mi perdonino le spose felici

aprile 1974

Uscii dalla scuola a quindici anni, dopo avervi appreso ciò che normalmente si imparava nelle scuole ufficiali, e ancora qualcosa di più, grazie alla preoccupazione e all’interesse della maestra per i miei studi.
Di salute precaria, il che costituiva un peso per i miei genitori, che non potevano mettermi al lavoro, e una continua tribolazione per le spese che provocava in famiglia, mi si presentò la possibilità di continuare a frequentare la scuola, ancora per due anni oltre quelli permessi dalla legge, e questo come premio per le buone votazioni ottenute nel corso della mia vita scolastica.
In questi due anni supplementari frequentai, aiutata dalla mia insegnante, il corso preparatorio per entrare nella scuola normale per maestre e il primo anno di studi dì questa scuola, con l’illusione di diventare maestra, e di arrivare alla normale con un anno di anticipo.
Tutte quelle illusioni di adolescente svanirono di fronte alla dura realtà economica. Studi, viaggi, vitto, vestiti, libri, rappresentavano una spesa superiore alle possibilità dei miei genitori. Invece di entrare alla scuola normale per maestre, andai in un laboratorio di cucito, dove stetti due anni apprendendo il necessario per non avere bisogno dell’aiuto altrui nella confezione dei vestiti miei, e, più avanti, dei miei figlioli. Dopo questo apprendistato, lavorai tre anni come donna di servizio nelle case di commercianti conosciuti. E a vent’anni cercando di liberarmi del duro lavoro nelle case altrui, mal nutrita e peggio pagata, mi sposai con un minatore, che avevo conosciuto nella prima casa in cui prestai servizio. La mia missione nella vita era compiuta. Non potevo, né dovevo, aspirare ad altro, dopo il mio fallito tentativo di diventare maestra. Lo scopo della donna, la sua via di uscita, la sua unica aspirazione, era il matrimonio, e la -continuazione della vita triste, grigia, penosa, schiava, delle nostre madri, senza altra occupazione che partorire e allevare ì figli, e servire il marito, che nella maggior parte dei casi trattava la moglie senza nessuna considerazione.
Soleva dire mia madre che «chi indovina nel matrimonio, non sbaglia in niente». Indovinare nello sposarsi, nel significato che gli dava mia madre, era difficile quanto trovare un fagiolo di una libbra.
E io non fui di quelle che incontrarono quel fagiolo. Mi perdonino le spose felici. Ma ciascuno parla della festa a seconda di come gli va. C’era un tempo che io ignoravo — senza per questo pensare che tutto il passato fosse migliore, in cui le donne lavoravano nella miniera. E con tutta la brutalità dì questo lavoro, era una soluzione che non si offriva più alle donne del bacino minerario, nel periodo al quale io mi riferisco, soluzione che, oltre al salario, dava personalità sociale alla moglie. Quando diminuì la domanda del minerale e cominciò ad abbondare la manodopera, si fece a meno del lavoro femminile, addolcendo la disposizione discriminatoria con ipocrite considerazioni sulla madre la donna, la famiglia, il focolare. Si liberava la donna dal lavoro della miniera, che «abbrutiva» per trasformarla in uno schiavo domestico senza alcun diritto. Nella miniera la donna era un operaio. Poteva protestare contro lo sfruttamento a fianco degli altri operai, difendere la sua personalità come lavoratrice.
Nella famiglia la donna si spersonalizzava; si votava, per la forza della necessità, al sacrificio. Era la prima nel lavoro, nelle privazioni, nello sforzarsi con ogni genere di servizi di rendere più gradevole, meno dura, meno difficile, la vita dei suoi figlioli, di suo marito, sino ad annullarsi interamente per diventare, con l’andar del tempo, la «vecchia» che non «comprende», che disturba o che, nel migliore dei casi, fa la serva ai giovani, da bambinaia ai nipoti. E così una generazione, e un’altra, e un’altra… Quando nacque la mia prima figlia, io avevo vissuto in poco più di un anno un’esperienza tanto amara, che soltanto l’amore della mia piccola mi legava alla vita. E mi atterriva non solo il presente, odioso e insopportabile, ma il futuro che intuivo tremendamente doloroso e inumano. Giorno dopo giorno avevo visto com’era la vita delle mogli dei minatori. Ciò nonostante, poiché l’inesperienza della gioventù costruisce spesso castelli in aria, anch’io me ne costruii. E piena di illusioni e guardandomi dentro, chiudendo gli occhi davanti a ciò che avevo intorno, costruii castelli sopra la sabbia mobile del «con te pane e cipolla» credendo che l’inclinazione reciproca e l’affetto avrebbero supplito e sarebbero stati più forti dì tutte le difficoltà e le privazioni, dimenticando che dove non c’è da mangiare tutto è tristezza e che, a volte, anche se c’è farina, non per questo manca la tristezza.
La realtà nuda e cruda mi colpì come tutte, con le sue mani implacabili. Alcuni giorni brevi, fugaci, di illusioni, e dopo… Dopo, la prosa fredda, pungente, senza misericordia, della vita. Di una vita triste, meschina, dolorosa, disumana, che spingeva ogni giorno più giù nel pantano senza fondo della miseria. Dalla mia stessa esperienza apprendevo la dura verità del detto popolare: «Madre, che cosa è sposarsi? Figlia, filare, partorire e piangere»… Piangere… Piangere sui nostri mali, sulla nostra impotenza. Piangere sui nostri figli innocenti, ai quali soltanto potevamo offrire le nostre carezze inzuppate di lacrime. Piangere per le nostre vite dolorose, senza orizzonti, senza uscita. Pianto amaro, con uno, maledizione permanente nel cuore e una bestemmio sulle labbra. Bestemmiare una donna, una madre bestemmiare? E che c’è di strano, se la nostra vita era peggiore di quella dei condannati? La prima volta che sentii una bestemmia disperata sulla bocca di una madre, rimasi atterrita. Dopo, mi abituai. E a volte… Era orribile, ma orribile era anche la nostra vita.
Valeva la pena di viverla? Quando commentavo con te mie amiche e compagne di miseria le nostre angustie, le nostre necessità, la nostra situazione, rispondevano con rassegnata tristezza: «E che possiamo fare?».
E io mi ribellavo all’idea che sempre sarebbe stato così, e anche peggio, mi rivoltavo all’idea che eravamo condannate a trascinare fino alla consumazione dei secoli le catene della miseria, della sottomissione, come bestie da soma, a volte consumate a bastonate, calpestate, schiaffeggiate, dall’uomo scelto come compagno della tua vita.
(da: «Memorie di una rivoluzionaria», di Dolores Ibarruri, Editori Riuniti, Roma, 1962. Trad. di Ignazio Delogu, pp. 76-78)

la pasionaria non rinuncia
Dolores Ibarruri la Pasionaria, il «fiore della passione», prima di divenire la leggendaria dirigente del partito comunista spagnolo e il capo carismatico di un popolo in lotta contro il fascismo da ragazza fu cuoca, rammendatrice, sardìnera, cioè venditrice di sardine nei villaggi della Biscaglia dove era nata alla fine del secolo. Era ancora una fervente cattolica quando si sposò con un minatore delle Asturie, un dimenticato fondatore del partito comunista nella Spagna del nord, con cui ebbe sei figli di cui solo due sopravvissero alla vita di miseria e di stenti della famiglia, non diversa da quella di tutti gli altri minatori della Biscaglia.
Nel ’17, l’anno della rivoluzione socialista in Russia, Dolores si era già ribellata al suo drammatico destino: la giovane sardinera leggeva il Capitale in un logoro riassunto fatto da un francese e mandava a memoria il Manifesto del partito comunista la sera, cullando la figlia Ester. Già nel ’20 fu eletta membro del primo comitato provinciale del partito comunista di Biscaglia che aderì all’Internazionale comunista, nato dalla scissione del partito socialista e poco più tardi fu delegata al primo congresso comunista. Anni eroici che seguivano la grande rivoluzione, sulla cui onda nasceva il movimento comunista internazionale: nell’estate del ’21 il piccolo nucleo decise l’insurrezione armata che fortunatamente non fu mai attuata, e la Ibarruri partecipò attivamente alla preparazione della insurrezione. Quando Lenin scrisse Estremismo malattia infantile del comunismo fu la prima a farsi l’autocritica e a battersi per superare il settarismo che caratterizzava allora il piccolo partito. Nel ’23, l’anno dell’instaurazione del generale Primo de Rivera e della repressione brutale contro i comunisti, Dolores ebbe un parto trigemino e solo Amaya sopravvisse, l’anno dopo ancora una figlia ma anche questa morì a soli due mesi: dal ’23 al ’30 furono anni neri di disperazione e di fame, il marito quasi sempre in galera, Dolores divisa tra la cura dei suoi piccoli, il duro lavoro di cucito per sopravvivere e l’attività politica che di anno in anno diveniva più importante e la gravava di maggiori responsabilità. Alla Conferenza di Pamplona del ’30 fu nominata membro del comitato centrale, e la sua popolarità divenne leggenda: sempre vestita di nero, col volto grave e lo sguardo appassionato, era divenuta una straordinaria oratrice capace di soppesare parole e silenzi e di esercitare un enorme fascino su chiunque l’ascoltava. Il 14 aprile del ’31 con le elezioni municipali cadde la monarchia, e questo segnò l’inizio di un nuovo periodo, che se non fu di democrazia e progresso, permise l’accrescimento e la maturazione del movimento operaio. A novembre di quello stesso anno la Ibarruri lascia la Biscaglia per trasferirsi a Madrid come redattrice di Mondo Obrero. E fu proprio mentre usciva dalla redazione del giornale che fu arrestata per la prima volta. Nelle sue memorie il racconto dei suoi periodi di detenzione e della sua attività politica all’interno delle carceri femminili occupa un ampio spazio e ci trasmette un’esperienza per noi preziosa. A Siviglia nel ’32 partecipò al IV congresso del partito comunista, il primo che poteva svolgersi apertamente e legalmente: Dolores era già un leader indiscusso. Dopo la crisi di governo che mise fuori i socialisti, ci fu nel ’34 un’insurrezione che venne sconfitta anche a causa della divisione tra anarchici comunisti e socialisti, ma durante quella fase sanguinosa si realizzò una conquista per il movimento: si costituirono le Alleanze operaie e contadine la cui realizzazione fu una vittoria personale della linea e del lavoro della Ibarruri. Nel ’33 era accaduto un fatto molto importante: una delegata del Comitato mondiale delle donne contro la guerra e il fascismo entrò in contatto con la Ibarruri, che in seguito a questo incontro decise di dedicarsi assieme ad altre compagne alla costruzione del movimento femminile autonomo, che diventò presto molto forte. Durante la guerra civile l’organizzazione femminile svolse un ruolo molto importante. Questa attività costò alla Pasionaria gli insulti più virulenti e contribuì alla costruzione del suo personaggio descritto dagli avversari come diabolico: si narrava che avesse ucciso un prete a morsi e che andasse predicando alle donne l’abbandono dei mariti e dei figli. Nella primavera del ’35 Ruben e Amaya, i due soli figli rimastile, partirono per l’Unione Sovietica: fu una separazione dolorosa, ma la donna più famosa di Spagna non poteva concedere ai suoi figli una casa abitabile, né un’educazione accurata. Nel ’36, dopo essere stata in carcere altre due volte, alle soglie ormai della guerra civile venne eletta deputato dei minatori. Durante la guerra divenne l’indiscusso capo carismatico della resistenza, e svolse un ruolo importante nelle relazioni con gli altri paesi: la Francia, l’Inghilterra e l’Unione Sovietica delle cui posizioni si fece portavoce. Quando nel ’39 fu chiara la sconfitta del movimento rivoluzionario, le fu concesso di partire con altri compagni membri del governo con un aereo, e andò a raggiungere i suoi figli in Unione Sovietica, dove rimase come rifugiata politica, la più illustre rifugiata politica. La sua fede nell’internazionalismo proletario, la convinzione che la vittoria del comunismo avrebbe finito per sconfiggere l’imperialismo e il fascismo ha sempre costituito la ragione principale della sua adesione totale alle scelte politiche dell’Unione Sovietica, tanto che storici del tipo di Thomas possono permettersi di asserire che «la sua personalità non era poi così potente, se obbediva senza fiatare alle istruzioni provenienti da Mosca». Ma è notizia del mese scorso che Dolores Ibarruri, ormai quasi ottantenne, si è schierata con l’ala del partito comunista spagnolo, l’ala maggioritaria dopo la scissione, che è stato disconosciuto dall’Unione Sovietica e accusato di essere filocinese e avversario della coesistenza pacifica. La Pasionaria non rinuncia.