indietro nella storia
Pubblichiamo le riflessioni di un gruppo, che sta lavorando sul tema «Le donne e la medicina nel ‘500 », a proposito dei problemi che una ricerca collettiva solleva: uso della professionalità, metodologia di lavoro, rapporto con il tempo che la discussione e l’elaborazione collettiva dei materiali dilata notevolmente. La ricerca, è condotta da: M. Temide Bergamaschi, Enrica Chiaramonte, Mimma De Leo, Giovanna Frezza, Silvia Tozzi, Sara Zanghì.
La nostra ricerca si occupa della progressiva esclusione delle donne dall’esercizio professionale della medicina culminata nel Cinquecento. Questa esclusione si situa all’interno di un più ampio processo economico e sociale in cui anche la medicina, individuata come punto di incontro di tendenze sotterranee ma fondamentali nell’evoluzione della nostra civiltà, va cambiando di segno. E’ una ricerca centrata su una complessità di interrelazioni e di meccanismi, non su un argomento.
Nessuna di noi fa la storica di professione. Il gruppo è formato da: tre insegnanti di scuola media superiore, un’ insegnante di scuola elementare, una pre- I caria assunta con la legge 285 presso [ un archivio di Stato, una ‘libera” ricer- | catrice sociologa. Come altre donne ci siamo ritagliate in mezzo alle nostre giornate frange di tempo sempre più grandi per un lavoro non pagato che ha finito per acquistare significato a scapito di tante altre cose. Tra queste altre cose c’è anche un lavoro pagato, che per ognuna di noi rappresenta il luogo contraddittorio dove si può apprendere l’uso di alcuni attrezzi culturali, ma dove si è anche esposte ad una omologazione culturale che schiaccia la diversità di cui potremmo essere portatrici.
Il lavoro pagato è comunque emanci-patorio, ma può comportare un’adesione e un’interiorizzazione che di fatto sono rinuncia alle capacità di riflessione e di espressione autonome. Ci si ritrova all’ interno di istituzioni dove le donne sono accolte, ma non sono.
Una inguaribile insofferenza per questa situazione ci ha spinto a riattraversare, almeno come tentativo, la professionalità sia negli aspetti emancipatori più ambigui che negli aspetti oppressivi più palesi.
Quando abbiamo formato il gruppo avevamo presenti una quantità di domande che ciascuna era arrivata a porsi elaborando a suo modo le esperienze personali concrete in cui era calata. Erano interrogativi sulle ragioni e i modi di una dequalificazione, che pensiamo siano sentiti in modo diffuso dalle donne (e non soltanto da loro), ma ai quali è difficile dare un’espressione soddisfacente. Tanto più che la cultura ufficiale, anche quando è benevola verso le, donne, è piena di inquietanti silenzi e la professionalità è uno dei campi dove le mistificazioni sono state più grandi. Metà del genere umano viene omessa dalle indagini.
Per noi il bisogno di studiare era intensificato dall’affiorare nel movimento femminista di intuizioni di cui si percepiva la “verità” senza riuscire ancora a definirne e a esprimerne lo spessore. L’interesse per il proprio corpo, il desiderio di riappropriazione, hanno fatto convergere l’interesse su alcuni temi che hanno circolato con rapidità sorprendente, proporzionale alla capacità di essere in sintonia con desideri profondi di liberazione.
Il rinnovato interesse per il corpo trovava motivazioni anche nel rifiuto della gestione istituzionale e nel bisogno di ricomporre le dimensioni separate della propria esistenza fra cui la salute. Il tema donne e medicina era cruciale per la divisione che si era verificata delle donne dal lavoro, fra donne nel lavoro e delle donne da se stesse (corpo affidato ad altri). Ci siamo trovate di fronte a una scienza, una pratica, una cultura sanitaria prive di apporto femminile autonomo e sì è appena cominciato, con enorme fatica, ad aprirci qualche spazio sempre contrastato dai tentativi di relegarci a campi meno considerati. C’è stata anche, da parte delle donne, l’esigenza di ridurre la portata della delega ai tecnici sulla gestione del proprio corpo.
Le informazioni faticosamente raccolte si innestavano nella nostra esperienza culturale e quotidiana, nel senso che le questioni poste singolarmente e il sapere cercato insieme modificava il nostro modo di essere e di rapportarci, con una difficile navigazione tra gli scogli della “emotività” e della “razionalità”. C’era anche la fiducia che il materiale esplorato diventasse subito parte di uno scambio con gli altri attraverso ciò che si era e si faceva ogni giorno. Per ognuna è cambiato il rapporto con l’attività pagata, anche se in modi diversi, ma sempre sotto il segno comune di una maggiore autonomia culturale e capacità critica; senza escludere il piacere della ricerca e della riflessione. Quello che ci ha spinto è stato il desiderio di sapere e di riflettere comune a tante altre donne, qualunque lavoro facciano.
In genere, la ricerca è delegata agli esperti del mestiere, per quanto non siano soltanto loro a voler studiare perché vogliono sapere.
Si è aperto a questo punto il problema della specializzazione: ci hanno addestrato a coltivare campi specifici con un atteggiamento intellettuale appropriativo e individualizzato, anche quando vi è il contributo di più persone. L’ intelletuale assorbe elementi utili alla sua professione, li elabora privatamente e infine socializza il prodotto quando è finito: il che è diverso dal cercare dì produrre solidalmente. Per di più la professionalità tende a chiudersi o a rinnovarsi per via di cooptazioni, anche quando i ruoli sono sottoposti a revisione.
Il nostro tentativo è stato di elaborare e attraversare insieme tutte le fasi della ricerca: domande, messa a punto di ipotesi raccolta e confronto dì materiali, verifica delle ipotesi e stesura scritta. Ogni elemento acquisito — strumenti, idee, testi scritti — è stato messo in comune nel gruppo. Non è stato facile impostare un lavoro del genere e gli sprechi di tempo sono stati grandi. A chi si rivolge la nostra ricerca? Di solito il referente dello specialista è l’altro specialista. Un’ottica lontana da noi, che partivamo da motivazioni essenzialmente politiche. Gli interrogativi sono stati elaborati all’interno del gruppo di ricerca; ma nascevano su basi collettive e non individuali, dal rapporto con altre donne che in vario modo stimolavano la ricerca e che al termine possono essere interessate all’uso della medesima. Ci siamo servite delle nostre “specializzazioni” ma non siamo state motivate dalla specializzazione.
Queste premesse aprono una serie di interrogativi prima di tutto sulle possibilità e modalità di un rapporto culturale fra donne che non sia irrigidito nelle forme istituzionali e canoniche dell’apprendimento e della comunicazione (docente a discente). Come può essere costruito un rapporto non precario tra donne che fanno ricerca e altre che non la fanno, ma in qualche modo ne sono partecipi? E in che modo ne possono essere partecipi? Pensiamo nel nostro caso a tutte quelle che si occupano del campo della salute. Una cosa è certa: la trasmissione di cultura non è a senso unico, ed esiste il problema di fermare nella scrittura esperienze diverse.
Al punto in cui siamo esiste però una netta separazione dell’esperto dalle persone comuni: anche quando la specializzazione è messa al servizio degli altri, il modo individualizzato dì produrre cultura rimane inalterato. Ognuna di noi sente questa contraddizione tra il desiderio di condividere il sapere molto più di quanto., oggi sia possibile e l’incentivo-necessità dell’accumulazione individuale. Lavorando insieme il nostro rapporto con la specializzazione è cominciato a cambiare; si sono intraviste anche possibilità di cercare il sapere che non sia finalizzato a un mestiere, ma piuttosto alla crescita di coscienza, dell’identità personale al piacere intellettuale in sé. Un lavoro “gratuito” che può dare forza nei confronti delle istituzioni, soprattutto quando a farlo sono donne che non svolgono per mestiere attività intellettuali gratificanti.
Qual è il rapporto fra noi e le protagoniste della ricerca, donne vissute in altre epoche? Più che il rischio della presa di distanza da classificatore botanico, noi abbiamo corso il rischio del rapporto simpatetico con loro: immedesimazione che poteva portarci a sovrapporre noi stesse a queste donne del passato, sia che fossero famose sia che fossero immagini indistinte e anonime.
Al di là di ogni programma e intenzione, ci siamo trovate a rimettere in questione noi stesse mentre cercavamo di stabilire un giusto rapporto con le donne dì cui ci parlavano (o non ci parlavano) documenti e libri, sul filo di una memoria rivolta al passato per rintracciarvi radici del presente.
Le donne emarginate di un tempo, delle quali ci siamo occupate, in genere sono oggetto di un interesse di tipo folclorico, che le fissa in una specie di immobilità degradata. A noi interessava sapere come si collegassero tra loro storie di donne diverse — erboriste, ostetriche, medichesse, streghe mandate al rogo — e quale fosse il loro rapporto con la società; con quali interazioni tra sfera pubblica e privata fossero state tagliate fuori persone, esclusi comportamenti e modi di essere, dall’ambito di possibilità di sviluppo culturale e di lavoro. I processi si presentano intrecciati, per il concorrere di azione ideologica, repressione penale, sanzioni amministrative e sociali, penalizzazioni economiche. Ciò che è stato eliminato non aveva a che fare solo con la professionalità, ma anche con un tessuto di comportamenti solidali, con un senso della vita, una omogeneità con l’ambiente, che, nel corso del Cinquecento, hanno cambiato fondamentalmente di segno.
Studiando i processi di emarginazione, si ritrovano radici della deprivazione culturale, dell’estraneazione da sé, dall’ambiente e dagli altri: perdita di sé e dei legami di solidarietà, il cui vuoto è stato sostituito da forme della cultura vincente.