all’alfa romeo sei incinta? corri a timbrare
C’è qualcosa di nuovo all’Alfa Romeo: il femminismo. «Femminismo che poi vuol dire una cosa sola — spiega un’operaia della mensa — la lotta delle donne in prima persona». «Vuol dire rendersi conto — dice un’altra — che siamo oppresse non solo come lavoratrici, ma come donne, non solo in fabbrica, ma anche fuori».
Come sono arrivate, le donne dell’Alfa Romeo, a questa presa di coscienza? La storia inizia qualche anno fa, nel 70: le donne del reparto tappezzeria dello stabilimento di Arese (circa 120) contestavano l’organizzazione del lavoro, i ritmi disumani, le carenze dei trasporti e dei servizi sociali. In particolare, le donne incinte avevano chiesto 10 minuti in più all’entrata e all’uscita dalla fabbrica («per non dover sempre correre a timbrare il cartellino, per poter camminare con calma») e il doppio pasto in mensa. Dopo il secco no della direzione generale, le operaie avevano risposto con la lotta. Lotta che non aveva avuto il successo sperato, anche perché i sindacati avevano lasciato cadere ambedue le richieste, interpretandole come «corporative».
«In realtà — spiega un sindacalista che a distanza di tre anni è diventato abbastanza pro-femminista da farsi l’autocritica — si erano affossate le richieste perché non erano state capite, in quanto uscivano dagli schemi tradizionali, dalla prassi normale. Soprattutto c’è il fatto che, dato che le donne sono una forza-lavoro dequalificata, isolata e priva di reale potere di contrattazione, si tende a dar minor peso alle loro rivendicazioni».
Intanto, alla faccia della maternità sociale, le donne incinte dell’Alfa Romeo continuano a correre (e ad abortire: il numero degli aborti bianchi è molto alto e non esiste in fabbrica nessuna assistenza ginecologica). Benedetto il frutto del ventre tuo, certo, ma che il frutto maturi o marcisca è affar «suo», della donna, tutt’al più un fatto «corporativo», una somma di problemi privati che riguardano soltanto le donne. La nostra, lo sappiamo, è una società in cui il bambino è responsabilità esclusiva della madre: non soltanto nel mitizzato e onorato (a parole) grembo materno, ma fino all’età adulta: l’allevamento dei figli è ritenuto compito «naturale» della donna.
La nostra, lo sappiamo, è una società cui il bambino è responsabilità esculsiva della madre: non soltanto nel mitizzato e onorato (a parole) grembo materno, ma fino all’età adulta: l’allevamento dei figli è ritenuto compito “naturale” della donna.
Prova ne sia che gli asili-nido di fabbrica accolgono solo i bambini delle dipendenti donne: un padre non può portare il figlio all’asilo-nido della sua fabbrica, perché evidentemente la cura del figlio non è ritenuto compito suo, ma della moglie. Per rimediare a questa ingiustizia codificata, la piattaforma sindacale dell’Alfa Romeo ha avanzato la richiesta di contributi da parte dell’azienda per la costruzione di asili-nido di zona: una proposta di capitale importanza, che ha trovato tra le donne dell’Alfa Romeo (e anche tra gli uomini) un consenso entusiasta. Altro punto dolente della condizione femminile all’Alfa Romeo è la mensa: ci lavorano circa 300 donne, i ritmi sono bestiali, gli orari a dir poco assurdi e abusivi: ‘«Noi facciamo dalle 7 di mattina alle 5 di pomeriggio — dice un’operaia — son 13 ore di lavoro, pesante, dequalificato perché siamo al 1° livello senza possibilità di avanzamento». Questa dequalificazione le espone al ricatto salariale, perché sono costrette ad allungare i turni per poter guadagnare quanto un operaio. Le donne chiedono turni più umani, dalle 7 alle 3 del pomeriggio e dalle 3 alle 11 di sera. Particolare «curioso»: il secondo turno dovrà essere invece dalle 2 del pomeriggio alle 10 di sera perché, spiegano i sindacalisti, esiste in Italia una legge che proibisce alle donne di uscire di fabbrica dopo le 11 di sera. La maternità può anche non essere protetta, ma la «moralità», evidentemente, va tutelata a tutti i costi. C’è poi da segnalare, al reparto mensa, un’altissima incidenza di malattie professionali, specie reumatismi e artrosi: «Siamo sempre nel fumo e nell’acqua — dicono le operaie — stiamo con stivali e guanti di gomma per metà giornata». Anche il numero degli aborti bianchi (dobbiamo chiamarli «aborti corporativi»?) è molto alto, dato il lavoro gravoso. L’assenza per malattie è del 30-40% ogni giorno (più alta che in qualunque altro reparto). Naturalmente le operaie vengono accusate di «assenteismo». Esiste poi il problema del reparto tappezzeria: il programma di ristrutturazione dell’azienda ne prevede lo spostamento nella zona di Mantova o Cremona. Alle donne che vi lavorano viene assicurata l’occupazione, ma dove e come saranno «risistemate» in fabbrica? Per molte si profila la minaccia di tornare in mensa (da dove sono uscite, perché malate, passando alla tappezzeria come a un punto d’arrivo, un’ ancora di salvezza che ora verrà loro tolta). Per tutte c’è comunque il problema della dequalificazione. È il classico esempio di espulsione della donna dalla produzione: come sempre la donna è la prima ad essere colpita, perché la forza-lavoro femminile costituisce un pool di forza-lavoro elastico, isolato, scarsamente qualificato e quindi esposto alle manipolazioni del capitale nel segno del profitto. Sulla pelle, appunto, delle donne.
Ma le donne dell’Alfa Romeo hanno detto «basta». L’8 marzo, la cosiddetta «festa della donna» si sono tenute tre assemblee (ad Arese, a Milano e al centro direzionale) utilizzando due ore di sciopero all’interno del numero di ore programmate dalla piattaforma, per discutere della «questione femminile». È stato un 8 marzo diverso, diverso soprattutto da come lo vuole il padrone (che celebra la festa della donna una volta all’anno, e il resto dell’anno è impegnato a far la festa alla donna). «B stata un’esperienza formidabile — dice un sindacala — che ha smitizzato il concetto di ‘ festa ‘, la retorica della mimosa». L’8 marzo è tornato a significare un momento di lotta: il volantino del consiglio di fabbrica ricorda le 129 operaie bruciate vive nella fabbrica di New York 1*8 marzo 1908 (tutt’altro che una «festa» quindi, ma una tragedia delle donne e del lavoro), denuncia la situazione del lavoro femminile in fabbrica e (questa è la novità reale) invita le donne a prendere coscienza che «l’oppressione che noi subiamo — così sta scritto nel documento — non si ferma in fabbrica: continua nella società dove MAI SIAMO CONSIDERATE COME SOGGETTO SOCIALE MA SOLO COME ‘CASALINGA, MOGLIE, MADRE’». «Oggi pia che mai — continuava il volantino — è importante lottare, anche come parte integrante del movimento operaio, contro il ruolo che questa società ci vuole assegnare per uscire dall’isolamento e dalla condizione di oppressione in cui ci troviamo».
Il documento si conclude con un NO al referendum e con un invito a partecipare in massa all’assemblea. Invito che, sono tutti d’accordo, ha avuto una risposta eccezionale: la partecipazione è stata notevole, l’interesse vivo sia da parte delle donne che degli uomini. Le relazioni hanno trattato i temi del lavoro in fabbrica, della tutela delle lavoratrici e quelli più ampi della condizione della donna nella società. Le donne hanno seguito con grande attenzione: «Nessuna si è messa a leggere o a fare la calza — nota un’operaia — come capitava alle altre assemblee. Qui tutte stavano a sentire». Che stessero solo a sentire (tranne le delegate che prendevano parte all’assemblea) è un fatto scontato; da sempre le donne stanno zitte in pubblico, c’è sempre qualcun altro (uomo, naturalmente) che parla per loro. D’altronde lo diceva già S, Paolo: «È indecoroso che la donna parli in assemblea. Le donne nelle riunioni stiano zitte, perché non è stata loro affidata la missione di parlare». Opinione che, come è noto, non era un’esclusiva di S. Paolo. Condizionata per secoli a tacere in pubblico, a delegare agli altri (uomini) le decisioni, la donna non può di colpo scrollarsi di dosso il silenzio. «Molte ragazze — dice un sindacalista — volevano intervenire, avevano molte cose da dire: ma volevano che le dicessi io». La consegna del silenzio è difficile da spezzare.
In quanto agli uomini pro-femministi, che avevano contribuito ad organizzare questo 8 marzo «diverso», sono stati accolti dagli altri uomini come «traditori», transfughi nel campo nemico. Racconta uno di loro: «Quando sono uscito dall’assemblea, un compagno mi ha chiesto, con una tipica reazione ‘ da maschio ‘: ‘ Ma c’erano anche gli uomini? ‘. Come dire che mi ero ‘ sputtanato ‘, abbassandomi a parlare di cose da donne». Ma a poco a poco, aggiungono, mentre nelle donne si rafforza la coscienza di sé e la volontà di lotta, molti uomini cominciano a capire che la questione femminile non è un ghetto da donne, ma una lotta che interessa tutto il movimento operaio, tutta la società. In fabbrica si comincia a respirare aria nuova. Certo le resistenze sono molte, non solo da parte maschile. Le donne stesse — con la tipica reazione degli oppressi che non hanno ancora raggiunto una presa di coscienza — si trovano a volte a negare la propria oppressione; alcune sostengono persino di «star bene così». È il caso delle impiegate del centro meccanografico che hanno affermato che «battere a macchina è bello» e «noi siamo contente così». Il processo di presa di coscienza è contraddittorio, cosparso di paure e diffidenze. Ma una volta iniziato, è difficile fermarlo. Il nuovo momento di lotta sulla questione femminile dopo l’8 marzo, sarà il questionario. L’idea è partita da un gruppo di impiegate, alcune delle quali erano da tempo interessate alla questione femminile e avevano avuto contatti con le femministe milanesi. Il questionario di cui parliamo è è stato proposto al consiglio di fabbrica, riveduto e dibattuto per tre mesi. È stato distribuito alle donne dell’Alfa Romeo (circa duemila) l’ultima settimana di marzo. Effe ne pubblicherà i risultati appena possibile. «Si tratta non solo di un sondaggio per conoscere la realtà della condizione femminile in fabbrica — dicono all’Alfa — ma di uno stimolo al dibattito». Dunque uno strumento di lotta: una lotta delle donne in prima persona, quindi femminista nel senso più vero e profondo della parola.