divorzio

testimonianze

aprile 1974

1. LA SEPARATA
Questa testimonianza presenta in realtà un vizio di forma: si parla infatti qui di testimonianze di donne separate o divorziate o annullate mentre io sono (la decisione è al vaglio dei giudici) separata e nubile, ragazza madre e presunta correa di bigamia, e contemporaneamente in attesa di divorzio.

la richiesta di separazione
Cominciamo dal principio. Nel 1966, dopo sette anni di matrimonio e con due figli — uno di sei e uno di quattro anni — chiedo la separazione (consensuale). La condizione posta da mio marito è quella di non dare un soldo per il mantenimento dei figli: «se vuoi soldi — mi dice — non do il consenso alla’ separazione, ti costringo a star qui e ti rendo la vita impossibile». Come si sa ottenere una separazione è praticamente impossibile senza il consenso del coniuge. Rinuncio quindi a chiedere al giudice la fissazione della cifra. L’avvocato mi spiega che trattandosi di un diritto irrinunciabile, non appena ottenuta la separazione, chiederemo gli alimenti per i figli (gli alimenti per me non ho mai avuto intenzione di chiederli perché non mi ero sposata per essere mantenuta, ho sempre pensato di avere il dovere e la capacità di mantenermi da sola). Mio marito — dev’essere precisato — è un professionista; all’epoca della nostra separazione la sua carriera in Italia cominciava a consolidarsi, guadagnava bene e si avviava a guadagni sempre più alti. E’ vero che spende molto: gli piace spendere. E’ vero anche che deve mandare una cifra mensile in America (negli anni cinquanta, insegnante in una università degli Stati Uniti e con difficoltà di ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno, aveva sposato una ragazza americana da cui aveva successivamente divorziato). Ma i suoi guadagni glielo permettono.
Presento una citazione per ottenere gli alimenti e mio marito mi chiede di ritirarla (mettiamoci d’accordo — dice rivolgendosi al tribunale è sempre spiacevole specialmente per i bambini). La ritiro e continuo a non avere un soldo. Trova il modo di impedirmi di presentare altre richieste di alimenti: noi viviamo, da dopo la separazione, in città diverse, ognuno la nostra vita, anche sotto il profilo affettivo. Una volta, durante un vero e presunto tentativo di riconciliazione, mi viene chiesto quale sia la mia ‘vita affettiva’. La risposta, registrata su nastro magnetico, viene usata come minaccia di ricatto ‘ per confessato adulterio’. Alla moglie adultera si può togliere l’affidamento dei figli. L’adulterio del marito — come si sa — non costituiva reato: siamo nel 1967 e la Corte costituzionale non si era ancora pronunciata sulla illegittimità di questa inverosimile norma, cosa che farà nel 1968. Soltanto nel 68 quindi riesco finalmente ad ottenere il primo assegno mensile per i ragazzi: 100 mila lire al mese, ventimila lire meno di quanto mio marito paga una coppia (cameriera lei, giardiniere-autista lui) al suo servizio.

la richiesta di divorzio
Approvata la legge sul divorzio io dico a mio marito che vorrei divorziare. Almeno così, avrò la patria potestà, perché oltre tutto, la condizione di separata è segnata dai fastidi più incredibili, come quelli per ottenere un passaporto per sé o per i figli (attese di mesi, autorizzazione del giudice tutelare, autorizzazione del marito, ricerca della persona cui deve essere attribuita la responsabilità dei bambini durante eventuali viaggi all’estero della madre, la legge presumendo che questa altro non cerchi, ottenuto il passaporto, partire per l’estero e scomparire per sempre). Lui dice, d’accordo ma lo chiedo io. Benissimo. Aspetto sei mesi. Finalmente il suo avvocato di lui mi comunica che se io voglio il divorzio, mio marito è disposto a chiederlo, ma chiede contemporaneamente che i bambini vengano messi in collegio — la motivazione è che la madre viaggia spesso per lavoro e quindi se ne occupa «non adeguatamente». Un fulmine a ciel sereno, che lascia pero intravedere le sue vere intenzioni di non volere il divorzio per non avere una sentenza del giudice che lo obblighi a pagare una cifra mensile adeguata per i bambini. Aspetto ancora alcuni mesi — nel frattempo la Corte costituzionale doveva pronunciarsi sulla legittimità della legge sul divorzio — e dopo la sentenza favorevole della Corte presento l’istanza.
Udienza previsionale: faccio presente al giudice l’entità dei guadagni- di mio marito e chiedo un aumento dell’assegno mensile. Mio marito si oppone. Il giudice decide un aumento’ prò tempore’ di 20 mila lire. Io dico che, se di 20 mila lire si tratta, almeno non si chiamino ‘ aumento data la svalutazione che nel frattempo vi è stata del potere d’acquisto della moneta. Il giudice porta la cifra a 30.000 ]ire di modo che sia meno ridicolo chiamarla ‘aumento’. Aspetto la seconda e spero definitiva udienza.

la madre nubile
Colpo di scena. Mi viene recapitata una citazione con cui mio marito richiede al tribunale di dichiarare nullo il matrimonio (e pertanto illegittimi i figli) in quanto lui era precedentemente sposato negli Stati Uniti. Nella citazione non dice di essere stato anche divorziato ma il suo avvocato rivela che comunque il suo divorzio non ha valore perché non era mai stato omologato in Italia. Per i figli illegittimi (o adulterini in questo caso? ancora nessuno sembra averlo capito) la legge italiana prevedere una cifra irrisoria, non commisurata né ai guadagni né al tenore di vita del padre. E’ un colpo da maestro. Peccato però che sia previsto dal codice italiano il reato di bigamania, per cui chi si sposa mentre è legato da un precedente vincolo matrimoniale è punito fino a 3 anni. In questo caso — sempre secondo la citazione presentata da mio marito — io sarei addirittura correa di bigamia perché conoscevo l’esistenza del precedente matrimonio. La sua auto-accusa di bigamia non è molto comprensibile. Forse spera in chissà quali connivenze (il suo avvocato è un autorevole esponente del sottogoverno, collocato ad alti livelli di uno di quegli enti che secondo il ministro De Mita, col bel neologismo citato dal Corriere della Sera, avrebbero il compito ‘ sub-istituzionale ‘ di distribuire bustarelle o, quanto meno, buoni-benzina). Io ho chiesto che venga delibato in Italia il suo divorzio di modo che, se anche risultasse vero che al momento delle nozze il nostro matrimonio non era valido, questo risulti valido almeno da dopo l’approvazione della legge Fortuna-Baslini. Forse una delle connivenze in cui spera è che il divorzio venga definitivamente respinto in Italia il prossimo 12 maggio.
Giovanna Sani

2. L’ANNULLATA
Anno Domini 1972, die 12, mentis Julii, prò tribunali sedentes, in Aula Tribunali Appellationis Vicariatus Urbis nfrascrìpti Judices… decernunt sententiam affirmativam pumi gradus ratam habendam esse, vetito mulieri transitu alias nuptias, Hoc Officio inconsulto… Ita est.
Dal giorno 12 luglio 1972 sono libera, il mio matrimonio non è mai esistito. Semplici formalità sono state quelle relative alla trascrizione della sentenza in calce all’atto di matrimonio. Il mio stato civile è «nubile». Però solo recentemente mi sono trovata a meditare su questo mio inaspettato e forse mai sperato «stato», quando andai a chiedere al comune di… espletare le formalità per il trasferimento della mia residenza da Milano in questo paese dove abitualmente vivo da qualche tempo. Gentilmente mi furono chiesti i dati concernenti la mia persona. Stato civile: nubile (mi era appunto stata notificata la sentenza di nullità del matrimonio). Figlia di… e di… Sposata? No, come le dicevo sono nubile. Guardi, per sua comodità le dò «lo stato di famiglia» certificatomi dal comune di Milano. Signora, no, volevo dire, signorina, allora anche due bambini la seguiranno in questa sua residenza? (notai che era alterato). E continuò: io, sa, qui è un paese piccolo, si sa tutto, ma lei non ha un altro bambino?

il gioco della rispettabilità
Si, risposi, divertita, ne ho un altro, ma per ora non vi onorerà della residenza in questo comune, in quanto giuridicamente non è mio figlio. Dunque, ricapitoliamo — disse — signorina, tre figli, volevo dire due, professione giornalista pubblicista. E concluse: mi sembra che sia tutto chiaro. (Era sconvolto). La ringrazio e mi dispiace di essere stato costretto a entrare in certi particolari, ma, lei lo sa meglio di me, sono semplici formalità. A questo punto risi. Probabilmente pensò che ero matta. Mi congedai, ma passarono pochi secondi e sentii: signora, molti ossequi a suo marito e mi scusi ancora. Riferirò, mi sentii dire da lontano: ero sbalordita. Il marito è l’uomo, a sua volta sposato e separato, con il quale vivo dal tempo della mia separazione civile che avvenne otto anni fa. Toccare con mano il mio stato civile, la mia condizione di madre di tre figli, ufficialmente, ovvero dalle carte, solamente di due, convivente di un uomo sposato (da quel momento si sentiva il più informato perché con la sua arguzia aveva avuto la conferma che il «marito» al quale mandava tanti saluti non mi aveva sposato), aveva sconvolto il povero funzionario del comune. Ma perché? In un paese piccolo le voci corrono. Tutti sapevano, avevano sempre saputo.
Eppure evidentemente c’è la tendenza a non sapere, a giocare a non sapere, manifestando il rispetto verso la persona con l’inserirla, almeno formalmente, nei classici, rispettabili schemi sociali tuttora ritenuti classici e rispettabili. Tutti nel paese mi chiamano la signora… la moglie di… Non mi è mai sembrato il caso di smentire. E qui è stato il mio errore: anch’io mi sono lasciata coinvolgere in quel gioco antichissimo della rispettabilità. Allo stesso modo come è stato un gioco il processo che ha condotto al Decretum ratihabitionis sententiae affirmativae da parte del Vicariatus Urbis Tribunal Appellationis, relativa alla nullità del mio matrimonio avvenuto dieci anni fa, «ob exclusum bonum sacramenti ex parte mulieris», (perché la moglie non riconosceva al matrimonio il valore di Sacramento).
Per incominciare, una volta presa la decisione di intraprendere la strada della Romana nullitatis matrimonii, decisione di per sé non semplice perché è necessario non farsi troppe illusioni economiche, anche dopo le recenti disposizioni in materia, mi toccò la ricerca di un buon avvocato, ben introdotto negli ambulacri del Palazzo Apostolico Lateranense. Non fu neppure troppo difficile perché le relazioni sociali favorirono l’incontro con l’uomo giusto, competente e astutissimo, la cui caratteristica è quella di non suggerire mai una linea di comportamento, ma piuttosto quella di darti l’impressione che sei sempre tu che proponi, o meglio, che «senti» una linea, per di più motivata da precise convinzioni morali. Quelle sono indispensabili. Qui non si tratta, cara signora, di un gioco d’astuzia, ma di un caso di coscienza, cerchi in se stessa.

ex parte mulieris
Cercai, scrissi e proposi di richiedere il riconoscimento della nullità del mio matrimonio «ob exclusum bonum sacramenti ex parte viri», (perché il marito non gli riconosceva il valore di Sacramento). Ma «ex parte viri», ovvero il consorte, non fu d’accordo. Tutto daccapo. Desolata mi appellai all’avvocato. Che ci stava a fare se no? Ci pensi, signora, mi racconti ancora la storia del suo matrimonio, vedrà che dalla sua coscienza emergerà la motivazione della sua richiesta. Scrissi e riscrissi. Alla fine, come d’incanto, venne indirizzata a Sua Eminenza Reverendissima il Signor Cardinale Vicario Generale di Sua Santità di Roma la timida richiesta («Oso rivolgermi alla Eminenza Vostra Reverendissima») di voler prendere in considerazione il caso mio e di non privarmi del diritto di agire, attesa la mia assoluta mancanza di dolo all’epoca delle nozze. Alla fine di questa correttissima esposizione concludevo: «Le quali cose esposte in fatto, in diritto io sottoscritta accuso di nullità il matrimonio da me celebrato come sopra, per il seguente motivo ob exclusum bonum sacramenti ex parte mulieris (perché la moglie non riconosce il matrimonio come Sacramento) a norma del can. 1086, 2 e. del Cod. Jur. Cani» La facilità con cui fu facile passare da «ex parte viri» a «ex parte mulieris» mi diede il coraggio per affrontare la successiva istruttoria.
Grande giocatore e molto costoso, seppure garbato nelle sue richieste motivate da fondi spese, l’avvocato mi confortava nella mia attesa: dapprima mi passò il questionario dell’interrogatorio che mi avrebbe fatto il giudice istruttore. «A proposito del giudice istruttore, cara signora, mi sono ricordato che domani è il suo compleanno, è una persona così gentile che ho interpretato il suo desiderio di mandargli un piccolo presente» e mi mostrò furtivamente una busta dalla quale estrasse un assegno. Per l’emozione non riuscii a leggere gli zeri che seguivano l’uno. Fu l’unica volta che non ebbe il coraggio di parlare di coscienza.
La mia «coscienza» dovette aiutarmi nella ricerca dei testimoni: cinque o sei. Cari amici, disposti ad aiutarmi fino in fondo in questa mia decisione, docilmente attestarono davanti al giudice istruttore che io assolutamente non credevo, che non ho mai creduto nella indissolubilità del matrimonio, con parole che, secondo le esortazioni dell’avvocato, «dovevano venire dal più profondo della loro coscienza». Il giudice istruttore, a questo punto, era dalla mia. Quando i miei genitori furono chiamati a testimoniare cercò di non rilevare che «la mia era stata una educazione nel rispetto dei più ligi principi cattolici, che io affrontai il matrimonio con quelle convinzioni che non può non avere una ragazza che «ha fatto» la Cattolica, suggerendo le parole più opportune perché queste testimonianze non mi danneggiassero. Ormai era stabilito: io, anche se di formazione cattolica, in materia di matrimonio la pensavo liberamente, anzi non avevo mai inteso contrarre un vincolo che mi legasse a un uomo per tutta la vita. E se questo vincolo ci fu, avvenne solo per uscire dalla famiglia. Dalla padella nella brace, insomma. Il giudice comprese e forse comprese definitivamente quando ascoltò i miei genitori. Ascoltò la sua coscienza e stette anche lui al gioco.
Paola Carli

3. LA DIVORZIATA
Non è stato certamente il divorzio il momento traumatico, il fatto che ha interrotto il mio matrimonio. Io credo che ogni donna divorziata con la Fortuna-Baslini possa dire quello che dico io ora: il trauma, lo choc, la crisi lacerante la si vive assai prima: i cinque anni di separazione, o legale o di fatto, necessari oggi in Italia per divorziare, assicurano, al contrario, una serenità nel rapporto tra i finalmente exconiugi che neppure la preventiva separazione consensuale davanti al giudice (quando vi sia stata) riesce a determinare. Almeno la mia esperienza è questa.
Anche la separazione davanti al giudice l’avevo voluta io, come poi, approvata la legge Fortuna-Baslini, volli u divorzio. Avevo bisogno di «carte scritte», di un iter burocratico, è vero (il mio partner non mi risparmiò la osservazione sarcastica) per definire e stabilizzare i miei sentimenti, le mie emozioni. Un uomo è più libero di una donna, perlomeno perché ha l’alibi del lavoro che l’allontana quotidianamente dalla casa;- quindi può permettersi di lasciare nell’indefinito la sua vita privata, egli esiste, soprattutto, nella dimensione pubblica, nel suo spazio sociale. Per la donna, anche se lavora, è diverso: l’ambiguità della situazione — separazione di fatto — la contagia irrimediabilmente, perde ogni status, si incrina, perfino, la sua stessa capacità di autoidentificazione. Senza contare i traumi — questi sì traumi violenti anche per i figli — del vai-e-vieni dei sentimenti, del proviamo-ancora-una-volta-a vivere insieme, ecc. Dei ricatti, che nessun tipo di civiltà di rapporti marito-moglie purtroppo riesce ad escludere. Quindi il primo punto fermo è la separazione davanti al giudice. Ma a quale prezzo, per la donna: per incominciare, se vuole tenere con sé i figli (e il nostro processo di liberazione interiore è ancora troppo acerbo, io credo, per permetterci di rinunziarvi senza risentirne la privazione) è obbligata, quasi sempre, a cedere su altri punti: poi, non dispone di nessun potere legale su questi figli, mancandole la patria potestà: poi è esposta costantemente al ricatto dell’obbligo di fedeltà, che permane: e che se ormai oggi non conduce più, quando sia violato, alla condanna penale per il reato di adulterio, giova, in sede civile, come motivo per ritogliere, alla donna, i figli.

il tentativo di conciliazione
Quando, nel dicembre del 1970, il 2 dicembre, anzi, si approvò definitivamente in Parlamento la Fortuna – Basilini, io fissai, nella stessa settimana, con lo stesso avvocato che mi aveva tutelato nella causa di separazione, un appuntamento per incominciare le pratiche del divorzio. Ero, allora, separata di fatto da cinque anni e legalmente da tre. Se guardo ai due anni della separazione di fatto, non posso non ricordarli come i peggiori della mia vita. Un’altalena di sentimenti, lacerazioni, conflitti, odio: anche io credo di essere stata allora peggiore, come individuo, di sempre. La separazione davanti’ al giudice fu il primo punto fermo apposto ad una vicenda che da splendida che era inizialmente s’era mutata in tormentosa. Non nego il senso di squallore che provai quel giorno in quell’aula: e quanto mi sembrò beffardo ed ipocrita, degno proprio della società in cui viviamo, gli uni dagli altri isolati, gli uni con gli altri ostili, il tentativo di conciliazione fatto dal giudice, come prescrive la legge, prima di pronunziare la sentenza: un impiegato dello Stato, sclerotizzato dall’abitudine alla burocrazia, che dovrebbe penetrare (ma con quali strumenti?) le ragioni, oscure il più delle volte agli stessi protagonisti della vicenda, per cui due che si amavano (o credevano di amarsi) ora si rifiutano.
In un sistema come il nostro, in cui il senso del collettivo non esiste, e nessuno di noi ha più rapporti con la comunità (e come potrebbe averli?) questi tentativi di conciliamone, che prescrive anche la Fortuna – Basilini, sono davvero tollerabili.
Il giorno del divorzio fu segnato più o meno dallo stesso iter burocratico: ho sempre odiato le pratiche, le carte, gli uffici, e questo mio sentimento di avversione non mi risparmiò neanche allora: ma mi rendevo conto razionalizzando la mia irritazione, che anche il giorno in cui mi ero sposata (con gioia) ero passata attraverso le stesse carte, le stesse pratiche, gli stessi uffici. Semmai non lo avessi capito prima, mi rendevo conto che divorzio-matrimonio erano i due poli di una realtà identica di intrusione del ‘ pubblico ‘ nel nostro ‘ privato ‘. (Diverso sarebbe stato sentirsi parte di una comunità che condivide o perlomeno comprende le tue ragioni private).

signore o signorino?
Il divorzio non è stato quindi, neanche nella mia esperienza, una festa. Ma mi è servito come gesto importante di definizione di me, e di autonomia: mi è stato detto, da alcuni (i benpensanti) che ero stata una sciocca ad ostinarmi, io sola tra i due, nel volerlo: tanto più che, con il divorzio, avrei perduto (questo l’unico svantaggio pratico) l’assistenza mutualistica spettante, invece, alle mogli separate: e soprattutto, non si capiva la ragione per cui volevo divorziare se non mostravo alcun desiderio di risposarmi. Evidentemente, una intenzionalità femminista nell’atto del divorzio rimane ancora oscura a molti. In quanto ai vantaggi concreti, il più importante fu che mi vidi attribuire la patria potestà sui figli: segue la possibilità di bloccare, direttamente presso il datore di lavoro dell’ex coniuge, la cifra corrispondente agli alimenti indicata nella sentenza di divorzio (io li avevo richiesti soltanto per i figli, non per me) ove non vengano regolarmente versati.
Ma il vantaggio principale, per me, è stato proprio questo sentimento di liberazione interiore, la possibilità di mettere un punto fermo e quasi di ‘storicizzare’ una vicenda che avevo vissuto, fin allora, a capofitto: di riconoscere, infine, la parte di bene che comunque me ne era venuta. In quanto ai riflessi della situazione di divorziata nell’opinione pubblica più retriva, rappresentata, nel mio caso, dai condomini e dal portiere dell’edificio in cui abito, devo dire che il divorzio, che non ho mai nascosto, come non avevo mai nascosto la separazione, ha restaurato, mi pare, il mio prestigio compromesso dall’essere rimasta, bruscamente, priva di marito: e si sa che nella comune accezione è sempre la donna che «non riesce a tenersi il marito». Il divorzio, invece, voluto dalla donna — e ad esemplificare questa volontà basta il piccolo gesto di apporre la targhetta col proprio nome di ragazza sulla porta di casa — è un gesto, perlomeno ancora in questo momento, di avanguardia, e che incute un certo rispetto.
Resta l’imbarazzo della stolta domanda: signora o signorina? A cui io rispondo brutalmente: divorziata. E se l’interlocutore è un maschio, e si è in vena di provocazione, la controdomanda femminista: E lei, scusi, signore o signorino?