“una settimana come un’altra”

la vita di Olga rispecchia, anche se in maniera diversa, la nostra e in particolare quella di questi giorni di stesura di quest’articolo scritto tra mille interferenze.

maggio 1978

quest’articolo è frutto di una discussione di letture sull’occupazione femminile e parte da una nostra esigenza di donne con un lavoro esterno che, anche se precario, ci annovera in quella ristretta élite di cosiddette donne emancipate!
Sin dall’inizio, la nostra partecipazione al Movimento Femminista riflette la consapevolezza che un lavoro esterno non avrebbe risolto tutti i problemi che il nostro essere donna comportava. In questo ultimo anno all’interno del Movimento Femminista, anche sul problema del lavoro, si è sentita l’esigenza di approfondire posizioni politiche che si erano spesso tradotte nella realtà solo in slogans. L’interesse per il libro La forza lavoro femminile di Fiorella Padoa Schioppa, H Mulino, Bologna 1977, è soprattutto nel fatto che abbiamo delle informazioni precise riguardo la situazione italiana. Nonostante la nostra militanza femminista, spesso l’esperienza che abbiamo avuto della condizione femminile si è limitata alle nostre situazioni abbastanza particolari di donne con un qualche lavoro esterno, studentesse con un minimo di indipendenza economica; il quadro che emerge dal libro è invece, molto più drammatico, sia per il numero ristrettissimo di donne occupate che per il tipo di lavoro svolto. Le donne occupate in Italia sono poco più di cinque milioni di cui solo 3.759.000 con un lavoro regolarmente retribuito, facendo le altre lavoro nero — ma anche l’autrice precisa che i dati dell’ISTAT ne celano la reale entità.
Le donne con un’occupazione esterna subiscono una forte discriminazione salariale rispetto agli occupati maschi. «La percentuale di operaie sulla forza lavoro complessiva è infatti massima nelle qualifiche e nei settori peggio remunerati» (pag. 76) e si tratta cioè dei lavori più parcellizzati, più monotoni, puramente esecutivi, più nettamente ripetitivi: «quelli che nessun uomo farebbe mai perché impazzirebbe come usano dire i datori di lavoro e capi officina» (pag. 69).
I dati del libro dimostrano che «in Italia, come del resto in altri Paesi europei, le lavoratrici dipendenti ottengono un reddito mensile tanto più contenuto quanto più ghettizzata è la loro mansione e viceversa tanto più elevato quanto più questa è aperta agli uomini» (p. 65-67). Anche dopo le «vittoriose lotte sindacali» dell’autunno caldo non è stata intaccata la rigidità delle mansioni sempre ripetitive e sedentarie. L’eguaglianza salariale tra operaie e operai è maggiore della parità retributiva nelle altre forme di lavoro dipendente e di lavoro indipendente e soprattutto essa è sempre stata e continua a essere, crescendo, superiore a quella registrata in altri Paesi dell’Europa occidentale quali l’Inghilterra e la Germania, raggiungendo i primati scandinavi, (pp. 73-4). Può sembrare paradossale che in altri Paesi occidentali ci sia minore parità retributiva, ma questo si spiega, probabilmente, con il più alto numero di servizi sociali di cui le donne possono usufruire. L’autrice motiva la discriminazione nei confronti della forza lavoro femminile con meccanismi tipo il precoce pensionamento, il minor numero di straordinari e le assenze imprevedibili che rendono più alto il costo del lavoro femminile rispetto a quello maschile. A noi sembra, invece, che non tanto ai padroni e allo Stato costi di più il nostro lavoro ma a noi donne, perché se è vero che l’Italia è il Paese della Comunità Europea dove la frequenza di assenze femminili dal lavoro è più alta, è anche quello dove «tali assenze sono più motivate da disbrighi domestici e amministrativi e da malattie di bambini e meno da malattie o ragioni personali» (p. 53). Queste funzioni un po’ asetticamente definite sono solo una parte del lavoro domestico che tutte le donne svolgono sia che abbiano un lavoro esterno o no. Nel libro il lavoro domestico viene considerato come uno dei motivi che non «permette» alle donne di avere un lavoro pagato, ma l’autrice riduce il lavoro domestico a soltanto un numero di ore anche se pesanti di lavoro svolto in casa. L’autrice si accorge di quanto lo Stato risparmi con il lavoro gratuito delle donne ma non solo lavare i piatti e pulire il pavimento è lavoro domestico; portare i bambini a scuola, seguitili nei compiti, essere disponibili a mediare le tensioni in famiglia, servire fisicamente, emotivamente e sessualmente gli uomini è contemporaneamente riprodurre noi stesse è quello che tutti si aspettano da noi come attributo naturale del sesso femminile. Nel calcolare, infatti, il lavoro nascosto svolto tra le pareti domestiche dalle donne nel 1971 in 17.000 miliardi di ‘lire circa, l’autrice parte dall’ipotesi che l’apporto medio delle casalinghe in senso stretto sia equivalente a quello dei collaboratori familiari di 1° categoria, mentre valuta il contributo domestico delle occupate manifeste o nere mediamente la metà (p. 103). Il nostro problema non è tanto ovviare al fatto che il costo del lavoro femminile è più elevato di quello maschile, ma di non voler pagare con ritmi di vita stressanti il misero privilegio di un lavoro esterno che ci garantisce un minimo di indipendenza economica. Quello che l’autrice non vede è che le occupate manifeste passano meno tempo in casa ma se hanno uno stipendio sufficiente lo dimezzano per pagare un’altra donna che in parte lavori per lei, occupandosi dei bambini e di alcuni lavori più pesanti, riducendole il lavoro in casa. È a questo prezzo che le donne impiegate riescono ad essere meno «assenteiste» delle donne operaie (1), Per le donne che lavorano con salari più bassi e per più ore i ritmi di lavoro domestico sono più pesanti perché svolti in tempi più brevi e come sempre con l’aiuto di madri, sorelle, suocere ecc. Le donne che svolgono lavoro nero sono quelle che, secondo l’autrice, essendo occupate spendono la metà del tempo impiegato dalle casalinghe nel lavoro domestico. Ci sembra poco credibile che le lavoranti a domicilio in Italia e in particolare al Sud siano sostituite da baby-sitters o collaboratrici domestiche mentre lavorano guanti, scarpe e fiori finti. Il lavoro nero proprio per come è imposto, non permette le assenze retribuite che le altre donne occupate utilizzano. Parlando del lavoro nero l’autrice afferma: «Questa particolare forma di emarginazione della donna, come de altre precedentemente illustrate, dipende dalla debolezza del lavoro femminile: date le attuali tecnologie infatti, il ricorso al lavoro nero a domicilio, l’attivazione di piccolissime unità produttive e di lavoro illecito nell’agricoltura e nel terziario sono spiegati dall’eccessivo costo di una quota della forza lavoro manifesta, prevalentemente femminile, che quindi finisce con d’essere da principale coinvolta nelle occupazioni nascoste» (p. 108). Di nuovo le donne sono considerate in qualche modo responsabili del loro eccessivo costo di lavoro; la causa dell’emarginazione e del super-sfruttamento delle donne dipende, invece, dallo svolgere tutte un lavoro gratuito che ci costringe, nelle ricerca
di un’alternativa, ad accettare di lavorare anche per 500.000 lire annue (p. 80). E del resto anche sul lavoro esterno come segretarie, .telefoniste, commesse, insegnanti ecc., ricalchiamo il tipo di lavoro e i ruoli su di esso costruiti che noi donne siamo costrette a svolgere in casa. Non condividiamo l’ipotesi iniziale del libro che considera la maggiore o minore arretratezza sociale di un Paese dal tasso di occupazione femminile; il nostro punto di vista è che la divisione sessuale del lavoro non sia effetto di un’arretratezza di costume e sociale ma funzionale all’organizzazione dello sfruttamento nelle varie epoche storiche. La possibilità che poche di noi hanno avuto di accedere a professioni «maschili» o comunque di avere un lavoro esterno che ci procurasse soldi per noi è stato frutto di dure lotte femminili. L’occupazione esterna delle donne in Italia, come altrove, senza voler risalire a prima dell’industrializzazione è stata anche una necessità del capitale. Basti citare i dati relativi alla composizione della classe operaia nel 1876 formata da: donne 48,6%, fanciulli 23,2%, uomini 28,2%, e ancora ne] 1903: donne 53,7%, fanciulli 14,5%, uomini 31,8% (2) e all’impiego massiccio delle donne nella produzione durante le due guerre mondiali (3). Anche l’alta percentuale con lavoro esterno in alcuni Paesi (Urss, Cina, Europa Orientale) non è sintomo, come sostiene l’autrice, di una maggiore disponibilità sociale nei confronti delle donne, ma l’esigenza di supplire al ritardo nell’industrializzazione rispetto ad altri Paesi, alla mancanza di manodopera a basso costo, cioè l’emigrazione.
Leggere il breve romanzo «Una settimana come un’altra» di Natalija Baranskaja e proporlo come uno strumentò per la conoscenza della condizione femminile nell’URSS, il Paese con il massimo tasso di occupazione femminile, ci è sembrato più utile che controbbattere alla tesi dell’emancipazione della donna attraverso il lavoro esterno. Olga, la protagonista del romanzo, è una donna di 26 anni, con 2 figli, un marito, Dima, che l’aiuta in casa e un lavoro qualificato.
«Lunedì: faccio le scale tutte di un fiato, e, sul pianerettolo del secondo piano, mi scontro con Jacov Petrovic… Non un accenno al mio ritardo (15 minuti)… “Non le nasconderò che siamo un po’ preoccupati, stupiti che lei, come dire, non si applichi di più nel lavoro”… Non dico niente. Amo il mio lavoro. Mi piace enormemente essere indipendente. Non ho l’impressione di non applicarmi. Ma sono spesso in ritardo, soprattutto Al lunedì. che posso rispondere? Mormoro qualcosa sulle strade gelate e sulla neve che ingombra il nostro quartiere nuovo di zecca, sull’autobus che arriva già stracarico alla mia fermata, sulla folla incredibile della metropolitana e ricordo con una specie di angoscia nauseante che tutto questo gliel’ho già detto altre volte…
«Martedì: ebbene, l’ho davvero scelto tutto questo? No, direi proprio di no. Ho rimpianti? Oh no, no. Nemmeno parlarne… Corro, con i sacchetti delle provviste che mi battono contro de gambe e mi massacrano le ginocchia. Sono sull’autobus, e il mio orologio segna già le sette. Sono già tornati..; Purché Dima non li lasci ingozzare à pane e non dimentichi di mettere le patate sul fuoco.,. I miei timori si avverano puntualmente: i bambini stanno divorando golosamente il pane. Dima ha dimenticato tutto, si è immerso nelle sue riviste tecniche. Accendo tutti i fornelli, metto su le patate, il bollitore, il latte, dispongo in fretta le polpette nella padella. Venti minuti dopo siamo a tavola… Devo spicciarmi a portarli in bagno sotto il getto tiepido dell’acqua, e a metterli a letto. Alle nove sono già addormentati. Dima si rimette a tavola. Gli piace bere il suo thè in pace, sfogliare il giornale, leggere un po’. Io faccio i piatti, poi lavo la roba dei bambini, i calzoncini che Gulja ha riportato dal nido, i grembiulini sporchi, i fazzoletti… E poi, bisogna spazzare, vuotare la pattumiera (per fortuna se ne occupa Dima)… Sono le undici passate quando finalmente mi corico. Dima ha già preparato il letto sul nostro divano. Adesso va in bagno. Ho già gli occhi chiusi quando, mi viene in mente che non ho ancora ricucito il gancio della cintura, ma nessuna forza al mondo potrebbe costringermi a mettere il naso fuori delle coperte. «Due minuti dopo sono già addormentata. Sento ancora vagamente Dima che si corica, ma non mi riesce di aprire gli occhi, di rispondere a quel che mi chiede, non desco ad abbracciarlo quando lui mi abbraccia… Dima carica la sveglia, tra solo sei ore quell’ordigno infernale esploderà. Non voglio sentire lo stridio della molla dell’orologio e affondo in un sonno profondo, oscuro e tiepido».
Questo romanzo, oltre a farci riflettere sulla condizione delle donne in URSS, ci ha coinvolto perché la vita di Olga rispecchia, anche se in maniera diversa, la nostra e, in particolare, quella di questi giorni di stesura di questo articolo scritto tra mille interferenze.