donne del sud: basta col velo nero
per la donna del sud le radici dell’oppressione e dello sfruttamento che subisce sono più profondamente radicate di quelle del nord, perché sono più rari i contatti con l’esterno, più stretti i rapporti familiari, più difficile l’inserimento nel sociale.
uno dei temi che solo parzialmente sono stati affrontati nel movimento è la specificità della condizione della donna meridionale, la particolarità delle contraddizioni che vive, il permanere al sud dei modelli di riferimento più arretrati, di schemi culturali più repressivi. Con questo non voglio certo dire che esistano due realtà femminili contrapposte, o che le radici dell’oppressione e dello sfruttamento della donna siano diverse tra nord e sud: certo è che per la donna meridionale esistono in misura maggiore che al settentrione, necessità di conquiste immediate, «emancipatone» se così vogliam dire, che vanno dal vivere da sole agli orari di rientro a casa, alla scelta di separarsi dal marito, ai rapporti con i figli…
Conquiste secondo me per le quali si deve lottare parallelamente all’innescamento del proprio processo di liberazione, per non trovarsi, come può succedere, ad un altro livello di riappropriazione di se stesse, non avendo però contemporaneamente risolto o almeno iniziato a risolvere praticamente questi problemi; provocando così una scissione, spesso difficilmente sostenibile, tra il proprio essere femminista e la realtà della propria vita, del quotidiano.
Le ragioni oggettive di questa condizione della donna meridionale sono state spesso analizzate, descritte:
— ridotte possibilità di lavoro extradomestico rispetto al nord, da cui derivano poche possibilità di contatti esterni all’ambito familiare, con conseguenti difficoltà per la conquista di una vita indipendente;
— maggior carico di lavoro domestico: infatti in meridione si hanno i più bassi costi di riproduzione della forza lavoro, il lavoro delle donne suppliscono tutte le carenze dei servizi sociali, dall’asilo all’ospedale; costa molto meno allo stato «l’allevamento» di un bambino ; al sud che al nord. È il lavoro domestico della donna che permette la sopravvivenza alle famiglie meridionali nonostante i bassi salari recepiti.
Se questi aspetti sono stati sufficientemente approfonditi, molto più carente è invece l’analisi del ruolo svolto dalla famiglia nel Mezzogiorno. Questa diventa infatti spesso il punto di riferimento principale, l’elemento cardine di difesa dalla realtà di disoccupazione, di disgregazione sociale, di sottosviluppo esterna. Ciò però non significa una diversità delle funzioni familiari, un cambiamento del ruolo istituzionale; tra la famiglia del Nord e quella del Sud, operando una scissione tra una famiglia settentrionale «moderna» ed una famiglia meridionale «patriarcale». Il capitalismo come ha unificato tutti ì vari livelli produttivi in un unico sistema economico, ha unificato tutte le varie forme di vita, e le istituzioni necessarie a sostenerle. Quindi la differenza tra la famiglia meridionale e quella del Nord è sostanzialmente quantitativa: la famiglia meridionale ancora maggiormente svolge la funzione economica di minimizzazione dei costi di riproduzione della forza-lavoro, ancora di più svolge la funzione di difesa dalla disgregazione sociale esterna, di valvola di scarico di conflitti, di trasmissione di valori tradizionali.
E il tutto materialmente, praticamente funzionante, per un maggior livello di oppressione e sfruttamento delle donne, sulle spalle delle donne; con conseguenti forme di controllo sociale ed ideologico ancora più potenti, costruite proprio in funzione del maggior carico di lavoro domestico femminile, E per noi, in un contesto di costante ricatto economico (la famiglia infatti permette realmente il sopravvivere, il «resistere», rispetto alla mancanza di lavoro, di case, di servizi sociali, presentandosi spesso come unica alternativa immediata all’incertezza economica esterna, pur essendo nello stesso momento una falsa alternativa), e di pesante ricatto ideologico, della sovrastruttura, dei modelli tradizionali più arcaici che permangono; per noi dicevo, diventa molto più difficile l’innescamento di un processo di critica ai ruoli svolti nell’istituzione familiare.
E spesso in noi continua a vivere, anche se a livello inconscio, una concezione ancora «in positivo» della famiglia, o meglio un considerare le funzioni, o alcune funzioni che vi svolgiamo, ancora come inevitabili, necessarie. Alcune di queste (per esempio certi tipi di rapporti con i figli, con i mariti…) le abbiamo proprio introiettatte, non vedendo quindi ancora un’alternativa pratica al nostro modo tradizionale di essere, di vivere certi ruoli (con questo non intendo certamente un’alternativa globale, «totalizzante», ma più semplicemente critica e rifiuto pratico, quotidiano, del tradizionale, dell’imposto, dell’introiettato). In questo processo di approfondimento pratico teorico della specificità della condizione della donna meridionale, secondo me sarebbe anche necessario iniziare a demistificare le concezioni che su questo vivono all’esterno. Da una parte «le povere donne del Sud», con il vissuto tanto sofferto, da cui andare appena sono necessarie inchieste-denuncia, testimonianze «tanto dolorose», per operazioni di vario genere, non ultima la prima parte della trasmissione televisiva «Si dice donna». (Non ne possiamo veramente più di questa moda, di questa nuova merce «storia triste, tristissima», che ci fa apparire come le eterne vittime, le eterne fregate da mariti cattivi. Parlale di donne significa per i mezzi di comunicazione di massa, commiserazione, pietà, sono nati i nuovi «poveri negri», «i nuovi zii Tom» della situazione, su cui spendere magari qualche lacrimuccia, sentendosi, immediatamente dopo, tutti con la coscienza a posto. Mai invece vengono sottolineate, i livelli di ricerca raggiunti, le conquiste fatte, i temi dibattuti dalle donne e non solo dalle femministe). Ed in questa operazione la donna meridionale è facilmente strumentalizzabile proprio perché più oppressa. L’altra faccia, della stessa medaglia, è la concezione populista delle donne del Sud «generose e combattive», pittoresche e simpatiche che alle manifestazioni fanno tanto colore (!). Queste due visioni, l’una pietista, l’altra trionfalista, sono tutte da distruggere nella ricerca, nel capire, nel comunicare il proprio essere donna ed anche meridionale.