per chi critica la critica

intervista ad aurora santuari, critica cinematografica dì “paese sera”

aprile 1977

«non sì può rinchiudere il sessismo nel cinema in una formula unica, perché esso è presente anche nei film cosiddetti d’autore».

Che cosa intendi, personalmente, per critica cinematografica? Quale funzione e quale valore ha la critica? Quale peso nel mondo della produzione cinematografica?
È una domanda molto complessa, ci sono grosse discussioni sulla funzione della critica e sul modo di farla. Data la vastità dell’argomento, bisognerebbe fare un lunghissimo discorso per evitare definizioni generiche, tenendo conto che lavoro per un quotidiano, la funzione principale della critica è quella tipicamente di servizio per il lettore, al quale si debbono dare più informazioni possibili esulando, secondo me, da tutte quelle elucubrazioni intellettuali tipiche delle riviste specializzate. Ma anche a questo proposito c’è molta disparità, non tanto di vedute, quanto di pratica, perché ogni critico proviene da un’esperienza diversa. C’è chi nasce appunto dalle riviste, chi invece s’è fatto le ossa nel lavoro redazionale e arriva alla critica perché tende verso un settore che preferisce, ma senza un titolo specifico, «formale». Come quello che forse si vorrebbe richiedere quando Oreste del Buono dice «il critico laureato» parlando con Kezich, cioè tra addetti ai lavori, appunto. Servire il lettore, quindi, cercando anche di illuminarlo su tutti i retroscena del prodotto cinematografico, che altrimenti viene fruito abbastanza passivamente. Sul valore della critica: credo che i lettori la seguano abbastanza, specie se fatta in questo modo; mentre rifiutano quei discorsi che poi, tutto sommato, cercano degli alibi per non mettere le unghie sulla materia. Nel mondo della produzione cinematografica, malgrado abbiano maggiori mezzi per incidere sulla pubblica opinione, c’è una certa tendenza a «controllare» il lavoro del critico. Sia con interventi diretti che non si possono, ovviamente, documentare; sia attraverso il ricatto continuo che fanno all’amministrazione dei giornali di dare o meno la pubblicità in ragione di quanto è stata positiva la recensione. Ci sono case cinematografiche che ti «puniscono» togliendoti la pubblicità se, secondo loro, ha parlato male del film.
II giornale, in un certo senso, sarebbe costretto a fare pressioni sui suoi collaboratori?
Devo dire la verità, qui la pressione è molto indiretta in quanto nessuno ti obbliga a non dire quello che pensi; ma è chiaro che ti costringono ad un’autocensura, se non altro per la responsabilità che ti senti sulle spalle, sapendo le condizioni economiche dei giornali; quindi fai molta attenzione a quello che scrivi, dal momento che, per quindici righe di «stroncatura», gli puoi far perdere un introito di un miliardo l’anno. Poi c’è l’altro peso della pubblicità cosiddetta «redazionale», cioè i testi scritti e pagati come pubblicità. Il sindacato critici si è molto battuto affinché non venissero più accettati o, quanto meno, indicati molto chiaramente come «pubblicitari». Infatti la grande massa del pubblico ne rimane estremamente disorientata; non riesce a spiegarsi come possa apparire, sullo stesso giornale, prima una recensione magari negativa, poi un «pezzo» di lodi sperticate, anche perché questi «pezzi» vengono scritti sempre più con lo stile della critica, in modo che il lettore riesca a credere che fanno parte del giudizio del giornale.
Quale deve essere la funzione della donna-critico rispetto ai film sessisti?
Io penso che dovrebbe essere la stessa per qualsiasi tipo di film, per esempio i film di violenza. Oppure non rinchiudere il sessismo in una certa formula, tanto più che Jo possiamo ritrovare un po’ dovunque, anche nei film cosiddetti d’autore, non solo in un particolare filone. Infatti, determinate prevaricazioni e un determinato uso che si fa della donna nel cinema — anche se per alcuni autori nascono da frustrazioni profonde, più che legittime —, diventano comunque espressione di una ideologia precisa. Anzi, bisogna dire che ultimamente ci stanno piuttosto attenti, sembra gli sia venuta una certa paura, addirittura… Però io eviterei quelle campagne «forsennate» come è successo per «Life-size», che a mio avviso è stato mal interpretato; ma la mia opinione in proposito è nota, perché l’ho espressa a suo tempo. Secondo me, bisogna distinguere tra l’elaborazione critica che fa vedere come la donna è trattata e considerata nella società, e lo stare dentro questa materia, invece, senza la minima analisi. È un argomento comunque delicato, perché, anche quando si tratta di film sfacciatamente «mercenari», è difficile indicare i limiti oltre i quali tu diventi una «spia» della censura dicendo certe cose; così ti può capitare di essere convocata come testimone d’accusa per eventuali sequestri; o essere accusata di sessuofobia, come a me è capitato tante volte, per aver parlato male di alcuni brutti film sul sesso, mentre, in
realtà, parlo male di qualsiasi brutto film.
In genere, le recensioni di quei film di bassissimo livello, come «La cameriera», si esauriscono in poche righe. Riterresti valido che un giornale dedicasse più spazio a tali film, in modo da analizzarli meglio, per condurre una battaglia più ampia e più impegnativa contro questo modo di fare cinema?
Varrebbe senz’altro la pena di farlo. Purtroppo, l’abitudine invalsa e quella di dedicare poco spazio a questi film che poi, oltre alla «Cameriera», sono anche «Roma violenta» perché, in quanto brutti, vengono considerati poco importanti, mentre invece sono quelli che incidono più profondamente nel costume. Così, solo casualmente riesci a farci un discorso serio, magari quando capita che c’è un buco da riempire nella pagina: allora ti è possibile fare un pezzo in cui dimostri che un film di Corbucci è pur sempre un film di regime. Si potrebbe ovviare facendo un articolo ogni tanto, dato che la massa di questi film è talmente grande e anche ripetitiva, e tu dovresti ripetere le stesse cose ogni volta. Certo, un pezzo di riepilogo incide di meno, perché il film nel frattempo viene consumato comunque. Spesso, si dà più spazio a film altrettanto brutti, che, però, sembrano aver maggior peso perché trattano altri argomenti; quindi sei costretta a fare discorsi talmente schematici che possono rivolgersi contro di te per non aver argomentato… ma in venti righe è difficile argomentare qualsiasi cosa. C’è poi un preciso orientamento della critica, contro il quale mi sono sempre battuta nel sindacato a trascurare i
film «peggiori», cioè «poco importanti», privilegiando quelli ritenuti «più importanti». Questo è a dir poco arbitrario: chi decide che un film è più importante di un altro? Poi in tal senso viene a pesare la potenza della casa di produzione e della distribuzione, per cui un film mettiamo di Rizzoli si recensirebbe sempre.
Ritieni esagerato affrontare ogni tipo di film in base, anche, alle figure femminili rappresentate?
Dipende dallo spazio che dà ai vari elementi e dal peso che hanno nel film; se questo elemento emerge, va sottolineato. Io lo faccio. Anzi, ti leggo una lettera che ho ricevuto, contro il mio «furore femminista»… perché avevo scritto che le donne rappresentate in un certo film non erano donne vere, ma donne a immagine e somiglianza della idea che ne hanno loro. Si trattava della «Pretora». Dice:  «La Santuari, nel suo furore femminista, oltrepassa davvero la misura; il pezzo comincia: “A giudicare da come gli uomini si dipingono nei film da loro diretti, si direbbe che abbiano perso ogni rispetto di sé, come una classe in decadenza… (perché facevo l’esame di quelle facce stravolte, bavose, ghignanti che spiano le varie ‘pretore’). “Se è la lingua italiana a non essere in decadenza, ciò vuol dire che tutti i maschi, appena vedono una donna hanno facce storte, bocche schiumose, corpi sgraziatamente in fregola o ammiccamenti beceri”… (questo l’ha preso dall’articolo, ma trascurando di dire che mi riferivo a quel film e agli uomini di quel film). Prosegue implacabile: “per non dire della .platea, ovviamente tutta maschile”, (infatti era tutta maschile, anche se lì io non lo scrivevo, ma evidentemente 1° sa, perché c’era anche lui)., E conclude: “ma sarebbe errato trarre gratificazioni da tanto abbrutimento maschile (sic), poiché, ,ad onta del film, gran parte degli uomini si trasforma in King Kong quando vede una donna”. Posso ben dire che la Santuari per livore, linguaggio e fanatismo, ha raggiunto sicuramente la parità dei sessi con i fascisti». Evidentemente, lui si è riconosciuto in quella platea svillaneggiata… Naturalmente, non ha firmato la lettera… Certo, non tutti reagiscono così, ma anche se stanno zitti, poi le riempiono quelle sale. Non solo gli uomini di certi ceti sociali, cosiddetti sprovvisti di cultura; anche quelli che io frequento giornalmente li vedo interessarsi solo a un certo tipo di cose.
Quando torni in redazione, non ti domandano mai com’era il film di Kurosawa, ma com’era quello di… gli autori neanche li conoscono, sanno solo i titoli!
Come donna, ti poni in maniera diversa quando devi recensire il film di un’altra donna?
Sì, in un certo senso. Probabilmente sarà dovuto sia a implicazioni psicologiche, sia alla considerazione che una donna che fa un film già deve affrontare difficoltà diverse, deve fare le sette fatiche per arrivarci. È comunque una eccezione, una privilegiata in un certo senso; e quindi tengo conto anche di questo. A volte direi che sono persino più severa, per esempio come con il film della Kaplan «Lettere a Emmanuelle». Effettivamente ti dà più fastidio che se lo avesse fatto un domo. Poi ci sono donne che rifiutano certi discorsi, fanno le registe pensando di essere come gli uomini, di non avere nessun problema, senza accorgersi di vivere in un modo privilegiato, della maggiore tenacia e delle maggiori qualità richieste loro per arrivare agli stessi risultati di certi uomini.
Quindi tu fai una distinzione tra le registe che, sia pure con maggiori difficoltà, diventano «registi-uomini», e quelle che sanno perfettamente di avere tutt’altre tematiche, tutt’altri problemi da affrontare, e si pongono quindi, come «alternative» alla figura classica del regista?
Purtroppo sono poche, non ne conosco quasi, anche perché quando c’è stata quella rassegna al Filmstudio, non l’ho potuta frequentare molto. Certo, una Wertmuller, una Cavani si pongono già in un’altra ottica, con tutto il rispetto per il loro lavoro; però, non a caso, non si confondono mai con queste scelte.
In Italia, le donne registe considerate «mostri sacri», sono appunto Liliana Cavani e Lina Wertmuller. Se tu vedessi un film di una delle due, e non sapessi chi l’ha fatto, ti accorgeresti che è stato realizzato da una donna?
Beh… è un problema che forse non si può porre in questi termini, dovrei fare un esperimento per rispondere… C’è da dire che la Cavani e la Wertmuller sono le due .registe che si sono più impadronite del linguaggio maschile nel cinema. Questo si può dire senza offesa per loro, anche perché, ovviamente, non è detto che il linguaggio maschile, in quanto linguaggio dominante, sia il peggiore; anzi, è quello più perfezionato rispetto all’altro che ancora balbetta, che non ha trovato la sua grammatica. Questo, dal punto di vista formale, poiché sono già riuscite a fare, a conquistare degli spazi, quindi a maturare per le possibilità che hanno avuto. In effetti, dal punto di vista dei contenuti, mi sembra che siano abbastanza attente alla posizione della donna; credo che nessuno dei loro film si possa accusare di antifemminismo; semmai di altri difetti.
Pensi che la Cavani e la Wertmuller abbiano un particolare modo di esprimersi «femminile»?
Direi di no, decisamente non ce lo ravviso.
Credi comunque ad un modo di espressione e di creatività specificatamente femminile?
Solo se ancorato ad un discorso di classe, nella sua globalità, che non ha ancora conquistato un suo linguaggio, quindi va fatta una distinzione tra donna e donna. È diverso per me e per una casalinga di Centocelle, che magari è più intelligente ma non possiede certi strumenti per potersi esprimere. Non sono d’accordo sulla ricerca di un linguaggio «femminile»: forse è necessario cercare un altro linguaggio, ma che sia di un’altra società, in cui, oltre alla parità fra <i sessi, esista anche la parità fra ceti sociali.
Come critica e come donna, ti senti coinvolta nel discorso che si sta portando avanti sulla presenza femminile nel cinema?
Presenza femminile in che senso?
Per esempio stanno nascendo vari collettivi;  alcuni si propongono l’elaborazione di una nuova metodologia critica, altri che vogliono fare del cinema, però con intenti e metodi diversi; mi riferisco, comunque, alla volontà delle donne di appropriarsi anche dello strumento espressivo cinematografico.
Penso che dovrebbero inserirsi nei bastioni avversari, se li si vuole considerare tali, insinuarsi dentro le file nemiche .e dal di dentro combattere. Altrimenti diventa un ghetto. Qui, per esempio, è stata chiesta una pagina per la donna, cosa che forse non ci sarebbe stata negata. Poi l’idea è stata abbandonata perché se ne è capita la pericolosità.
Quindi ritieni necessario conquistarsi gli spazi che si sono conquistate la Cavani e la Wertmuller ma con contenuti diversi da portare avanti?
Non sono molto d’accordo su questa divisione verticale. Personalmente, pur essendo comunista, non mi sono mai iscritta ali’UDÌ, perché penso sia una tautologia: se milito di un partito al quale riconosco, con tutti i suoi limiti, una precisa volontà di trasformare il mondo, credo che la questione femminile ci sia o dovrebbe esserci compresa; pòo, all’interno, devi batterti perché questo avvenga realmente, in quanto sappiamo benissimo che, nella pratica, le cose si realizzano molto diversamente da come vengono formulate. Questa è l’unica riserva mentale che deve avere una donna.
Sei soddisfatta dello spazio che hai nel giornale? Hai avuto ed hai difficoltà nel campo del lavoro in quanto donna? Ti è mai stato censurato qualche articolo?
Articoli censurati, no. Posso avere delle discussioni coi colleghi sulle scelte di stile, su una diversa visione del giornalismo, ma non in quanto donna. Dello spazio che ho nel giornale, invece, non sono soddisfatta. Quantitativamente ne ho abbastanza ma è la sua programmazione e qualità che discuto. Me lo sono conquistato in venti anni di durissimo lavoro e in questo, ho fatto sicuramente più fatica: devi sempre dimostrare di essere cento volte migliore di un uomo che fa lo stesso lavoro. Può anche essere dipeso da quello che loro chiamano atteggiamento caratteriale e che io chiamo ideologico, per cui, quando continui a porre certi problemi, a combattere senza cedere mai, sei considerata una guastafeste, una piantagrane e chiaramente la tendenza è di metterti da parte: è meglio utilizzare quelli più malleabili, più disponibili a mediare; magari poi costoro realizzano gli stessi risultati senza «prendere di petto» come mi si accusa di fare. Comunque io rilevo per esempio, all’interno della sezione spettacoli, una solidarietà fra uomini che con le donne non hanno, questo è sicuro. Noi siamo solo due donne, diversissime, ma con tutti i nostri contrasti la solidarietà ce la dobbiamo dare tra  noi perché, poi, dall’altra parte, c’è un fronte compatto.
Non a caso, del fronte maschile fanno parte i capi!
Sì, c’è una divisione gerarchica del lavoro. Io faccio il critico da tanti anni, di fatto, ma non ufficialmente; e sono già un caso esemplare. Sto da vent’anni in questo giornale, ho fatto tutti i lavori: dall’archivista, all’impiegata di segreteria, al lavoro redazionale e ho cominciato a fare critica cinematografica quasi casualmente, venendo a mancare un elemento; ho continuato toccando tutti i settori, dall’informazione di costume, a quella politica fino alla critica vera e propria, quando il titolare era in vacanza. Però, quando c’è da nominare un nuovo titolare si attinge altrove. Certo, questo sarebbe successo anche se fossi stato un uomo: credo ci siano in pochi casi, in Italia, di un vice diventato titolare. Ma in fondo, tutte le donne che fanno questo lavoro sono subalterne, tanto è vero che tu conosci me perché sono la più combattiva, la più tenace, quella che ha prodotto di più ed è riuscita a farsi conoscere; mentre altre, iscritte persino al sindacato, non le hai mai sentite, vedi qualche sigla che non ti dice niente, perché in genere non svolgono continuativamente questo lavoro, quindi quel poco che fanno si disperde. Critici titolari donne, che io sappia, non esistono. Chiaro che nessuno ti leva le interviste a Sylvia Kristel, però il film importante non lo fai. A meno che non esca quando il titolare sta al festival di Cannes e non l’ha potuto vedere prima, altrimenti scrive la recensione anche da Cannes…
O addirittura tu vai a qualche rassegna minore, che magari casualmente risulta importante e, da lì, mandi dei pezzi sui film che però, quando escono a Roma, vengono recensiti da un altro. Il sindacato critici ha ottenuto, ad esempio, che i «vice» non si firmassero più come tali, ma col nome o una sigla. In realtà, sempre vice rimani: puoi scrivere quello che vuoi, anche differenziandoti dal titolare — senza risultare
in contrasto con la linea generale della pagina e del giornale, ovviamente —, cosa che non dovrebbe ledere il prestigio del titolare, puoi fare tutto, tanto tanto poi chi decide è lui.
Trovi delle resistenze a far passare recensioni dal taglio decisamente femminista, sia pure nei termini in cui tu ti definisci tale, cioè una non-militante?
No. Forse proprio perché non ho provato mai a farlo in questo senso. E forse, adesso che il femminismo è diventato una moda editoriale, non ne troverei comunque: gli fa comodo avere una donna che porta avanti quelle tematiche. Ti faccio un esempio pratico, così nessuno mi può accusare di idee balzane. Quando c’è -stata la polemica su «Life-Size», Elisabetta Rasy espresse certe opinioni ed io altre, esattamente contrarie. Per la prima volta, ho dato un pezzo fuori dalla critica che fu accettato immediatamente, con ululati di gioia… da parte di tutti gli uomini gerarchicamente importanti e con il coro esultante di tutti gli altri. Perché erano due donne che si scontravano. Naturalmente io di questo ero consapevole, però non volevo rinunciare a fare una puntualizzazione; perché se non si discute nemmeno tra noi, è finita, ci si isola. Quella volta fu veramente tipica: due pezzi che non sono stati nel cassetto nemmeno un giorno. Però ribadisco che il discorso di classe c’è sempre. All’interno di questa moda editoriale del femminismo, per esempio, un pezzo di Dacia Maraini viene passato prima di quello di Elisabetta Rasy o di Oretta Bongarzoni o di Aurora Santuari: è una firma più prestigiosa! Questo senza togliere nessun merito a Dacia Maraini che la sua battaglia la fa, la fa bene e fa bene ad usare questo suo potere. Forse è l’unico modo per contare.
In genere, quelli sono pezzi che compaiono sulla terza pagina.
Infatti, non a caso quelli compaiono sulla terza pagina e gli altri no! I tuoi nessuno te li respinge, se proprio li. fai; ma vengono accettati con moka difficoltà. Poi credo che le mie colleghe femministe-militanti ne sappiano più di me su questo. Io ho parecchi e forti scontri su questioni generali, ma loro che propongono cose specifiche troveranno sicuramente delle resistenze. Oppure delle aperture sbagliate, mistificanti.