell’Unità salsicce e fagioli, coccardina, rossa. La bella zia di via dei Cappellari si ritira nella sua mansardina. È lì che sento parlare per la prima volta delP«arcobaleno», di Fausta, Simona, Anna, Paola, Silvana e tutte le altre compagne di lavoro. Le incontro tutte insieme, in branco, come quasi sempre: hanno opuscoli e giornali e parlano per fare e ridono e gridano e anche litigano selvaggiamente tutte insieme, la stanza è piena di loro e delle loro cose, riviste internazionali e lavori a maglia, trattamenti e caramelle.
Ho lunghi giorni di diffidenza, d’incertezza, di vera e propria paura di questo modo di stare insieme, di incontrarsi e scontrarsi con tanta passionalità e franchezza.
Ho trentanove anni, loro sono quasi tutte molto più giovani di me, come confrontare le mie esperienze con le loro? Cosa mi stanno chiedendo? NON VOGLIO ESSERE LA LORO MAMMA, voglio stare con loro tra loro come loro.
Cominciamo a vederci con una certa regolarità. Faccio fatica a capire, in definitiva, una sola cosa, che quello che mi chiedono è che io sia me stessa, che abbia piena fiducia nella mia creatività, nella mia forza, nel mio corpo. Vogliono che io sia io. Nessun uomo mi aveva mai amata tanto da volere che io mi amassi, nessun uomo mi aveva mai fatto il dono di me stessa. Viene poi il confronto con il lavoro, una struttura d’appalto, i mezzi tecnici in mano a tutte noi, è di tutte la responsabilità di tutto. Da segretaria di produzione — l’angoscia dei telefoni, i direttori, gli ispettori, i produttori — vengo «promossa» dalle donne organizzatore. Ritrovando me stessa, insieme alle mie compagne di lavoro trovo anche la forza che occorre per -un lavoro di così grande responsabilità. Io sono il mio datore di lavoro, i miei orari, i miei «SI» e i miei «NO». Il tutto reso possibile dal fatto di essermi sentita finalmente amata, voluta, accettata: d’amore, si vive.
5 Fausta
Il cinema è il cinema. Al Centro Sperimentale dicevano gli allievi più vecchi che il cinema è una cosa che comunque si scrive con la e maiuscola e poi citavano questioni di morale e di carrellate. Rossellini era molto simpatico, certamente lo era più degli allievi, ma io ero d’accordo che si dovesse attaccarlo le rare volte che lui, forte della sua teoria secondo cui per esistere bisogna avere i coglioni quadrati, lui si lasciava sfidare. Così quando prendevo la parola in assemblea sorrideva affettuosamente qualunque cosa dicessi. In seguito ho anche capito che nel cinema la donna è donna. È stata la mia sana formazione operaista a preservarmi da fascinazioni (per altro démodé) da cinèfile. Quando sei piccola l’analisi ti serve a capire che il cinema non esiste e che esistono solo i rapporti sociali di produzione. La scoperta sucessiva riguarda lo stile di questi rapporti — e si sa lo stile è l’uomo. Nell’epoca in cui la riproduzione tecnica è assunta dal capitale come totalità del reale, la cosa da distruggere per te che sei una donna, è il modo di produzione delle estetiche che passano sopra il tuo corpo con la scusa ideologica della specularità. Si sa che nell’ottica il corpo è necessario come funzione di corpo: la ripresa è il contrario della riappropriazione. E poi i giovani autori, la storia del linguaggio e la rottura del linguaggio come struttura del potere dominante. Come si fa anche soltanto a fare i «critici» di un linguaggio se non si vive un «reale» diverso, se non si sceglie anche una realtà precaria, se non si abita una terra strana, mai difendibile sul piano del diritto e del dovere, delle convenzioni, delle sintassi anche di sinistra.