violenza femminile! un circolo chiuso

«non è vero che le donne non sono violente, è vero però che la nostra violenza non è uguale a quella maschile».

aprile 1977

la presenza di noi femministe nell’occupazione dell’università e nelle lotte di un movimento che non è solo studentesco ma di opposizione a questo tipo di quadro politico e di assetto sociale, ci ha spinto ad ulteriori riflessioni che andassero oltre il documento e la mozione letti all’assemblea nazionale degli studenti svoltasi il 26 e 27 febbraio a Roma.
Di questa ‘assemblea e della sua mozione conclusiva tra noi donne non si è dato certo un giudizio positivo vista l’impossibilità di confronto derivante oltre che dai giochi di potere delle varie componenti, soprattutto dall’azione dell’«autonomia operaia». Rozzezza di linea politica ed opposizione al femminismo vanno di pari passo e caratterizzano posizioni politiche che non hanno niente di rivoluzionario ma tutto dell’opportunismo e della conservazione. La rabbia e l’amarezza provate quella domenica (molte di noi erano intervenute come femministe per la prima volta in una assemblea mista), non ci hanno fatto desistere dalla presenza nelle lotte. La nostra voglia di andare avanti ci viene dal sentire che come femministe possiamo crescere affrontando proprio nell’università problemi che non solo nell’università si discutono: il rapporto emancipazione-liberazione in un momento di attacco ai livelli di emancipazione finora conquistati dalle donne, la divisione sessuale del lavoro, il rapporto con le istituzioni, il problema della violenza. Proprio su quest’ultimo problema, in un momento in cui non abbiamo la certezza che le manifestazioni da piazza non arrivino allo scontro fisico, abbiamo sentito l’esigenza di riflettere. Non è vero che le donne non sono violente, è vero però che la nostra violenza non è uguale a quella maschile. Per gli uomini esercizio del potere e pratica della violenza sono sempre stati uri tutt’uno, le donne invece escluse dal potere sono quasi sempre state nella storia oggetto e non soggetto di violenza, hanno sempre avuto difficoltà ad esternare la loro violenza, ad incanalarla in forme socialmente distruttive o costruttive. La nostra violenza è la più latente, spesso un circolo chiuso: un rapporto di aggressività di ognuna con se stessa, con gli oggetti che ci circondano, con le persone cui abbiamo stabilito un rapporto di sicurezza; la famiglia è in genere il luogo primario dove la violenza della donna si esprime. Anche nella nostra pratica tra donne violenza e potere, che in qualche modo ci appaiono strettamente collegati, si concretizzano quando la volontà di mettersi in discussione non basta per superare ruoli e condizionamenti che affondano nella natura e nella storia collettiva e di ognuna. Violenza però non nasce solo dal potere ma anche da chi potere non l’ha mai avuto, dall’esercizio di un contropotere. Il movimento femminista è probabilmente violento: la nostra violenza è la nostra forza, l’aggredire alla radice le divisioni di questa società, il rendere la donna soggetto contro una realtà di oppressione. La violenza che noi collettivamente esercitiamo (forse per la prima volta contro altro da noi) non si basa quindi sull’assunzione di strumenti di lotta violenti. Oltre un giudizio politico di condanna di quelle frange del movimento che teorizzano la pratica dell’esproprio o lo scontro fisico a tutti i costi, non crediamo sia proponìbile la riappropriazione da parte delle donne, ad esempio dei mezzi di autodifesa che gli uomini usano nei cortei. Rimangono aperti molti problemi: quale tipo di lotta genera la repressione violenta? Fino a quando questa società sarà disposta a concedere spazi al movimento femminista?
La nostra presenza femminista nelle lotte di un movimento che solo per semplicità continuiamo a chiamare universitario, ci ha messo davanti anche a problemi di segno diverso. La manifestazione dell’8 marzo (ma anche altre manifestazioni o assemblee tenute all’università), ha visto per esempio al suo interno la presenza di settori di compagne soprattutto studentesse per ora in gran parte esterne ad una pratica femminista. Con questa parte del movimento delle donne che siamo ben lontane dall’identificare con le «donne dell’autonomia» o con il MLDA con cui la prospettiva del confronto appare quanto mai problematica, crediamo invece sia utile e possibile discutere.
I tempi e i modi di questo confronto sono tutti da decidere, ma pensiamo di andarci cercando di superare i noti, opposti limiti dell’aristocraticismo che nasconde la paura delle differenze o di un proselitismo teso al «recupero», concezione dell’avanguardia estranea al movimento femminista. A queste compagne risulta forse difficile capire il significato dell’autocoscienza e del separatismo, che sono invece il presupposto della nostra organizazione come movimento femminista. A noi molte volte risulta invece difficile il confronto con donne che non abbiano la nostra stessa pratica: non è sempre possibile metterne fuori di noi la ricchezza. La paura di non poter spiegare ciò che solo nella vita di ognuna e nella coscienza collettiva di movimento assume un senso preciso, la paura di diluire il significato delle nostre proposte abbassandole alla stregua di ricette bell’e pronte su cui chiamare allo schieramento, e d’altra parte la sofferenza e la rabbia quando ai tentativi di comunicazione viene opposto un rifiuto non possono costringerci al al silenzio.
A queste compagne pensiamo di poter dire che la lotta contro lo sfruttamento di una classe sull’altra che non sia anche presa di coscienza dell’oppressione che tutte come donne viviamo, si traduce solo in nuova estraneazione. D’altra parte, la nostra oppressione, molte di noi hanno dovuto «imparare» a riconoscerla quando altri tipi di sfruttamento ci sembravano più immediati ed evidenti: anche per questo il progetto di liberazione della donna è così complesso e difficile.