quanto producono le casalinghe

presentiamo un paragrafo del libro «La forza lavoro femminile» di Fiorella Padoa Schioppa, docente d’Economia Bancaria alla facoltà di Scienze Statistiche Demografiche e Attuariali dell’Università di Roma, pubblicato da II Mulino, nella Collana Universale Paperbacks.

aprile 1977

quest’ultima considerazione, che la tabella 1 avvalora, conduce a rifiutare l’ipotesi dell’ISTAT e dei vari Autori che, non tanto a livello teorico (1), quanto a quello empirico (2) hanno finora affrontato questi temi, definendo «casalinghe»  soltanto  le  donne  che ufficialmente non lavorano (3), senza essere né pensionate, né studentesse, né benestanti: tutte le donne, infatti, sono anche casalinghe, colla sola eccezione di coloro che, aiutate da collaboratrici familiari o pienamente sostituite da altri membri della famiglia, non svolgono alcuna attività domestica (4) (cioè interna alla casa). Molti distinguo sono, a tal punto, necessari per valutare l’effettivo lavoro domestico  delle  casalinghe  in  senso stretto e di quelle in senso lato. Ad esempio bisogna individuare la diversa quota del tempo spesa dalle une e dalle altre in casa, dedicata ad attività di lavoro casalingo o viceversa al tempo libero, magari usato per giocare coi figli o per cucinare. Bisogna evidenziare, d’altra parte, la diversa qualità dell’attività domestica compiuta dalle prime e dalle seconde: se taluni, ad esempio, fanno notare gli effetti negativi sull’educazione dei figli dei sensi di colpa accumulati dalla casalinga in senso lato, altri mettono in evidenza come «la sostanziale solitudine di una vita di dipendenza economica e affettiva» e la frustrazione per la mancanza di un riconoscimento sociale del proprio ruolo di casalinga stretta portano a «viziare [i figli] fino alla nausea propria e loro e nel contempo a castigarli con le reazioni più disumane, al fine di affermare a chiare lettere uno dei pochi poteri» (5) disponibili.
Senza sottilizzare eccessivamente sulla correlazione fra quantità e qualità dell’attività domestica o sulle reali motivazioni che inducono la casalinga stretta a prolungare al di là del necessario le ore lavorate in famiglia (6), si propone una soluzione convenzionale del problema, avendo riguardo a quanto sopra esposto e a quanto illustrato nella tabella 1: si afferma cioè che il tempo di lavoro in famiglia delle casalinghe in senso lato (7) è circa la metà di quello prestato dalle altre. Il numero complessivo e differenziato di casalinghe effettive in Italia è ricostruito, diversamente da quel che appare dalle statistiche dell’ISTAT, nella tabella 2 (8). Poiché da tale computo sono escluse le collaboratrici domestiche retribuite, supposte rilevate dalla contabilità nazionale, il valore del lavoro casalingo da quelle offerto, è globalmente nascosto. Esso riaffiora nella tabella 2, partendo dall’ipotesi, davvero minimale, che l’apporto medio delle casalinghe sia, in termini monetari, equivalente a quello dei «collaboratori familiari di 1″ categoria» (9) mentre il contributo domestico delle occupate manifeste o nere è stimato mediamente alla metà. Non certo per affiancare la tesi del «salario alla casalinga» (10), si giunge così a valutare per il 1971 in 17.000 miliardi di lire circa, il lavoro nascosto svolto tra le pareti domestiche dalle donne italiane: la cifra è altissima se si tiene conto che essa supera il reddito globale al netto di oneri fiscali e sociali, di tutti gli impiegati e di tutti gli operai maschi dello stesso anno e costituisce nel 1971, come in passato (11), poco meno del 30% del reddito nazionale netto italiano ai prezzi di mercato.
Il contributo femminile manifesto, risultante in contabilità nazionale, è dunque leggermente superiore a un terzo del contributo casalingo nascosto (tabella 2): in particolare le occupate manifeste svolgono un’attività domestica che vale poco meno del 40% di quella prestata fuori di casa da tutte le lavoratrici ufficiali (2.443 miliardi contro 6.600 miliardi nel 1971), mentre le casalinghe in senso stretto producono all’interno della famiglia globalmente molto di più delle occupate manifeste investite di uno o di due ruoli (13.400 miliardi di fronte a 9.043 miliardi, nel 1971) (12). Anche le lavoratrici nere offrono un contributo casalingo non irrilevante (1.105 miliardi nel 1971).

(1)Un importante filone teorico sulle scelte della casalinga è quello americano, sviluppato particolarmente dalla scuola di Chicago: per esso «i vari membri di una famiglia allocano il loro tempo a seconda dei loro vantaggi comparati nella produzione di mercato e nella produzione casalinga. I vantaggi comparati sono a loro volta determinati dai salari differenziali e dalla diversa efficienza nella produzione di mercato e in quella casalinga» (R. Gronau, The Intrafamally Allocatìon of Time: The Vaine of the Housewives’ Time, «Economie Journal», 1965, che apre la strada a molti altri approfondimenti, ad esempio ad opera di W. Lee Gramm, Household Utility Maximization and the Working Wife, «American Economie Review», 1975). In questo filone si riconosce che il lavoro casalingo talora è svolto anche dalle occupate extradomestiche, ma non si mette in evidenza che l’impegno domestico di queste e ancor più delle casalinghe in senso stretto non è solo spiegabile in termini di vantaggi economici comparati rispetto al marito, in quanto il minor salario delle donne da un lato spiega le più frequenti attività domestiche, ma da un altro lato è da esse spiegato.
Questa idea restrittiva di «casalinga», tipica dell’ISTAT, appare sia nell’epoca pionieristica di E. Lindahl, E. Dahlgren, K. Kock, National Incoine of Sweeden, 1861-1930, London, P.S. King, 1937, sia negli altri contributi anglosassoni sullo stesso tema (si vedano S. Kuznets, National Incoine and ìts Composition, 1919-1938,. New York, NBER, 1941 e più recentemente C. Clark, The Économics of Housework, «Oxford University Bulletin of Statistics», 1958), sia, infine, in tutti i lavori italiani sull’argomento (da quello di F. Vinci, // reddito del nostro Paese nel 1938, «Rivista italiana di scienze economiche», 1943 a quello di A. Giannone, Ulteriori considerazioni a proposito di spese di produzione e reddito nazionale, «Atti della XVII Riunione Scientifica della Società Italiana di Statistica», 1957, a quello postumo, di M. Talamo, Il reddito dei servizi domestici non retribuiti, «Istituto di Statistica Economica dell’Università di Roma», n. 6, 1968).
In molti dei lavori empirici citati nella precedente nota si computa nel novero delle «casalinghe», convenzionalmente, anche la metà delle contadine.
(4) Ecco perché, dal momento che quasi tutte le donne svolgono un ruolo domestico, interiorizzato come doveroso e a loro sole spettante, la maggioranza delle occupate dichiara che, in assenza di bisogno, preferirebbe abbandonare il lavoro esterno. Da tali risposte non si può certo dedurre che queste lavoratrici preferiscano le attività casalinghe a quelle extradomestiche ma solo che preferiscono una a due occupazioni.
(5) M. Canonica e M. Fontana, Femminismo e capitalismo, «Tempi moderni», 1973.
(6) Secondo J. Vanek (Time Spent in Housework, «Scientific American», 1974) e secondo altri Autori da essa citati, «il lavoro domestico è accettato come naturale ed è notato solo quando non viene svolto. Per tale motivo il lavoro in sé deve essere sentito e riconosciuto ; lavorando a lungo e di domenica, può servire a dimostrarlo».
(7) Queste, dunque, come risulta dalla tabella 1, lavorano complessivamente ben di più delle casalinghe in senso stretto e degli occupati maschi.
(8) Sul come arrivare alle cifre esposte in questa e nelle altre tabelle del saggio, si consultino le note metodologiche dell’appendice.
(9) Questa qualifica è definita nel contratto collettivo nazionale sulla disciplina del rapporto di lavoro domestico, 22 maggio 1974.
(10) Per stessa ammissione di chi propone il «salario alle casalinghe», «la richiesta immediata… rischia di presentarsi in Italia, dati gli attuali rapporti di forza, come volontà di istituzionalizzare la condizione di casalinga e di funzionare perciò scarsamente come obiettivo mobilitante» (M. Dalla Costa, Donne e sovversione sociale, in M. Dalla Costa, Potere femminile e sovversione sociale, Padova, Marsilio, 1972).(11)  Vinc, op. cit., ha stimato che nel 1938 il valore nascosto del lavoro domestico delle «casalinghe» (secondo la definizione ufficiale del termine, maggiorata di metà delle contadine) ammontava al 23% del reddito nazionale; il Giannone, op. cit., con identici criteri, ha valutato che nel 1952 il contributo nascosto delle «casalinghe» corrispondeva al 29,9% del reddito nazionale; mentre il Talamo, op. cit., adottando una metodologia diversa, ma definendo nello stesso modo le «casalinghe», ha constatato che tra il 1961 e il 1966 il valore dei servizi domestici corrispondeva a circa il 20% del reddito nazionale netto ai prezzi di mercato.
Questo risultato apparentemente paradossale evidentemente dipende dalla diversa numerosità del gruppo delle casalinghe in senso stretto (10 milioni e 300 mila, secondo la tabella 2) e di quelle in senso lato (5 milioni e 459 mila, circa).