precisazioni di antropologia
note in risposta all’articolo «Ottica femminile in architettura»
c’è un certo imbarazzo nell’opporre convinzioni diverse a quelle sostenute dalle compagne L. Minoli e M.A. Aragona nell’articolo che su Effe di maggio portava il titolo: «Ottica femminista in architettura». A dire il vero, ho avuto l’impressione ohe più che di convinzioni diverse si tratti invece, da una parte (quella delle due compagne) di un errore di valutazione piuttosto grave delle tesi di Morgan in «Ancient Society»riprese da Engels in «L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato», e dall’altra (la mia) di una correzione che temo didattica. Di qui l’imbarazzo. Mi faccio coraggio, pensando a ciò che il movimento delle donne ha sempre sostenuto essere fondamentale nel rapporto tra compagne: il superamento dell’imbarazzo accademico che si trova dieci secondi prima di intervenire ad alta voce in assemblea, e che spesso, trattiene dal profferir parola. Bene, io sono costretta a sottolineare l’arbitrarietà con cui è stato sommariamente elaborato sia il primo nodo dell’articolo sull’evoluzione della struttura della famiglia, sia la pretesa rappresentazione grafica, che voleva descrivere la relazione che intercorre tra organizzazione familiare e distribuzione sul territorio delle unità abitative, in rapporto al dato storico delle organizzazioni istituzionali, alle pratiche economiche che garantivano la riproduzione delle condizioni di vita e all’originaria distinzione della specie umana. L’appunto storico-antropologico sfocia inevitabilmente in un pressapochismo, che sarebbe ora di abbandonare, grazie ad una scelta di fondo che privilegiava il dibattito o la ricerca sulle condizioni attuali dello sfruttamento del femminile nello specifico ambito della casa-abitazione-luogo di lavoro, e liquidava in breve spazio quelle che, se vogliono essere premesse storiche, devono averne tutte le caratteristiche, in termini di puntualità, precisione, chiarezza.
Visto che l’argomento trattato, a mio avviso di estremo interesse, vuole sviluppare la conoscenza del rapporto esistente tra organizzazione sociale e spazi e suddivisioni territoriali, distribuzioni di competenze, assegnazioni di mansioni e oppressione o glorificazione degli appartenenti ai due sessi, si rende necessaria nel modo più assoluto un tipo di premessa storica che tenga conto dei risultati già ottenuti nell’ambito della disciplina che si occupa in specifico dell’argomento che si intende trattare; ciò, per un corretto avvio alla conoscenza della situazione contemporanea che si vuole analizzare. La correttezza con cui ci si occupa delle analisi riguardanti i settori di vita cui ci costringe un sistema organizzato moderno, non può non fare i conti con un’altrettanta chiarezza che descriva e interpreti le forme di vita organizzata appartenenti ad altri sistemi.
Allora, se è di abitazioni che si vuole parlare, ed è la relazione che intercorre tra territorio e suddivisione sociale e sessuale dello spazio fisico che preme sottolineare, non è a mio avviso. assolutamente utile riferirci a spazi e tempi troppo lontani dal nostro. Questo tipo di lavoro potrebbe eventualmente costituirsi come «storia delle unità abitative e loro relazione con il sistema organizzato della parentela e della famiglia». Ma in questo caso sarebbe necessario destinare la ricerca di un attento studio di un solo gruppo umano, sociale, statale o clanico colto nel proprio sviluppo storico e attraverso le tappe della sua trasformazione, visto che ogni gruppo ha avuto, ed ha tuttora, nel proprio processo di mutamento tempi e modi profondamente diversi gli uni dagli altri, e che ripercorrere la storia del genere umano, costringerebbe a sommarie classificazione a sviluppi a tappe forzate della storia istituzionale delle popolazioni che hanno avuto un più lento percorso di altre, al solo scopo di costituire per comodità di impiego: la «razza umana» e la «società umana» genericamente intese.
Vale la pena di non usare poche informazioni al fine di connotare storicamente una «relazione» che si vuole sottoporre ad analisi, rischiando di dare, anziché i necessari indici storici comprensivi del fenomeno, una sorta di mistificante storicizzazione a posteriori.
A mio avviso una corretta impostazione dovrebbe consistere non tanto in una organizzazione comparativa dei dati relativi alla totalità di diverse strutture sociali (che anche il confronto tra realtà troppo lontane fra di loro è operazione del tutto parziale e spesso errata), ma nel cogliere nelle diversità delle forme l’unicità del «fenomeno». La destinazione degli spazi a corrispondenza delle appartenenze sessuali è un fatto sociale che implica una complessa organizzazione, vuoi statale, vuoi clanica o di casta, o più genericamente intraspecifica (la complessità non è solo caratteristica degli organismi statali occidentali; tuttavia qui intendo complessità come struttura complessiva).
Non credo vi sia stato un tempo in cui il genere umano abbia conosciuto anarchismo e asocialità, indipendenza individuale e assenza di regole. Se l’uomo ha avuto da sempre il problema di dominare la natura con la sua forza (quasi del tutto intellettiva) ancor prima avrà dovuto avvertire la propria esistenza come «altra» rispetto alla natura stessa; e senza negare la sua appartenenza se ne è voluto slegare affermando la propria alterità come «soggetto collettivo», naturale sì, ma con caratteristiche diverse da chi, essendo generato, sente di non poter a sua volta generare.
Creando la Regola, la Norma che è significante della superata opposizione Uomo-Donna, crea la Cultura e si distacca inevitabilmente dalla Madre (intesa qui come simbolo del rapporto madre-figlio in cui lei è ricettacolo, involucro generatore di vita), dandosi leggi proprie che talvolta interferiscono addirittura con quelle stesse da cui, con timoroso rispetto, tenta di sottrarsi.
La prima regola, la Regola per eccellenza, quella che stabilisce, classifica e sottoclassifica gli appartenenti alla specie è il tabù dell’incesto, che molto più di una proibizione è segno di un obbligo, molto più che negare esso afferma. Afferma quella reciprocità fra i gruppi intraspecifici necessaria all’operazione che differenziando fra loro gli elementi della struttura li unifica sotto un eguale disegno.
Quindi la regola, più che nel tabù dell’incesto, si individua nell’esogamia, nello scambio cioè, delle donne fra i gruppi a celebrazione di quell’avvenuto superamento della potenziale inimicizia tra uomini, che si temono reciprocamente per non possedere ancora alcun canale tramite cui comunicare la propria simiglianza. Il primato «dell’affinità» (parentela acquisita tramite il matrimonio) sulla consanguineità (parentela diretta della discendenza), non è assolutamente nato con l’affermazione della proprietà privata. Engels edifica la sua «Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato» assumendo i dati ohe Morgan raccoglie nel suo scritto «Ancient society», dobbiamo ricordare però come forse l’unico pregio che hanno le teorie di Morgan siano a tutto beneficio di una primitiva classificazione (erronea per altro) per «tipi» della famiglia e l’aver riconosciuto che a differenti sistemi di pratica della parentela corrispondono forme diverse di nomenclatura cui sottende, a sua volta, una precisissima concezione dei legami riconosciuti, degli atteggiamenti codificati che il singolo assume nei confronti di chi il sistema «costringe» a riconoscere come proprio «parente» ad un certo «grado».
D’altra parte la cosiddetta famiglia monogamica non dipende necessariamente, per ciò che riguarda la sua costituzione, dall’avvento del patriarcato, all’interno del cui sistema giocherebbe il ruolo essenziale maschile a proposito del controllo da esercitare sul corpo della donna al fine di avere figli di paternità indiscussa.
Non esistono né matriarcato né patriarcato, a meno che non se ne voglia esasperare il significato attraverso un uso improprio, come sistemi di parentela di associazione che connotano fasi storiche concepite in spazio di tempo definiti.
Il matriarcato, in particolare, asseconda, nella descrizione mitologica e nei riferimenti leggendari che di esso si hanno, le costruzioni fantasmatiche che esorcizzano il senso di impotenza maschile verso le capacità generatrici della donna; trasformando tale sofferta incapacità in disprezzo per chi pur avendo capacità procreative associa a queste altrettanta disponibilità alla negazione della vita.
Ciò che la psicoanalisi dei sessi ha fino a non molto tempo addietro sostenuto (e in parte sostiene ancora) a proposito della distruttività materna, era, ed è ancora, contenuto nel mito negativo della ginocrazia.
Amazzoni, Furie, Arpie, Erinni, nomi diversi e ambiti di azione diversi, ma comunque collettività di Femmine che contrapponevano il loro proprio assetto non organizzato allo Stato organizzato.
La mitologia arcaica, e in modo meno grottesco forse, quella classica, mediterranea e nordica, occidentale e orientale, hanno usato intere schiere di femmine avide di sangue, che ostacolavano il cammino dell’eroe (di Stato), spinto dal destino a cercare lidi su cui erigere, nel nome del Padre, nuove comunità organizzate che ricalcassero nel sistema delle istituzioni che si sarebbero date, il modello dello Stato (urbe, polis) che avevano abbandonato, non per volontà propria, e di cui serbavano il glorioso ricordo.
D’altra parte Scilla, Cariddi, e la Sfinge che promette salvezza a Edipo solo nel caso in cui egli riesca a scioglier l’enigma che lei stessa gli somministra, sono altrettanti esempi, per ricordare quelli decisamente noti, tralasciando i meno diffusi, di come sarebbe stata concepita una ginocrazia se la donna avesse avuto la possibilità, di intervenire nelle sorti dello Stato. Se le uniche notizie sul «matriarcato» sono quelle fornite dalla tradizione mitologica e letteraria, è bene non confondere la testimonianza leggendaria con un improbabile ricordo del matriarcato, di cui nessuno riesce a descrivere con una certa serietà la portata delle istituzioni, il sistema di governo o autogoverno e le relazioni intercorrenti tra gli individui sociali che avrebbero animato tale sorta di Stato o Città fondato nel nome della Madre.
La matrilinearità è il sistema che dispone al matrimonio di «ego» (che poniamo sia di esso maschile) con la figlia del fratello della madre, e non implica nella maniera più assoluta una concezione del rapporto tra i sessi meno violento e coercitivo di quelli caratteristici dei legami matrimoniali regolati da sistemi di altra natura. La sua tale sorta di Stato o Città fondato nel diffusione (come del resto per la patrilinearità) non è legata a periodi definiti e non occupa alcun posto nella scala evolutiva dei sistemi di parentela; essa ha, in tutto, gli stessi fini delle altre strutture parentali.
Qualsiasi «tipo» di famiglia all’interno di qualsiasi organizzazione più allargata che la comprenda, in ogni epoca e luogo geografico, ha la caratteristica funzionale di rendere impossibili o quantomeno illeciti certi tipi di relazioni sessuali. Questo anche se la famiglia non può essere spiegata da ragioni sessuali, visto che in molte tribù tuttora esistenti vita sessuale e famiglia sono ben lungi dall’essere strettamente connesse, come le nostre norme morali impongono.
È nel momento stesso in cui un sistema viene fondato, che la regola inizia la sua funzione; assegnazione, proibizione obbligo, distribuzione della complementarietà funzionale ai membri (elementi) della struttura organizzata; tutto ciò avviene nella legittimità e con il consenso dei membri della società che ha sviluppato un certo grado delle sue strutture, da cui lo Stato trae la forza principale tramite cui le domina senza l’uso necessario della violenza il cui ruolo è del resto, relativamente limitato nella storia.