CINEMA

di festival in festival: l’america è vicina

rimangono solo le donne a difendere il cinema “differente” e “sperimentale”, ma quanto questa è una scelta o un’imposizione del mercato?

settembre 1979

Hollywood comunque. Nel bene e nel male. L’Hollywood dei cinéphiles e quella delle grandi masse. Hollywood che riscopre 1′ “autore” all’europea, ma si mantiene fedele alla serialità, alla sua anima multinazionale dello spettacolo. L’ “immaginario” hollywoodiano, le favole e i miti, i terrori e gli esorcismi che l’America ci ha sempre raccontato sono ritornati in auge, dopo le sconfitte sessantottesca e sessantasettesche. Il “rimosso” di una generazione che è stata “politica” riemerge affascinato dentro gli spazi mitici del western (seppure rivisitato); l’ideologìa muore e si spegne nel viaggio attraverso le distanze e le differenze sconfinate degli States. Tutti vanno in America, tutti ne stanno tornando. Le rassegne, i festival i cineclub insegnano l’americano a tutti. E’ persino difficile ricordare gli “antichi” dibattiti sul cinema d’autore e sul cinema politico. À difendere il cinema “differente” e/o “sperimentale” — almeno in Italia — non sono rimaste che le donne. Aggrappate tenacemente alla cultura europea, alle pratiche alte, nel tentativo di mantenerle incontaminate dal prurito dello spettacolo e dell’immensità che il cinema americano mette in gioco contro la chiusura, la difficoltà, la “separatezza”. Forse perché nessuno, più delle donne, ha vissuto sul proprio corpo il lavoro di falsificazione e trasformazione immaginaria, velato di perfetta realtà, del cinema hollywoodiano classico. Ma la legge (economica) del cinema ha facilmente ragione di queste resistenze ideali, anche quando sono più organizzate di quanto non siano in Italia. E Hollywood, vincente sui mercati internazionali, rinnovata nell’aspetto, costringe a parlare di lei. E a parlare di noi — hollywoodiane con cautela e riserve — in rapporto alla sua forza. Così all’edizione 1979 del Festival di Cannes la lunga lotta tra cinema europeo (Le tambour di Schlondorff) e cinema americano (Apocalipse Now) si risolve — nonostante l’ex-aequo puramente simbolico e di compromesso — a favore dello straordinario film di Coppola. E l’America non s’accontenta: premia altri due films attraverso i suoi interpreti (Sally Field per Norma Rete di Martin Ritt e Jack Lemmon per La Sindrome Cinese, il film sulle centrali nucleari). Il film di Coppola — primo percorso dentro il Vietnam, film d’autore da 40.000.000 di dollari, girato con una formula produttiva che garantiva al regista l’indipendenza dai grandi Studios — è un po’ il prodotto esemplare delle tendenze e dei meccanismi che hanno caratterizzato gli ultimi dieci anni di Hollywood. Lungo viaggio nell’inferno della coscienza americana, il film — la cui lavorazione è durata 4 anni — è in se stesso un’ avventura ai limiti del cinematografico, che coniuga immaginario e realismo sino alla spettacolarizzazione totale del mondo e dell’orrore e in cui il lavoro stesso del regista si esaurisce e confonde. Film della “catastrofe”, in qualche modo, come Terremoto o Lo squalo, in cui il problema di Coppola è allucinare l’attualità più viva per riuscire a ridarle quella drammaticità e quello spessore che l’uso del documentario quotidiano e dell’informazione televisiva le hanno tolto. Vi si leggono in trasparenza le caratteristiche di quello che comunemente definiamo “New Hollywood” e che la Mostra di Pesaro di quest’anno ha cercato di collocare definitivamente, organizzando la rassegna proprio attorno al cinema americano anni ’70, con particolare attenzione ai films mai usciti in Italia, censurati dal mercato. Ma cosa significa “New Hollywood”? Formula — o forse invenzione — critica, per indicare il rinnovamento economico/produttivo ed ideologico che ha permesso, negli ultimi dieci anni, al cinema americano e alle Majors di ritornare padroni del mercato, dopo la violenta crisi del decennio precedente. Il risultato è una cinematografia che, intelligentemente, ha colto e rappresentato, tutte le trasformazioni avvenute nella società americana del dopo Kennedy; che coniuga la profondità psicologica, l’attualità, il realismo, le innovazioni linguistiche del cinema europeo, con una propria perfetta organizzazione della spettacolarità, con una singolare capacità narrativa, con una capacità tecnica e tecnologica ai limiti dell’impossibilità. Non è un caso che l’ambito indipendente abbia, in America, poco spazio e poco senso, se non come banco di prova e punto di passaggio per futuri autori da multinazionale.

I nuovi (ma ormai consacrati) “autori” hanno lavorato dentro il “genere”, per capovolgerne e dilatarne alcuni topoi (Altman, Peckimpah, Alien, Pollack) o hanno messo in scena la malattia della società americana, in un incrocio tra cinema psicologico, tecnica televisiva e culmine narrativo (Nichols, Scorsese, Pakula, Cassavettes, Coppola).

Si tratta di una rivisitazione ideologica dei miti americani che conosciamo molto bene, poiché si è data come punti di riferimento sostanziali, la famiglia, la coppia, l’emancipazione femminile. Basta pensare al capostipite, Il laureato di Nichols (1967), cui segue Conoscenza carnate, Diario dì una casalinga inquieta, Una squillo per V ispettore Klute, Alice non abita più qui, Tre donne, Una moglie — per nominare solo i più conosciuti in Italia — sino ad arrivare alle storie di donna, senza mediazioni, con Julia e Una donna tutta sola. Film che livellano e banalizzano il “femminile”, ma tuttavia films da milioni di dollari di incasso, il che significa milioni di spettatori/trici: inutile nascondersi che sono questi i prodotti che la gente vede e che la medietà dei dibattiti attorno alla donna si organizza a partire dalla visione di questi films, mentre a partire da queste operazioni, prendono il via quelle più europee di Una donna semplice o Una donna alla finestra, allo stesso modo di quelle più raffinate del Cannes di quest’anno, con Donna tra cane e lupo di Delvaux e Le sorelle Brontè di Techinè (tutti e due stanno per essere distribuiti in Italia). Non si può dunque cancellare 1′ evidenza: il dibattito si ricompone sempre su questi livelli, la diffusione d’immaginario e dell’immagine “nuova” del femminile è affidata, pienamente e ancora, alla produzione americana o americaneggiante e all’occhio maschile. Di fronte a questo — per quanto riguarda le autrici — ritroviamo ancora e, quasi soltanto, una marginalità sempre meno scelta e sempre più imposta, una lotta assurda tra rivendicazioni di artigianalità e indipendenza e necessità/ strapotere dell’industria. Se la donna in quanto autrice era presente quest’anno a Cannes in maniera massiccia — e ciò significa anche nuove aperture nel cinema ufficiale — tuttavia il suo peso si faceva sentire soprattutto nelle sezioni “indipendenti” (dedicate — con un’operazione assieme democratica e di recupero — al cinema “diverso”). Ma con quale produzione? Moments di Bat-AdanuMichal, Mourir à tue-tète. di Anne-Claire Poirier, Felicité di Christine Pascal e La femme integrale di Claudine Guilman, sono ancora una volta la riproposizione del cinema in prima persona, senza alcuna distanza narrativa, autobiografico fino al dolore, all’incubo, e alla violenza carnale. Gli amori tra donne sono obbligatori, come quelli a tre, e tutti inverosimili. Eppure queste sembrano’ essere divenute forme obbligatorie del cinema “femminile”. Così come, all’opposto, le sole due donne presenti alla competizione ufficiale, Anja Brejen con L’eredità e Gill Amstrong con La mia brillante carriera, rinunciano ad ogni specifico e livellano i loro prodotti su una produzione media assolutamente anonima. E nel mezzo? Per non essere condannate, in eterno, alla marginalità della chiacchiera e del viscerale né al vuoto del maschile senza mediazioni. La donna diventa “nuovo genere”, nuovo prodotto vincente in ascesa, viene relegata nella sua specializzazione, che è quella di parlare-di-donne, più che parlare-donna.

In realtà la donna vende molto di più (e una volta di più), come oggetto che come soggetto di rappresentazione: a Cannes è Martin Ritt, raccontando in maniera probabile la storia improbabile dell’operaia americana Norma Rae, a commuovere e convincere quasi tutti. Basta pensare ai film arrivati in Italia negli ultimi due anni o a quelli che stanno per essere distribuiti. Ai film già elencati, bisogna aggiungere, ad esempio, anche l’uscito, non certo innocente e con anni di ritardo, di Mariti di Cassavettes. Così funziona il mercato. Ma cosa accade sul versante delle autrici? Passaggi limitati ai festivals e negli spazi d’essai. Qualche sorpresa, come Girls-Friends di Claudia Weill, film povero e indipendente, che ha una diffusione inaspettata, e Mafu Cage di Karen Arthur, presentato a Pesaro, che forse verrà distribuito. Per il’ resto: films bloccati dalla distribuzione come Matemale della Gagliardo o assolutamente invisibili come quelli di Duras, Akerman e qualche prodotto medio arrivato in Italia sull’onda dello scandalo, come L’Amour viole di Yannick Bellon. E’ evidente a questo punto la debolezza della contrapposizione tra cinema dominante e cinema marginale, quando la si presenta come scelta di campo e non costrizione del sistema. I soli spostamenti, le sole oscillazioni del femminile continuano ad essere quelle avvertibili nella rappresentazione che ne fa il cinema ad anima spettacolare e commerciale. Pesaro, nella sua selezione di films, mostra la progressione, smaschera qualche procedimento: dall’ironica messa a punto sul cinema “a lieto fine” attraverso il percorso drammatico di una donna sposata in Happy ending di Richard Bropks (1969) allo spazio femminile, angusto, malato di Gli effetti dei raggi gamma sulle margherite di Paul New-man (1972), senz’altro uno dei più interessanti. Dalla rappresentazione diretta, documentaristica del movimento americano e del femminismo in Mile-stone fino all’introduzione della figura femminile dentro lo spazio — una volta proibito — del genere: il duello tra due donne in Dirty little Billy (1972) di Stan Dragoti e almeno due “road-movie” condotti dalla figura femminile, Rafferty di Dicks Richards (1974) e Two lane blacktop (1971) di Monty Hellman.

In questo modo — ed anche in maniera intelligente — il cinema rimanda la sua morte: mettendoci ancora una volta in scena, mettendo in scena la nostra apparizione sulla scena del sociale. Gli spostamenti reali, del “soggetto” donna produttrice sono stati minimi: chiusa in un’utopia di non connivenza con l’apparato cinematografico, si trova ora di fronte ad una scelta determinata dall’economia di mercato. Nel viaggio tra Cannes e Pesaro — nel cuore di Hollywood — nonostante qualche apparenza, il tragitto esclude la donna, se non per recuperarla come oggetto di un cinema civile ed equilibrato, ben costruito, senza eccessi, multinazionale anche nell’organizzazione del “messaggio”.