casa-carcere: prigioni a confronto
ovviamente tra noi fuori e le detenute ci sono anche enormi differenze: noi che siamo fuori siamo ad esempio in condizioni più favorevoli per lottare, per capire meglio i vari nessi tra aspetti della nostra comune oppressione, per conquistare spazi nostri di autentica libertà ed autonomia.
è’ solo recentemente che molti quotidiani si sono occupati del carcere femminile, un mondo che finora era stato invece quasi del tutto ignorato. A far esplodere d’interesse sull’argomento è stata un’iniziativa del Coordinamento delle giornaliste romane, che a marzo ha inviato una propria delegazione a visitare quattro istituti carcerari femminili: Messina, Perugia, Rebibbia e Venezia. È stato un lavoro nuovo, diverso, che è riuscito ad essere insieme professione ed impegno collettivo.
Lo scopo dell’inchiesta era quello di individuare uno specifico della donna detenuta, con i suoi problemi, i suoi bisogni, i suoi desideri. Non vogliamo qui riassumere il quadro desolante della condizione della donna in carcere, che è già stato ampiamente illustrato su vari giornali. E neppure vogliamo addentrarci nel discorso sul carcere come istituzione totale di per sé spersonalizzante. Né in questa sede vogliamo discutere sulla sua funzione più o meno «riabilitante», né esaminare per quali meccanismi di emarginazione sociale si arriva in carcere e come mai ci arrivano soprattutto i membri delle classi meno abbienti e perché in questa società i reati puniti siano soprattutto quelli sul patrimonio. Sono tutti problemi che ci riguardano come cittadine democratiche, e che toccano in ugual misura donne e uomini. Proprio in quanto donne vogliamo invece qui vedere che cosa ci lega alle donne incarcerate, quali aspetti delle nostre vite fuori e dentro il carcere si assomigliano. Ci sembra infatti che da questa inchiesta emerga che il carcere femminile costituisca un microcosmo che riproduce esasperandola quella che è per molte di noi la realtà esterna.
Casa e lavoro: Sono soprattutto le detenute non più giovani, contadine o sottoproletarie che secondo il parere concorde di tutti i direttori sono «buone, rassegnate, si adattano bene e facilmente a vivere rinchiuse». È una reazione prevedibile anche fuori, per molte di noi è normale vivere rinchiuse fra quattro mura, legate alla casa da catene psicologiche e dalla paura (soggezione) del mondo esterno. Da recenti inchieste è emerso ad esempio che molte donne escono solo per fare la spesa, o accompagnare i figli, o per vedere parenti e che mai o quasi mai escono da sole per motivi personali. In carcere le detenute spendono il loro tempo nel tentativo di trasformare la cella in «casa». Pulire diventa una abitudine ossessiva, lucidano a cera pavimenti già splendenti, lavano le ‘tendine cucite con le proprie mani con il «cretonne» a fiori, spolverano gli armadietti pensili, abbelliscono la cella con fotografie dei figli, con fiori e piantine. È anche un modo per passare il tempo: in carcere non c’è lavoro per nessuna, l’unica occupazione possibile sono i servizi di manutenzione e pulizia.
Fuori, molte di noi scaricano nel lavoro domestico, nell’abbellimento della nostra casa, stanza o persona quelle energie che non riusciamo a canalizzare altrove. Anche tra noi fuori non c’è lavoro pagato per la maggior parte di noi, l’81% non ha un lavoro retribuito regolarmente e si sobbarca solo il lavoro casalingo non pagato; oppure fa lavoretti precari, lavoro nero a domicilio ecc. Fino a poco tempo fa nel carcere le donne facevano golfini per la Spagnoli per un misero compenso; appena hanno tentato di far valere i propri diritti e avere la paga sindacale, la Spagnoli ha scisso il contratto. Anche a molte di noi, fuori, è capitato di veder minacciato il proprio lavoro o di averlo perso per aver preteso di trasformare il lavoro nero in un rapporto regolare.
Maternità: In carcere ci sono anche detenute madri. Per loro esistono appositi bracci chiamati eufemisticamente asili nido, dove esse possono vivere con i loro bambini, al di sotto dei tre anni. Madre e figlio vivono in totale simbiosi, tra loro si crea un rapporto morboso, un attaccamento eccessivo. Il bambino diventa per la madre l’unica ragione di vita; la madre per il bambino l’unico essere umano che gli sta vicino e si occupa di lui. Allo scadere del terzo anno di età, il bambino viene tolto dalla prigione e mandato in un orfanotrofio o affidato a parenti spesso mai visti prima. ‘Le detenute a volte reagiscono con crisi depressive che durano mesi ed anni, e naturalmente dei danni sul bambino, derivanti da questa brusca, impiegabile perdita della madre, nessuno si preoccupa. Questo modo di affrontare il problema delle detenute madri rispecchia appieno la duplicità con cui la società esterna lo considera. Da un lato si esalta l’importanza della figura materna per il bambino; dall’altro si lascia quasi totalmente sola la madre nel gestire il rapporto, privatizzando quella che dovrebbe essere invece una funzione sociale. Sotto la mistica della protezione degli interessi del bambini, si finisce per scaricare sulla donna carcerata enormi problemi, senza minimamente pensare a qualche forma di detenzione alternativa, alla possibilità di far frequentare al bambino asili esterni; o almeno di organizzare in modo diverso la vita all’interno.
Anche fuori, nonostante la retorica, siamo lasciate spesso sole nella gestione quotidiana della nostra maternità, responsabilizzate, biasimate, ruolizzate solo come madri, impedite a vivere spazi nostri che non siano quelli familiari obbligati. Anche per molte di noi, fuori, i figli diventano l’unico scopo di esistenza, d’unica fonte di gratificazione, con risultati spesso deleteri per noi e per loro. Solo da poco, attraverso l’analisi dei ruoli, della funzione della famiglia, della coppia, per alcune di noi il problema della maternità può essere affrontato in modo diverso. Ma per molte ila realtà della maternità rimane ancora una specie di recinto, in cui psicologicamente e concretamente siamo rinchiuse, certo però in modo diverso e meno alienante, rispetto alle madri detenute.
Accesso all’informazione: Dall’inchiesta emerge che de donne detenute non conoscono la riforma, sono spesso all’oscuro dei propri diritti. Sono abituate a subire un’autorità che decide per loro, che sceglie per loro e che dalla loro ignoranza ha tutto da guadagnare. Non è certo in carcere che qualcuno si preoccuperà di spiegare alle detenute che hanno dei diritti e potrebbero vivere meglio di come vivono. Quel poco che sanno lo apprendono dalla televisione, o meglio dai programmi televisivi che la direzione sceglie o permette doro di vedere. Anche fuori, {fatte le debite differenze, nel senso che a seconda del nostro reddito e istruzione abbiamo più o meno possibilità d’accesso a varie fonti d’informazioni, che le detenute invece non hanno) in fondo dipendiamo però quasi totalmente da centri di potere maschili e solo con enorme difficoltà riusciamo a conoscere e rivendicare i nostri diritti e a crearci degli spazi autonomi nelle nostre teste e nella realtà sociale.
Sessualità e omosessualità: Molte di noi fuori hanno avuto madri, che condizionate dalle loro storie personali e dal clima sociale hanno spesso oppresso e represso da nostra sessualità nel tentativo di farci crescere buone e ben educate. Nel carcere de detenute ritrovano queste «mamme», nelle vesti delle suore, ancora presenti in molti istituti, soprattutto quelli di reclusione dove ci sono le condannate a lunghe pene. Le suore spesso spingono le detenute con piccoli ricatti morali, piccoli privilegi, alla sottomissione, al pentimento, alla «buona condotta». . Soprattutto per essere buone recluse le detenute devono reprimere la propria sessualità. Una .sessualità resa angoscia dal carcere, non solo per il bisogno di rapporti fisici ma anche per una terribile esigenza di rapporti affettivi. Quando si crea un legame omosessuale, si tenta con ogni mezzo (trasferimenti, psicofarmaci, cambio di celle) di spezzarlo, senza minimamente curarsi degli effetti devastanti che un tal modo di procedere può provocare nelle detenute. Le suore in fondo portano all’interno la stessa morale sessuofobica che ha dominato e ancora influenza noi ad di fuori. Le suore diventano lo strumento di una repressione che finisce per passare anche sulle loro teste, vittime esse stesse di un sistema ecclesiastico gerarchico e patriarcale che le emargina e le sfrutta, adibendole a lavori ingrati e non retribuiti, spacciati per «missione» (senza neanche — ricordiamo — dar loro nessun compenso economico dopo anni di servaggio, se una suora sceglie di lasciare l’abito).
Sensi di colpa e rapporto con gli uomini: Dall’inchiesta emerge anche che le detenute hanno maggiori sensi dj colpa dei detenuti. Questo in fondo ci sorprende molto poco. Anche fuori siamo noi che ci biasimiamo se un rapporto non va, se i figli «crescono male» se non troviamo un lavoro, se non siamo abbastanza intelligenti, brave e belle ecc. Inoltre pure noi tendiamo a portare sulle nostre spalle anche gli errori degli uomini che ci circondano, come le donne in carcere spesso pagano per i reati commessi, da padri, fratelli, mariti ed amanti. Le famiglie di ricettatori fanno notoriamente arrestare la figlia o la madre; a decine -sono le mogli o madri di commercianti finite dentro per frode al posto del marito che ha pensato bene d’intestare l’azienda a loro nome; e la stessa cosa succede per gli speculatori edilizi. Per non parlare poi delle rapine e dei sequestri in cui le donne sono spesso le amanti del capo. Anche quando ammazzano, le donne di solito lo fanno per motivi passionali (uccidono d’amante infedele, il marito che le percuote giornalmente ecc.).
Anche noi fuori in fondo conduciamo vite spesso ancora troppo dipendenti dai voleri e dalle scelte degli uomini, che spesso non rispecchiano affatto i nostri interessi.
Infine dall’inchiesta emerge che, rispecchiando l’evoluzione avvenuta tra le donne negli ultimi anni, anche nelle carceri qualcosa sta mutando. Le detenute più giovani e più politicizzate ad esempio sono meno disposte a subire, ; meno prone alla rassegnazione e più disponibili a sviluppare una solidarietà di gruppo, che le aiuta a resistere all’abbrutimento del carcere. Riflettendo sui risultati dell’inchiesta, [ si capisce .come il carcere femminile non I significa in fondo anormalità, ma normalità esasperata e distorta. Ovviamente tra noi fuori e le detenute 1 ci sono anche enormi differenze: noi j che siamo fuori ad esempio siamo in condizioni più favorevoli per lottare, per capire meglio i vari nessi tra gli aspetti della nostra comune oppressione, per conquistare spazi nostri di autentica libertà ed autonomia. Occorre perciò, che noi, fuori, ci impegniamo ; ancora di più nelle nostre battaglie, ne) privato e nel pubblico, riscoprendo i nostri bisogni e inventando nuove forme di lotta collettiva, che tra l’altro, contribuiscano ad eliminare le condizioni che portano le donne in carcere e a creare per tutte spazi per vivete fin d’ora un po’ meglio.