libri

la donna immobile

aprile 1974

La letteratura femminista è ormai ricca di opere ponderose, che attaccano la cultura patriarcale con i suoi stessi strumenti più avanzati, ma che, per la severità di un’esposizione spesso ardua, non sono lette o non sono capite e lasciano prosperare l’ignoranza e l’equivoco. Si sentiva la mancanza di un’opera di lettura stimolante e piacevole, perfino divertente, il primo libro da consigliare a donne e uomini per cercare di scalfire la crosta dell’indifferenza e della pigrizia. Natalia Aspesi, che dalle colonne del «Giorno» porta da tempo a conoscenza del grosso pubblico i problemi della condizione femminile, ha raccolto la sua esperienza di giornalista e di donna in un libro agile e brillante. «Questo libro — dice l’autrice — non è stato scritto per chi ha letto, amato o respinto i libri importanti e geniali sulle donne: ma per quelle donne che non conoscono né la politica né la biologia, né l’economia né la psicanalisi. Né i libri sulle donne. In un delirio di presunzione l’ho scritto anche per qualche uomo volenteroso e gentile…». L’ideologia resta sullo sfondo, riscoperta e verificata nell’esperienza quotidiana di «tipi» e situazioni: la povera madre calabrese, carica di figli e consumata dalle sofferenze, che non è giunta nemmeno «al privilegio di sentirsi oppressa»; la signora ricca che passa la giornata tra le torture dell’istituto di bellezza per vincere la noia della sua inutilità; la donna arrivata che, per difendere il suo privilegio e per farsi perdonare il suo successo, paga alla società il tributo di un accanito antifemminismo; la donna comune che ha puntato tutto sull’unico investimento di se stessa che conosceva, quello del matrimonio e della maternità, e che alla fine, per non riconoscere che non ne valeva la pena, si aggrappa disperatamente al mito dell’angelo del focolare e della regina della casa. L’opera vuole essere la storia della maggiore e più stupefacente invenzione maschile che si conosca, quella della femminilità, per cui «diventa femminile essere fragile, sventata, romantica, se si serve nella casta dominante, o essere capace delle più dure fatiche, delle più degradanti umiliazioni, delle più acri privazioni, se si serve nella casta dominata»: una femminilità la cui essenza, al di là delle contraddizioni e delle variazioni del mito, è uno stato di dipendenza e di servitù. La mistica della bellezza, dell’amore, del sesso, del matrimonio, della maternità, mai abbastanza denunciata, costituisce l’invisibile inferriata da cui la donna è separata dalla libertà e dalla propria identità: la bellezza, condizione sine qua non della femminilità, fatica e alienazione, è sempre la bellezza dell’oggetto in vendita; l’amore è il ricatto con cui si fa sì che la donna rinunci a tutto, a se stessa e a vivere, anche quando l’amore non c’è; il sesso è il mezzo con cui si cerca di chiudere gli interessi della donna entro i limiti angusti della casa o addirittura della camera da letto; il matrimonio è la trappola nella quale ogni donna viene spinta dall’educazione, dalla censura sociale, da luoghi comuni palesemente assurdi ma non per questo meno deterrenti; la maternità unisce madre e figlio in un rapporto esclusivo e soffocante e, imprigionando la donna nel suo ruolo, ne fa pagare al figlio le frustrazioni.
Il discorso sembra avere il libero sviluppo di una conversazione, ma ciò che ne costituisce il solidissimo filo conduttore è la costante interpretazione in termini di potere, particolarmente demistificante nell’analisi del lavoro domestico, faticoso, frustrante, senza limiti d’orario, non pagato e soprattutto isolato, e il lavoro esterno, che quando c’è, si aggiunge all’ineliminabile lavoro domestico. Ma fuori casa sono riservati alla donna solo i lavori più faticosi e meno pagati. Puntuali riferimenti storici servono a smascherare l’ipocrisia con cui si è attuata l’oppressione femminile: nell’epoca vittoriana, quando alle signorine di buona famiglia era prescritta una femminilità fragile, pronta ai languori e agli svenimenti, le miniere, le fabbriche di fiammiferi, le tessiture erano piene di donne che lavoravano duramente con orari di sedici ore al giorno. Le numerose citazioni dai testi più disparati che sono raccolte alla fine di ogni capitolo svolgono un discorso «à coté», non meno pertinente e incisivo dell’altro: uniti da impensate affinità e fermissime solidarietà di fondo, i più vari rappresentanti della cultura patriarcale — il filosofo antico e il giornalista dei nostri giorni, il fascista e lo scrittore che si crede progressista, il giudeo, il cristiano e il maomettano, S. Paolo e Hitler — si danno la mano attraverso i secoli per denigrare e opprimere le donne. Ma accanto alle più ottuse e arroganti definizioni della femminilità, le voci diverse di denuncia e di rifiuto.
Infine, inattesa, la pagina, datata «20 ottobre 2033» («dopo la rivoluzione») del diario di una ex femminista degli anni 70, che ricorda le tappe della lotta: la rivolta delle donne, iniziata dalle non femministe, lo sciopero di cinque milioni di lavoratrici e subito dopo quello risolutivo di otto milioni di casalinghe. E descrive il frutto delle conquiste: grandi comunità familiari, in cui è stata scoperta una nuova socialità, nutrita di libertà e ai calore umano, mancanza di ruoli, orario di lavoro di venti ore settimanali per tutti, salario per tutti, donne, vecchi e bambini, lavoratori e non lavoratori, così che nessuno deve più dipendere da un altro, il ritorno alla campagna a nuove condizioni… Utopia o programma politico?

«La donna immobile», di Natalia Aspesi,   ed.  Fabbri.