femminismo oggi: esperienza di un gruppo

giugno 1975

 

Tutti i giornali ci spiegano cos’è il femminismo, a che punto sta l’analisi, se siamo in crisi o no. Il tono è, di volta in volta, brillante, interessante, sfottente. A che punto siamo, in realtà? Qual è la problematica all’interno dei gruppi?

Il Collettivo Femminista Comunista di Via Pomponazzi, a Roma, propone, per un dibattito con tutte le compagne femministe, un’analisi della situazione attuale del collettivo.

 

Il Collettivo Femminista Comunista si è formato nel maggio 1972, in clima di elezioni in seguito ad un incontro tra femministe e compagne del Manifesto. Le femministe venivano dal-l’allora collettivo di Lotta femminista (ora Movimento femminista Romano): si può dire che erano in parte insoddisfatte di come certi argomenti venivano trattati — sarebbe il caso di dire non trattati — nel loro gruppo, per es. il dibattito sui rapporti con la lotta di classe. Le compagne del Manifesto, a loro volta, scoprivano attraverso l’impatto con il femminismo la loro insoddisfazione del modo tradizionale di fare politica, che spesso non rispondeva ai loro bisogni di donne. A questo gruppo iniziale si sono unite varie compagne del gruppo Gramsci che avevano maturato una esigenza di autonomia rispetto al gruppo, da cui erano uscite ritenendo inutile ogni forma di entrismo. La particolare provenienza delle compagne, per la maggior parte maturate nelle lotte studentesche del ’68, ha caratterizzato fin dall’inizio i contenuti portati avanti dal collettivo, in cui l’attenzione per le problematiche legate al movimento di classe è venuta integrandosi, anche se spesso con molte difficoltà e contraddizioni, con l’approfondimento delle specifiche tematiche femministe che individuano le forme della soggezione della donna non solo nello sfruttamento «dell’uomo sull’uomo» proprio dell’organizzazione capitalistica del lavoro, ma anche nella specifica oppressione che la donna in quanto tale subisce all’interno della famiglia, pagando il sostegno che essa dà a questa struttura, con l’emarginazione e la mercificazione di sé.

Dopo un primo momento di analisi teorica e di tentativi di attività esterna (assemblee all’università), emerge nelle compagne l’esigenza dell’autocoscienza, che viene individuata come il metodo di base per praticare l’autonomia del movimento, in ciò ricollegandosi ai contenuti elaborati dal movimento femminista internazionale. A questo scopo lo strumento organizzativo che ci si dà è quello del piccolo gruppo di presa di coscienza: questo, formato da sette a dieci compagne aggregate secondo una scelta casuale, vuole rappresentare un primo momento di generalizzazione delle esperienze individuali, e di riflessione collettiva dei nostri bisogni di donne, in base allo slogan” il personale è politico”.

 

cronistoria del collettivo femminista comunista

La pratica dell’autocoscienza viene, quindi, individuata come momento indispensabile della lotta delle donne. Nello stesso periodo — fine 73 inizio ’74 — è cominciata una continua crescita numerica del collettivo: si aggregavano impiegate, insegnanti, casalinghe, studentesse.

Ciò ha rappresentato, senza dubbio, un momento di verifica e di generale arricchimento del collettivo; al tempo stesso, però, ha posto una serie di problemi anche in relazione al diverso livello di coscienza delle compagne. Le riunioni di collettivo andavano assumendo aspetti sempre più assembleari, con tutti i difetti che ciò comporta, e spesso diventavano occasioni di scontro, di discorsi teorici sul metodo più che sui contenuti, in cui molte compagne non si riconoscevano o non riuscivano a partecipare.

In questa fase i piccoli gruppi di presa di coscienza, sempre più numerosi, hanno svolto una funzione importante, poiché facilitavano l’aggregazione delle compagne, sia sotto il profilo dell’appropriazione e dell’approfondimento delle tematiche femministe — sessualità, maternità, rapporti con la famiglia, educazione ricevuta ecc. — sia sotto il profilo della discussione sul travagliato funzionamento della vita di collettivo.

L’organizzazione di tipo spontaneistico che ne risultava, ha rappresentato dunque un momento di grosso slancio perché ha permesso di scoprire e di affrontare, in prima persona, le nostre contraddizioni e in prima approssimazione, di socializzarle.

D’altra parte nei piccoli gruppi si coagulavano una serie di problemi, riguardanti per un verso le difficoltà oggettive di applicare il metodo dell’autocoscienza, e dall’altro la capacità del piccolo gruppo di farsi unico interprete dei contenuti elaborati con l’autocoscienza. Grosso modo i problemi che venivano emergendo erano:

– scarsa possibilità di confronto tra le esperienze dei singoli piccoli gruppi nel collettivo, che determinava spesso forme di isolamento dei piccoli gruppi stessi e rappresentava un freno all’effettiva socializzazione dei contenuti;

– diversità con cui i piccoli gruppi erano impostati, alcuni affrontavano, attraverso il racconto dell’esperienza personale, temi specifici — sessualità, emancipazione, ecc. — altri avevano un’attività più che altro di studio, altri preferivano tentare esperienze di vita comunitaria, altri ancora avevano l’esigenza di sperimentare insieme forme di creatività;

– scontro con le esigenze che nascevano dalle scadenze” esterne” e che ponevano grossi problemi organizzativi;

– contraddizione tra la volontà di non fare del piccolo gruppo una sede di terapia di gruppo e il continuo scivolamento in questa direzione;

– contrasti tra chi aveva l’esigenza di un più immediato collegamento tra le tematiche femministe e le lotte del movimento di classe e chi sosteneva invece l’immaturità del collettivo per un confronto con le forze politiche. Nel settembre 1974, per superare la situazione di impasse che si era venuta a creare, ci si è trovate d’accordo sulla proposta di organizzare tre giorni di discussione generale sulla situazione del collettivo e dei piccoli ‘gruppi. L’incontro, tenutosi alla Casa dello Studente a novembre, fu preceduto da una serie di riunioni tra piccoli gruppi, per permettere un primo momento di confronto tra le singole esperienze e dar modo ad ogni piccolo gruppo di elaborare ciascuno un breve documento in cui si prefigurassero le ipotesi di lavoro futuro, che servisse di base alla discussione comune.

A conclusione del convegno in cui il dibattito sembrò ricomporre posizioni che negli incontri tra piccoli gruppi erano apparse più distanti, ci si è trovate d’accordo su una mozione unitaria che prevedeva, accanto ai piccoli gruppi, l’organizzazione nel collettivo in commissioni di lavoro su temi specifici in cui le compagne si aggregano sulla base di comuni interessi, con lo scopo specifico di intervenire nella sfera del sociale. Nella mozione veniva confermata la validità dell’autocoscienza come metodo di base per l’elaborazione dei contenuti portati avanti dal movimento femminista; veniva ribadito come essa dovesse uniformare i momenti della vita del collettivo — piccoli gruppi, commissioni, riunione generale — e diventare prassi effettiva anche dell’intervento «esterno». Anzi, è proprio l’uso dell’autocoscienza, il fatto cioè di partire dai nostri bisogni di donne, non da una linea astrattamente preordinata, la garanzia che l’intervento delle commissioni nel sociale non riproponga gli schemi tradizionali della figura del gruppo di avanguardia. Su queste basi si sono formate cinque commissioni, donne e salute, donne e lavoro, donne e cultura, donne e psicanalisi, donne e scuola. Non tutte le compagne del collettivo, però, entrarono a farne parte; d’altra parte l’elaborazione dei temi specifici delle varie commissioni non sempre si è riuscito a riportarla nella sua interezza nel collettivo, con la conseguenza, a volte, di una certa carenza di comunicazione e, quindi, di una certa settorializzazione dell’intervento.

Anche questa fase, quindi, è stata piuttosto travagliata, piena di contraddizioni interne: in questo clima, si sono riaperte divergenze di posizioni che erano, invece, apparse sfumate in occasione dell’incontro di novembre alla Casa dello Studente. Sentendo perciò, l’esigenza di una ulteriore verifica sul lavoro svolto dalle Commissioni, sono stati organizzati ad aprile scorso tre giorni d’incontro tra le singole commissioni in cui sono stati dibattuti tutti i principali temi del femminismo; dall’autocoscienza e la crisi dei p.g. all’autonomia del movimento.

Le seguenti pagine traggono spunto proprio da questa discussione, che vuole essere solo un primo momento di un più ampio dibattito all’interno di tutto il Movimento Femminista.

 

crisi dei piccoli gruppi

L’ autocoscienza è il principale strumento che il movimento femminista si è dato per l’analisi e l’intervento nel reale, forse l’unica pratica oggi sicuramente riproponibile. Se dovessimo dare una definizione di autocoscienza dovremmo dire che essa è un metodo di interpretazione della realtà femminile attuato partendo dalla propria specifica condizione di donne. Un metodo cioè secondo cui, superando l’isolamento individuale, storicamente determinato dall’emarginazione della donna nella famiglia, si prende coscienza in gruppo della condizione di oppressione e di sfruttamento della donna attraverso l’analisi politica di dati tratti dalla sfera del personale. Una pratica dunque assolutamente generalizzabile, giacché si attua su di un materiale (la realtà personale di ogni donna) naturalmente ed immediatamente a disposizione delle donne.

Sulla base della nostra esperienza di autocoscienza in p.g. ci è sembrato di poter enucleare alcuni spunti di analisi in relazione al funzionamento fino ad oggi dei piccoli gruppi. L’aggregazione casuale, che è stata prevalente finora nella formazione dei p.g., si basava sul presupposto che la solidarietà tra donne fosse punto di partenza dell’autocoscienza e non punto di arrivo. Ora, se è vero che può e deve esistere fin dall’inizio della pratica dell’autocoscienza una solidarietà tra le compagne derivata dalla consapevolezza dello sfruttamento ed oppressione comuni, in realtà nel p.g. l’approccio al femminismo delle singole compagne è di tipo diverso perché diverso è il livello di coscienza che non può non risentire dei differenti ruoli che esse ricoprono nel sociale e che si evidenziano anche all’interno del p.g. .stesso. Il problema di queste differenze è strettamente legato al modo di intendere la solidarietà tra donne. Perché solidarietà e accettazione non rimangano parole vuote di significato, esse devono consistere nella comprensione dei meccanismi che ci fanno essere donne così come siamo, contraddittorie e a volte «sbagliate»: la solidarietà dunque va intesa come acquisizione di una dimensione insospettata di interesse reale per le altre donne, derivante dalla nuova considerazione che si ha di esse e dalla consapevolezza che ognuna di noi può crescere soltanto nel confronto continuo con le altre, nell’analisi fatta in comune sulla propria condizione di donna e nella lotta portata avanti insieme su obiettivi comuni. Quindi, solidarietà femminista e non femminile. Proprio un fraintendimento in questo senso ha invece spesso provocato non un’analisi critica dei ruoli bensì il giudizio sulla persona, che porta a situazioni di non rapporto, di non comunicazione o di comunicazione falsata, che copre l’incapacità del gruppo di tenere conto positivamente dell’aggressività, delle reazioni emotive che si sviluppano in chi si sente colpita in quello che è stato fino a quel punto l’unico suo strumento di «identificazione», cioè il ruolo, e di arrivare a capirne i meccanismi e le cause scatenanti generalizzabili. Rispetto al problema della «perdita» di compagne da parte del movimento c’è da fare un’altra considerazione: che l’aver coscienza di sé e della propria condizione ha un valore positivo e può dare forza anche se obbliga a pagare costi emotivi e sociali. Inoltre il processo di crescita, a livello di coscienza e di concreta volontà di lotta è dialettico e in generale non lineare, ma procede a scatti, a volte traumatici, le cui conseguenze devono essere messe in conto fin dall’inizio. Nel p.g. di autocoscienza andrebbero inoltre analizzati i meccanismi e i ruoli familiari che inevitabilmente si formano. Data la diversa composizione sociale all’interno dei p.g. il processo di presa di coscienza politica delle compagne è strettamente differenziato. Il sorgere di questi problemi ha portato a non ritenere il p.g. come sede esclusiva della autocoscienza.

 

nascita e funzione delle commissioni autonomia organizzazione

Come già detto, le Commissioni nascono in un momento particolare della vita del collettivo e dei piccoli gruppi. Le compagne sentivano un grosso disagio, in quanto il collettivo, con la sua struttura assembleare, non dava spazio a tutte di esprimere i contenuti elaborati con l’autocoscienza. Si cercava una sede che permettesse non solo l’aggregazione di interessi comuni, ma anche la possibilità di confrontarsi con la realtà sociale e di partecipare in prima persona alla crescita del movimento femminista. Ci si accorge di affrontare tutti quei rapporti, sociali e politici, in cui la donna è sempre stata esclusa o usata: il lavoro, la scuola, la cultura ecc.. Da ciò nasce una problematica che investe l’intero tessuto sociale. Come si affronta? Usando l’autocoscienza come passaggio dall’analisi della donna soggetto rivoluzionario del sistema capitalistico-patriarcale.

L’incontro fra donne, sulla base dei propri reali interessi e bisogni, permette il superamento dei ruoli e dei rapporti l’interpersonali che si erano venuti a creare nei piccoli gruppi.

Tale superamento deve portarci al ritrovamento di un’ entità personale che e ci consenta poi di intervenire nella società come interlocutrici di questa.

Torna il discorso il personale è politico, partenza e filo rosso conduttore del femminismo. Finalmente nelle Commissioni si ha l’impressione di concretizzare questa ormai famosa formula su un piano operativo.

Soprattutto ci interessa essere promotrici e garanti di un’ipotesi femminista che si inserisca nelle stratificazioni di classe, portando le donne ad essere elemento dialetticamente rivoluzionario di un processo che vede la liberazione di tutti gli sfruttati e oppressi. Le Commissioni sono il primo passo verso l’inserimento in questo processo. Tanto che le abbiamo chiamate: Donna e scuola, Donna e lavoro, Donna e cultura ecc., proprio per sottolineare non solo il rapporto che la donna ha con queste strutture, ma il ruolo rivoluzionario che essa svolge nel porsi dentro o fuori di esse, con una coscienza femminista. E’ questa coscienza che rende le donne un alleato delle classi eversive del sistema. Infatti ci definiamo collettivo femminista comunista perché la lotta per il femminismo è sempre anche lotta per il comunismo. Ma bastano le commissioni per mettere in moto questa nostra strategia? No, le commissioni sono un primo momento di prassi femminista da cui scaturisce la necessità di incidere sulla realtà e non di subirla. Come? Non affermandoci in uno schieramento politico tradizionale, ma avendo la capacità di stravolgere gli strumenti politici esistenti e di appropriarcene di nuovi che debbono essere creazione, invenzione e patrimonio di un movimento di donne e SOLO di esse.

Il momento attuale del femminismo è vissuto da quasi tutti i gruppi femministi come momento di crisi: crisi di crescenza o crisi di debolezza?

L’analisi di questo momento ha fatto nascere la necessità di una discussione politica di tutti i temi del femminismo. Come dato positivo è certamente da registrare l’espansione del movimento femminista, nascono collettivi e piccoli gruppi ovunque, che però spesso dibattono contenuti già patrimonio del movimento ma che debbono essere ancora socializzati e diffusi. Il cammino di tali collettivi verso la presa di coscienza è più rapido, ma anche più rapido nell’arrivare a una crisi interna, crisi che nasce sia da carenze interne alle strutture organizzative del movimento sia dall’impatto che queste hanno con l’esterno.

La realtà sociale e politica Italiana ha preso atto della realtà femminista e cerca di usarne i contenuti secondo i suoi differenti fini.

Tutto ciò è un successo e un insuccesso insieme:

un successo, in quanto alcuni contenuti femministi dimostrano di essere la espressione corretta di bisogni reali della maggioranza delle donne, e i movimenti storici della classe operarla e i gruppi della sinistra extraparlamentare sono spinti a tenerne conto in misura maggiore di quanto non abbiano fatto finora, e in parte a prenderli come obiettivi di lotta, come per quanto riguarda l’aborto;

un insuccesso, perché tali contenuti, staccati e isolati dalla esigenza globale del femminismo di liberazione della donna attraverso la lotta rivoluzionaria delle donne, come attacco alla società capitalista nel suo complesso, cioè come lotta alla famiglia e alla sessualità tradizionale, perdono il loro significato. L’esempio più lampante è la lotta per l’aborto che, portata avanti dal partito radicale come lotta per i diritti civili, perde i contenuti che l’analisi femminista dell’aborto aveva messo in luce: richiesta dell’autogestione del proprio corpo, ridefinizione storica della maternità fuori dagli schemi familiari, controllo della medicina e quindi discorso sull’uso e la gestione della scienza che sia controllo reale, democratico, rispetto ai cosiddetti esperti o tecnici delle singole scienze.

L’analisi di questa situazione ci ha fatto considerare centrale, per il superamento di questa «empasse» del femminismo, un momento di ripensamento e di discussione sull’autonomia del movimento femminista. Perché sull’autonomia? Perché ci è sembrato che nel 69-70, quando il movimento femminista è nato in Italia, questa autonomia ci fosse, e che proprio questo fosse stato il fattore determinante per la crescita politica del movimento, dato che gli ha permesso un’elaborazione reale di nuovi contenuti.

In che consisteva tale autonomia? Innanzitutto nel separatismo (cioè nella scelta di lavorare fra donne) il che ha permesso di elaborare il metodo politico dell’autocoscienza e la scoperta che il personale è politico. Però la situazione, proprio a causa della crescita che ci è stata, è cambiata. Se prima a garantire l’autonomia bastava il separatismo e l’organizzazione in piccoli gruppi, ora ci sembra che tali strumenti non siano più sufficienti da soli a garantirla.

Si è verificato infatti che la comunicazione all’esterno del movimento dei contenuti femministi e la loro socializzazione, se non è controllata dal movimento femminista, viene deviata ed equivocata, per non dire usata contro le donne stesse, dalle forze reazionarie che hanno interesse a fare del movimento un semplice movimento di opinione senza nessuna incidenza sulla realtà sociale.

Occorre quindi garantirsi la possibilità di comunicare con l’esterno autonomamente, con propri strumenti e con una organizzazione minima che renda praticabile questa comunicazione. Occorre inoltre prendere atto con chiarezza delle difficoltà oggettive che esistono all’interno e all’esterno del movimento femminista e della realtà sociale di cui il movimento è espressione. Una prima difficoltà che rischia di soffocare la crescita del movimento femminista è la posizione dei partiti storici del movimento operaio e dei gruppi della sinistra extraparlamentare, cioè proprio dei suoi primi potenziali alleati. Riguardo a tali forze politiche il discorso sull’autonomia permette di cogliere le divergenze politiche di fondo. I partiti e i gruppi hanno le loro commissioni femminili e le loro organizzazioni femminili, che si appoggiano quindi sull’organizzazione già esistente nei partiti; il movimento femminista vuole invece l’autonomia e quindi è alla ricerca di una sua organizzazione che sia congeniale ai suoi contenuti e alle sue lotte.

I partiti e i gruppi pensano che in quanto essi sono espressione della classe operaia e quindi anticapitalisti sono anche automaticamente espressione delle donne proletarie.

II movimento femminista pensa che la cosa non sia così automatica.

La contraddizione uomo-donna è una contraddizione che il capitalismo ha ereditato e fatto sua, quindi precedente al capitalismo stesso, e che si ripercuote su tutte le donne; anche se, evidentemente essendo la società capitalista una società divisa in classi, tale contraddizione si evidenzia in modi diversi a seconda delle classi di cui le donne fanno parte, e in maniera più violenta se si appartiene alla classe sfruttata dal capitalismo, la classe operaia. Il parlare di contraddizione che riguarda tutte le donne non implica quindi un interclassismo generico, di cui effettivamente alcune frange del movimento femminista sono espressione, ma comporta un’analisi approfondita di tale situazione, e significa anche che l’eliminazione delle (classi non elimina automaticamente la contraddizione uomo-donna anche se la lotta al capitalismo ne è la premessa fondamentale. Ciò significa, dunque, esigenza e necessità di un movimento femminista autonomo: cioè formazione di un movimento di massa delle donne, che sia garante di se stesso, e che possa su questa base allearsi con i movimenti politici anticapitalisti. La garanzia di questa autonomia politica del movimento può essere solo la crescita e la formazione politica delle compagne femministe, crescita che nasce dall’esigenza del femminismo di riappropriazione dello strumento politico da parte delle donne. In un primo tempo tale esigenza è stata coperta esclusivamente dal piccolo gruppo. In un secondo tempo (almeno nel Collettivo Comunista Femminista) è stata soddisfatta anche dalle commissioni. Ma la crescita politica nelle commissioni non ha garantito e non garantisce una socializzazione e una comunicazione dei problemi emersi in tutto il movimento femminista.

Di qui l’esigenza di un maggior confronto politico all’interno del movimento stesso e di un’autonomia che non sia però poi un isolamento.

Ci è parso che da tutto ciò scaturisse l’esigenza di un momento organizzativo realmente autonomo, come contenuto nuovo del femminismo che soddisfi:

1) l’esigenza di incidere sulla realtà sociale;

2) l’esigenza di formazione politica delle compagne;

3) l’esigenza di comunicazione continua interna ed esterna al movimento.

Tutto questo significa che se finora è bastata l’organizzazione in piccoli gruppi e in commissioni, ora cerchiamo un Polo di riferimento che sia più vasto dei singoli collettivi autonomi, o meglio che ne sia l’espressione reale. Come ottenere questo senza cadere nell’organizzazione come elemento statico e direttivo che corre il rischio di soffocare il movimento stesso e che il femminismo ha sempre rifiutato?

Crediamo che la risposta a tale problema non debba essere solo nostra ma di tutto il movimento, ma possiamo formulare qualche ipotesi per un dibattito. Innanzitutto ci sembra che qualsiasi organizzazione femminista debba partire dalle prime forme di organizzazione che il movimento si è già dato, come i piccoli gruppi e commissioni. Inoltre ci sembra che sia giunto il momento di affrontare il problema della partecipazione del movimento femminista in termini concreti. C’è stata finora, sempre e correttamente, reale partecipazione al movimento di tutte le compagne, anche intendendo tale partecipazione come differenziata volta per volta a seconda dei livelli di esperienza raggiunti dalle singole compagne?

Dal dibattito avuto nei 3 giorni di convegno nostro ad aprile, sull’autonomia, è emersa una grande insoddisfazione verso il momento collettivo (assembleare) visto come limitativo e parziale. Fondamentale in tutto questo l’impossibilità di discutere in un’assemblea col metodo dell’autocoscienza.

Ne deriva un’allontanamento di molte compagne e una loro oggettiva emarginazione.

Quale la soluzione? Una sparizione del collettivo (assemblea) non ha senso a nostro avviso perché il momento di confronto politico è indispensabile ed è quello che garantisce un livello minimo di comunicazione. Occorre porsi il problema di una comunicazione organizzata in cui lo spazio e la crescita politica delle compagne sia garantita da strutture precise. Un primo passo potrebbe essere forse un coordinamento basato su deleghe a rotazione.

Che vuol dire?

Che per periodi più o meno lunghi si responsabilizzano delle compagne a turno per piccolo gruppo, se ci sono, per commissione o per collettivi autonomi (universitari, di quartiere) che si riuniscono in un’assemblea aperta, ma che garantiscano che i temi del dibattito siano quelli scaturiti dai piccoli gruppi, dalle commissioni e dai collettivi autonomi romani (eventualmente in seguito nazionali).

Evidentemente questa non è la soluzione del problema prospettato all’inizio, ma solo la garanzia minima o il primo passo verso la formazione di un movimento che vuole essere autonomo e vuole darsi un minimo di strutture che garantiscano la comunicazione e l’incisività, interna ed esterna, dei suoi contenuti.

 

 

TESTIMONIANZE

 

Paola e Marina

Siamo un piccolo gruppo costituitosi in modo del tutto casuale e, quindi, eterogeneo per età delle compagne e per estrazione sociale. Siamo anche un p.g. molto giovane e non abbiamo ancora tratto conclusioni di nessun tipo sul nostro modo di procedere. Il nostro contributo può quindi riguardare unicamente il metodo che abbiamo scelto e le finalità che ci proponiamo. La nostra idea sul p.g. è abbastanza omogenea: non sentiamo la crisi dei p.g. che ci sta intorno come crisi dei p.g. in sé stessi, in quanto organismi chiusi e incapaci di aprirsi all’esterno. Non è affatto vero che la capacità di sopravvivenza del p.g. sia legata alla sua capacità di esprimersi all’esterno in quanto tale (cioè come p.g.). Altrettanto infondata è l’ipotesi opposta, per la quale si dovrebbe procedere da una fase di tipo personale-intimistica, direttamente a una di lotta nel sociale. Quello che occorre salvaguardare e sul quale crediamo di dover mettere l’accento è, di fatto, il rapporto ‘dialettico intercorrente tra i due momenti.

Prassi-teoria-prassi, nel senso che, dal ritrovamento della propria individualità nel confronto all’interno del p.g., si passi a una elaborazione teorica più generale e complessiva, dove il metodo marxista sia verificato ed usato in senso non dogmatico, ma estendendolo sulla base di un rapporto critico e dialettico. Infatti, marxianamente, il sistema dialettico non è che la riproduzione cosciente del corso dialettico dei fatti esterni del mondo. Non intendiamo perciò contraporre ih femminismo al marxismo cercando poi le analogie, ma usare lo strumento marxista come strumento di analisi del reale, rivivificato dall’autocoscienza. Per noi il femminismo non è infatti altro dal marxismo, né è un’altra scienza con la quale confrontarsi.

Il femminismo è un’ulteriore estensione del marxismo che, in modo strettamente dialettico, non lo segue come un’appendice, ma insiste su questo trasformandolo dall’interno. Il nuovo modo di far politica attraverso l’autocoscienza noi lo viviamo proprio in questo senso: non più la semplice presa di coscienza che rimane lì come un dogma (e un alibi), dopo la quale tutto si pretende possibile e giustificabile, ma l’autocoscienza come pratica di lotta, come modo di rapportarsi agli altri, alla lotta, al marxismo, come modo nuovo di essere, in ogni momento, riverificabili e rimessi in discussione. Su queste basi il nostro p.g. funziona in modo soddisfacente,, né ci turba il pensiero di portarlo allo sbocco esterno come p.g., in quanto questo sbocco è garantito oggi dalla nostra pratica di lavoro nelle commissioni, dove viene ad essere riportata la nostra individualità ritrovata in sede di p.g. e verificato nella prassi il nostro modo di praticare la autocoscienza.

Al p.g. ritorna tutto il patrimonio di esperienza nel sociale per essere ancora una volta ricollegato al personale, riconfrontato e ridiscusso. Ma il fatto per noi più importante è che, tra questi due momenti, (ritrovamento della propria individualità e lotta nel sociale) passa l’elaborazione teorica, sulla base del marxismo nel modo nuovo in cui lo intendiamo, dei nostri contenuti e obiettivi, per i quali non basta assolutamente essersi recuperate come persone, anzi, questo recupero può diventare perdente se non lo si inquadra in una prospettiva e in un’ottica complessiva e in una realtà politica che non è più il p.g., ma la società capitalistica.

 

Mitzy

Sono arrivata al femminismo in modo casuale. Sentivo l’esigenza di far politica ma i metodi e gli spazi tradizionali che mi si offrivano mi intimidivano e mi sembravano troppo schematizzati e paralizzanti per chi, come me, non aveva capacità di linguaggio, sufficiente preparazione specifica e sicurezze tali che mi permettessero di assumere un ruolo preciso nell’ambito di una organizzazione già definita. In realtà questa necessità di politicizzare la mia vita altro non era se non una confusa carica di ribellione riguardante essenzialmente me stessa come donna stanca di oppressioni vissute sorridendo, di dover relegare la mia creatività dentro schemi tipicamente femminili e quindi accettabili, della maschera che il lavoro, i rapporti sociali, la politica stessa mi costringevano ad indossare ogni giorno. E questo malgrado io sappia di essere una privilegiata sia nell’ambito del mio lavoro che in quello dei miei affetti.

Non so quando, c’è stato sicuramente in me un processo di maturazione e, più ancora che di assimilazione di certi contenuti, di appropriazione di metodologie nuove. Ho capito il significato di questi tempi lunghi che appartengono soprattutto a noi donne e il valore di una lotta politica che diventa evento personale perché si riferisce alla nostra vita vissuta.

Il femminismo è lungo e difficile, una battaglia da impostare prima con noi stesse, di reale conquista della nostra individualità di donne con dei propri valori, dei problemi che riguardano noi e solo noi, non perché ci sono stati delegati, ma perché ci spettano di diritto e, solo in un secondo tempo, da vivere con l’esterno come individui politici coscienti delle proprie contraddizioni che solo noi donne possiamo capire perché specificatamente nostre.

Da questa totalità di impegno nasce la crisi del piccolo gruppo; alcune compagne rifiutano l’autocoscienza perché troppo intimamente coinvolgente, altre tendono a ritrovare all’interno del proprio piccolo gruppo quella stessa struttura famigliare che vorrebbero mettere in crisi, quasi sempre ci lasciamo tentare di assumere un ruolo prevaricante o di aperto disagio. Sempre, e credo che questa sia una domanda aperta, ci si chiede se il piccolo gruppo debba essere un riferimento per noi costante o limitato nel tempo fino all’espressione di se stesse come individui politici.

 

Isabella

Il mio piccolo gruppo si riunisce da un anno. E’ un piccolo gruppo aperto, raccoglie membri omogenei che, culturalmente almeno, appartengono alla piccola borghesia ed alla media borghesia intellettuale, una sola compagna fra quelle rimaste ha una formazione diversa, non ha studiato e proviene dalla provincia di Roma. Tutte hanno alle spalle esperienze politiche fatte in gruppi o partiti della sinistra. Nei primi mesi di vita del piccolo gruppo vi è stato un processo selettivo in parte spontaneo, in parte determinato dal gruppo. Spontaneamente si sono allontanate delle compagne, una in particolare aveva problemi molto concreti da risolvere e le occorreva più che una astratta solidarietà un concreto aiuto che la rendesse più libera dal marito e dai figli, e, secondo me, nella situazione di un anno fa non trovava nel gruppo soddisfatte queste sue esigenze; un’altra compagna se n’è andata per una situazione creatasi nel gruppo di cui parlerò a proposito dell’aggressività. Durante questo anno di lavoro all’interno del gruppo vi è stato un processo di evoluzione che ha portato da un lato a sperimentare tentativi di autocoscienza, d’altro lato ad una maturazione di posizioni delle compagne, posizioni in cui è sempre stata presente la necessità di un momento di sintesi tra esperienze personali e momento politico. Il problema di come attuare la ricomposizione tra personale e politico è rimasto aperto. Abbiamo evitato metodologie di lavoro che comportassero costrizioni, sia ad intervenire che a tacere, per le compagne; per questo, di fronte a due alternative, se parlare a turno ciascuna sulla propria vita, oppure partire da un problema e su quello intervenire liberamente, ciascuna partendo dal proprio personale, la prima alternativa è stata respinta perché costrittiva e dispersiva (nella vita di una persona ci sono più problemi) ed abbiamo deciso di partire da un argomento e su quello discutere. Accenno ad alcune perplessità mie e ai problemi sorti nel corso delle riunioni:

— All’iniziò ci sono state resistenze da parte di tutte a rendere partecipi le altre dei problemi specifici della propria vita, queste resistenze sono state’ in parte superate nel corso delle riunioni. Alcune compagne hanno partecipato più attivamente facendo lo sforzo di ricollegare episodi di vita personale a problemi più generali: o per mancanza di strumenti o per resistenze, il gruppo non ha utilizzato questi sforzi che in parte, isolando qua e là dei problemi; ogni esperienza si è consumata nella riunione in cui si è svolta e, nell’incapacità o nell’impossibilità di generalizzare le tematiche, non si è avuta una sedimentazione di esperienze sui contenuti e quindi una crescita del discorso politico sostanziale. Al contrario, proprio queste difficoltà hanno maturato la necessità di Una organizzazione e di un metodo che non disperdessero gli sforzi individuali ma che li integrassero con altri in sintesi generalizzanti. Siamo comunque ancora ai tentativi.

— L’aggressività si è manifestata in due forme, come emarginazione dell’elemento diverso dal seno del gruppo e come prevaricazione di una esperienza personale su un’altra.

Nel primo caso si sono stabiliti rapporti di forza nel gruppo contro una compagna, la quale, essendo più giovane e debole e con meno esperienza politica, non è riuscita a sostenere la situazione ed è uscita dal piccolo gruppo. A posteriori mi sembra che le diversità di posizioni che hanno suscitato il contrasto non giustificassero la dinamica dei fatti, alla luce anche delle posizioni assunte dopo dalle compagne; ritengo che, in realtà, si sia trattato dell’esercizio costrittivo di un gruppo forte su un elemento marginale più debole. L’esperienza è stata recepita dal gruppo ed in seguito, o per maggiore controllo individuale o per una maggiore parità di forza, le situazioni sono state controllate e superate. Nel secondo caso il racconto di una esperienza personale di una compagna (un aborto) ha creato una situazione di crisi per un’altra; mentre per la prima è stato liberatorio parlare della sua esperienza, per la seconda il racconto è stato una violenza, in entrambi i casi non si è superato il personale e non si è riusciti a trascendere da fatti particolari per giungere ad un discorso generalizzante.

Questo tipo di aggressività involontaria ha posto il problema dei limiti fino a cui bisogna spingersi nel mettere in discussione se stessi e se sia giusto o meno scatenare crisi il cui controllo sfugge a chi le subisce. Ci si è sempre attenute in seguito al rispetto dei livelli personali di maturità e di capacità dì autocritica.

— L’omogeneità culturale del gruppo ha semplificato i rapporti interrii; il controllo, non l’eliminazione, dei ruoli è stato più facile; molto utile è stata la presenza nel gruppo di una compagna psicologa, la quale ha, con gli strumenti che meglio conosce, sgelato situazioni di attesa e di difesa. Ci sono compagne più attive che parlano di più ed altre che tendono ad ascoltare; ho notato che questa passività viene meno o si attenua quanto più si crea un clima di fiducia nel gruppo e di sicurezza nelle esperienze che si vogliono comunicare: per esempio, per alcune è più facile discutere sul terreno dell’astrazione, per altre è più facile parlare partendo da esperienze particolari e personali; il piccolo gruppo è la sede migliore per l’incontro di queste due disposizioni, ma può essere castrante proprio per chi ha difficoltà di astrazione, una prassi in cui il passaggio dal particolare al generale non avviene, in cui il personale non diviene mai politico. E’ attraverso il superamento della propria esperienza particolare che si può creare una coscienza politica e nella crescita di questa coscienza superare le false diversità.

— Si è sentito a volte l’accavallarsi di problemi che, pur essendo di origine comune, sono su piani diversi. Il partire dall’esperienza personale coinvolge maggiormente l’individuo nel rapporto di gruppo e diviene difficile, nella dinamica di questi meccanismi, separare i vari aspetti dei problemi, l’aspetto soggettivo personalistico che mette in relazione i membri del gruppo e l’aspetto oggettivo di una tematica che chiede di essere definita; l’autocoscienza, così come ora è stata condotta, tende a privilegiare il primo momento particolare interpersonale, senza peraltro riuscire a superare questo livello, a formulare una qualche teoria.

Questi limiti (soggettivismo, personalismi etc.) comportano il rischio di privilegiare valutazioni soggettive dei problemi, nel pensare che basti per cambiare le cose cambiare se stessi, comportano ancora il rischio di valutare le scadenze politiche esterne secondo quanto le proprie esigenze richiedono e non secondo le esigenze di crescita di un movimento in nuce che deve diventare di massa e coinvolgere tutte le altre donne.

— Attualmente nel mio piccolo gruppo si sente la carenza di un lavoro politico comune che arricchisca i contributi alla discussione.

In conclusione, ritengo che ancora non sia possibile attribuire all’autocoscienza il crisma di metodo scientifico (cioè un metodo oggettivo ed universalmente valido) perché, al di là delle formule definitorie che esprimono più un dover essere che una realtà non siamo in grado di dire che cosa essa sia, quali siano i meccanismi che mette in moto e come siano controllabili; non siamo ancora in grado di confrontare le esperienze di autocoscienza fatte in Italia con le esperienze fatte nei paesi che per primi hanno verificato tale metodo di lavoro. Al contrario abbiamo le idee un po’ più chiare sulle strutture in cui è possibile fare autocoscienza e sui rapporti tra queste strutture. Ho detto non abbiamo fatto tutto ciò, forse è possibile farlo in futuro, vorrei però che fosse chiaro che potremo dire di avere un metodo quando sapremo riempire questi vuoti e che la verifica della validità di questo metodo sarà la crescita del movimento delle donne

 

Dirce

E’ difficile fare un discorso su di un anno di p.g. e di autocoscienza senza scadere o nella retorica apologia o nel distruttivismo totale.

Un anno di autocoscienza non si può liquidare con un giudizio tutto negativo o tutto positivo; sarebbe falso. Non vorrei, nemmeno fare la storia dei fatti o dei discorsi del p.g., quanto piuttosto cercare di tirare; Suori le esigenze che ha soddisfatto e non, nel suo svolgersi nel tempo.

Il primo periodo di p.g. è stato molto bello. Avere di fronte 9 donne con gli stessi tuoi problemi, che non sentivi come nemiche o come rivali è una scoperta meravigliosa. E’ talmente grande il bisogno che hai di parlare con le altre, il bisogno di ritrovarti nelle altre, il coinvolgimento emotivo che ciò ti procura, che non chiedi altro. Ti senti per la prima volta partecipe, insieme alle altre persone (preferisco parlare di persone piuttosto che di donne contrapposto ad uomini) di un progetto politico, il femminismo, che prende in considerazione, finalmente e per la prima volta, i tuoi problemi e le tue esigenze. Per me il femminismo ha significato rottura dall’isolamento in cui, in quanto donna, vivo; in tutti i miei frammenti di vita quotidiana, dallo studio al lavoro, dagli interessi al tempo libero. Ho acquistato la necessità dei rapporti con le altre donne, che è una grossa conquista politica, rapporti non fatti di lamenti ma di analisi della propria condizione di oppressa (analisi necessaria per avere la certezza su quali sono gli obiettivi da raggiungere), rapporti che hanno oggi per me il loro spazio vitale e che non sono come un tempo, i tappabuchi rispetto al rapporto principale, quello con «l’uomo». Ho imparato per la prima volta a divertirmi con le donne, a ridere e scherzare senza angosce sottili perché mancava qualche altro elemento. Tutta una serie di esigenze che mi sono nate in questo periodo come il capire fino in fondo il discorso sul ruolo che ognuna di noi si porta dietro nella vita di tutti i giorni e quindi anche nel piccolo gruppo; il discorso sull’emotività e la sua comprensione per non vivere come condanna il fatto che in quanto donne siamo «per natura» emotive; l’acquisizione di certi strumenti teorici, voglio continuare a chiarirmele e a portarle avanti insieme alle altre. A questo proposito non so se il p.g. come è stato finora è ancora in grado di soddisfarle.

Parecchi sono i limiti di questa struttura, se viene vista storicamente, nel senso che un piccolo gruppo strutturato come 2 anni fa sconta ora dei limiti, abbastanza grossi e ne è una riprova il fatto che i p.g. che nascono adesso sono diversi da quelli precedenti. La differenza di interessi tra le componenti del p.g. scelte a caso è secondo me un primo limite. Se dovessi, oggi, entrare in un p.g. sceglierei le persone che lavorano con me nello stesso luogo di lavoro o con cui ho interessi più simili (ad es. le compagne della commissione in cui lavoro) proprio perché dopo un primo discorso generale di identità con tutte le donne ho bisogno di analizzare fino in fondo anche le differenze con le altre, per capire meglio me stessa e le altre e non restare in superficie in nome di una solidarietà fittizia che secondo me non è immediata ma che passa attraverso l’analisi e la critica collettiva del proprio ruolo di donna appiccicato dalla società di cui facciamo parte.

Prima di cominciare un nuovo p.g. o parallelamente ad esso vorrei capire meglio la sua dinamica interna, capire il perché si creano determinate tensioni in ogni piccolo gruppo, perché scoppia l’aggressività.

La via da seguire non è quella di bandire l’aggressività o sforzarsi di non dare giudizi (che tra l’altro si danno ma rimangono nascosti) ma capirne le cause, andare al di là della «scorza» caratteriale per cui una è per natura passiva o per natura aggressiva — il carattere si forma socialmente —; scontrandosi con questi fenomeni per capire che essi non sono altro che aspetti del ruolo che ognuna di noi ha ricevuto o si è data per sopravvivere.

Tutto questo lavoro secondo me non è stato fatto nel p.g.; ci si è fermate impaurite alle prime manifestazioni di questi problemi oppure si è scappate. Affrontare questi meccanismi del p.g. non significa fare dello «psicologismo (tra l’altro non ne abbiamo nemmeno gli strumenti «tecnici» —) perché per parlare con le altre di sessualità, di cultura, di politica, di famiglia (il famoso discorso sui contenuti) bisogna aver chiaro come ne parli, come ti poni rispetto alle componenti del p.g. e perché; qual’è il ruolo che hai non solo socialmente (esternamente) ma all’interno e spesso scopri che non fai che riportare il tuo ruolo sociale o quello che vorresti fosse il tuo ruolo sociale (che è la stessa cosa) all’interno del p.g. Bisogna perciò a mio parere smetterla con le false contrapposizioni interno-esterno perché con l’autocoscienza, cioè partendo dai nostri bisogni e dalle nostre esperienze personali, siamo in grado di parlare e di affrontare con un’ottica femminista la politica, la cultura, la lotta di classe, riappropriandoci per andare oltre in una visione diversa della società in cui viviamo (non emancipazione dunque ma passaggio graduale verso la liberazione), di una serie di strumenti a noi storicamente estranei; proprio perché attraverso il femminismo stiamo diventando soggetti consapevoli della nostra importanza in un processo di cambiamento della società che non è totale senza la nostra partecipazione. L’autocoscienza non è un metodo da relegare nel p.g.; può e deve essere usato dovunque o almeno nei rapporti fra donne.

Attraverso questa pratica politica possiamo capire quanto siano radicati in noi gli schemi di quella famiglia capitalistica che diciamo astrattamente di voler distruggere ma che è ancora così radicata in noi che non facciamo che riproporla ovunque anche nel p.g. (vedi la dipendenza emotiva che si instaura tra le compagne che fanno parte dello stesso p.g., che ripropone la dipendenza affettiva della famiglia in cui si è vissute). Secondo me ci aspetta un lavoro ancora lungo e faticoso, di analisi della nostra condizione di donne e degli strumenti che abbiamo (l’autocoscienza) e delle strutture che ci siamo date come movimento (p.g. e da poco le commissioni); lavoro duro che o facciamo da NOI, tutte INSIEME o non farà nessuno per noi.

 

Laura

Da 4 mesi ho interrotto la pratica di autocoscienza nel piccolo gruppo e solo ora, forse, mi sono chiari i motivi del mio rifiuto di proseguire il lavoro di analisi con le compagne con le quali lo avevo iniziato da circa un anno. Fin dall’inizio delle nostre riunioni avevo accettato la presa di coscienza come prima prassi politica femminista necessariamente difficile e dolorosa; sono certa che di questo ogni compagna che sceglie il femminismo ne sia consapevole.

Infatti, nonostante il piacere di ritrovarsi insieme, di riscoprire tra donne il sentimento dell’amicizia, il rivedere criticamente i meccanismi per i quali la emotività femminile si manifesta e scoprire che questa è solo una automatica risposta ed insieme una protesta nei confronti di chi cerca di alterare la trama dei nostri piccoli equilibri psicologici compensatori, provoca spesso, per reazione la paura di analizzarci ancora e di conseguenza il rifiuto di questa insostituibile pratica femminista. Credo, proprio per averla vissuta, che questa paura sia quella di comprendere che è necessario rifiutare e quindi liberarsi proprio di quel minimo che si conosce di se stesse e per il quale si è accettate e riconosciute anche socialmente, per ottenere, come unica contropartita una ipotesi rivoluzionaria in divenire in cui la propria collocazione non è chiara e verso la quale, per i suoi contenuti realmente eversivi, l’opposizione della società è intransigente. Questa intransigenza si manifesta a seconda delle istituzioni interessate (dalla famiglia in poi) in vari gradi di insopportabile drammaticità: da tentativi di normalizzazione pacifica intesa come ricomposizione «affettuosa» del conflitto, a repressioni aperte e dichiarate; in ogni caso è chiaro che il POTERE intende neutralizzare in ogni possibile modo persino l’idea di ipotesi alternative di vita. Ho avuto paura del femminismo, dunque, per la certezza che esserne coinvolta sarebbe stata, per me, causa di emarginazione ancora più esclusiva di quella nella quale ero stata costretta a vivere. Del resto se anche avessi scelto il femminismo, come regola di vita, la solidarietà delle compagne espressa solo nel chiuso del piccolo gruppo, sarebbe stata sufficiente a darmi la forza di superare l’impatto con il mio vissuto quotidiano?

Ma in che modo io e le mie compagne avremmo potuto esprimerci solidarietà, far fronte comune, fuori dal piccolo gruppo se ognuna di noi era diversa per interesse e per modo di operare nel sociale?

Certamente sapevo che l’aggregazione spontanea di donne era (e lo è tuttora) necessaria per ricercare, come primo momento di lotta, la matrice comune dell’oppressione vissuta nonostante le diversificazioni delle storie personali, tuttavia mi sembrava urgente e necessario, nonostante la paura, misurare subito nella realtà alcune mie posizioni conquistate con la presa di coscienza e tradurle operativamente. Quel desiderio di verificarmi subito, dopo aver appena compreso la drammaticità e la problematica della presa di coscienza, oltre che essere prematuro era chiaramente una fuga in avanti ed inoltre un mio tentativo di prevaricazione nel piccolo gruppo.

Prevaricazione-accettazione: gioco ambiguo e ambivalente che ognuna di noi, più o meno consciamente, esercitava scegliendosi, in una sottilissima trama di rapporti interpersonali, la parte più congeniale ad un suo vecchio modo d’essere: più o meno passivo, più o meno trainante.

Invece del rifiuto di accettarci così come la società ci aveva voluto e deformato, e quindi di aiutarci reciprocamente a scoprire in noi il modo nuovo di essere donna, lentamente ci ricomponevamo con i nostri ruoli all’interno di uno schema del tutto simile a quello familiare, ma certamente, proprio perché composto da sole donne, estremamente più gratificante.

Avevamo a quel punto, e solo ora me ne rendo conto, snaturato il piccolo gruppo che, nato su ipotesi rivoluzionarie, lungi dal dover rappresentare un ennesimo gioco delle parti, avrebbe dovuto analizzarne le manifestazioni in un’ottica strettamente politica. Questo per dar modo ad ogni singola compagna di prendere coscienza di come il proprio ruolo personale sia accettato ed introiettato profondamente per bisogno di sicurezza e di identificazione in un gruppo e per scoprire insieme come l’interagibilità dei ruoli sia il supporto essenziale del tessuto sociale e quindi delle stratificazioni di classe sulle quali si regge l’intero sistema.

In un piccolo gruppo divenuto famiglia alternativa era normale che si riproducessero gli stessi meccanismi di ricatto affettivo che esplodevano, a volte, in manifestazioni di aggressività. Questa aggressività, lungi dall’essere analizzata e compresa, veniva subito ricondotta nei canali emotivi dai quali era scaturita con il preciso intento di non modificare sostanzialmente i rapporti che si erano instaurati tra noi. Quante volte io stessa ho sottinteso tanti miei pensieri per non provocare altre reazioni e questo non certo per una sorta di affetto e comprensione delle altre ma per non sconvolgere un assetto nel quale avevo trovato la mia sede di gratificazione, una nuova famiglia quindi, in cui poter imporre, invece che subire, una dipendenza emotiva; una famiglia nella quale rivendicare finalmente il mio ruolo di padre, con tutte le implicazioni affettive e sociali di questa parola, ostentando una sicurezza di me, un «sapere» che fuori dal piccolo gruppo mi venivano frustrati dal mio essere donna. Dopo poco aver raggiunto questo assetto familiare non mi è stato più possibile nascondermi che il ruolo che avevo scelto era una ennesima rappresentazione di uno dei miei condizionamenti. In quel momento l’averne preso coscienza non mi ha dato la forza di proseguire l’analisi; mi sembrava di non avere più energie né possibilità e di essere completamente dominata dai ruoli e che dietro di essi non potesse celarsi che il vuoto assoluto. Un po’ come sentirsi maschera della commedia dell’arte e sapere di essere soltanto questo. Ho lasciato allora il piccolo gruppo. So ora di aver interrotto il lavoro a metà. La paura di non riconoscermi più in niente mi ha fatto dimenticare di chiedermi e di chiedere alle compagne a chi giovassero i ruoli e quale fosse il fine vero e politico di questi nella famiglia.

Una famiglia che va da tutte noi con più precisione analizzata come archetipo di una società le cui strutture economiche e classiste si reggono con gli stessi rapporti gerarchici di potere che regolano la convivenza tra membri parentali. Ho lasciato il piccolo gruppo e non ho avuto la forza di riconoscere che in realtà il vuoto di cui avevo paura era l’unico spazio da conquistare, in cui io e le altre compagne avremmo potuto trovare insieme l’unico sentimento possibile per noi: la rabbia. Rabbia di aver vissuto per anni accettando tutti i condizionamenti, la frammentazione e la scomposizione della nostra identità, rabbia di essere state rese oggetti asserviti, più di ogni altro essere umano, alla ferrea ed alienante logica del POTERE.