la madre
Se potessi davvero scegliere, sceglierei la luce.
lavorare nel buio è faticoso: corro molti rischi, e mi si riconosce più facilmente: sembrano tutti in4aff arati, ma sono sul ohi vive.
se vengo smascherato, passa del tempo prima di poter ricominciare, la luce, invece…
tutti si fidano: si guardano allo specchio e si riconoscono, e negli occhi trovano che si affaccia l’anima, l’inganno va piazzato tra la merce di prima scelta: non c’è trucco, non c’è inganno!
ma un buon diavolo deve saper “carpire” la fiducia: si dice, è letteratura, via!
un diabolo per bene la fiducia se la conquista, con pazienza, con arte, tanto che alla fine se la merita, e allora, dov’è il trucco? le antitesi sono banali: bene^male, amore-odio, gioia-dolore, sfiderei santi e dottori della Chiesa a sostenere la malignità del dolore, sia pure scomodando il peccato originale, e poi, converrebbe anche a me una linea di demarcazione decisa, conoscerei la mia barricata, non commetterei errori, insomma, l’arte, ad esempio.
millenni di tentativi, a scavare chiaroscuri, a stemperare nell’ambiguità colori e suoni! e se pure qualcuno ammette ì motivi demoniaci, trionfa sempre la “divina” arte!
forse, se si evitasse il sublime… se si puntasse sul banale… l’insidia tra le pantofole… tutti dannati, gli anonimi!
ma c’è per sempre il riscatto per la buona fede?
insomma, il demonio Che sghignazza perverso nel suo inferno… sarebbe una bella sicurezza, per me, almeno.
che per sopravvivere devo difendere spazi difficilissimi da definire, perché la questione fondamentale è ancora tutta da chiarire, sono il suo contrario, la sua negazione? in tal caso potrei anche azzardare a dedurne la mia superiorità… sono un collega, incaricato di reggere un regno troppo lontano dal suo? o sono forse il suo doppio, l’immagine allo specchio, per consentirgli l’unità? tra bene e male, intendo, come lui, insomma, se non addirittura lui.
ci penso da sempre, e più ci penso più mi accorgo che l’alternativa ad esser lui è non essere.
nulla, bella soddisfazione per lui! meglio scegliere la luce! provare con ì sentimenti nobili, gli affetti, l’amore, l’ipotesi è che esisto io. capace di ogni travestimento e di qualsiasi rappresentazione.
ho scelto una donna, col suo frutto nel ventre.
mi ha attratto il gesto esitante con cui ha accarezzato le forme insolite della sua figura, e lo sguardo con cui si è osservata nella vetrina del bar, e il sorrìso agli oggetti in fila, devo ammettere che si è trattato di un lavoro interessante: la sua tolleranza è stata una provocazione, il suo amore per la vita una sfida.
molte cose banali, sia chiaro, facili da sconfiggere.
la fiducia negli amici, l’amore senza patteggiamenti per la madre, il padre, il marito, una ignoranza grossolana di me. lamentarsi? soffocare rimpianti? non le sarebbe parso né sciocco né eroico, non cerano rimpianti, semplicemente, sì, forse quando un’altra sera arrivava senza che alcun messaggio prodigioso fosse giunto da chissà dove… ma, forse, ero io a leggere così quel piccolo sorriso ohe si chiudeva, suscitare sospetti e perplessità? perché? il caso mi interessava, ma per qualcosa in più.
volevo un successo.
neanche la sua attività di lavoro porgeva spunti: privi com’erano di risentimenti, i suoi giorni erano lieti e ciò che cominciava a pesarle nel fisico, perché il figlio le cresceva dentro, se lo godeva con l’anima.
così sussurrava al marito, nell’idillio del ritorno di ogni sera! sarei potuto sgusciare nella notte, per spiare con cautela i suoi sogni… desideri sconosciuti si gonfiavano a sua insaputa, fantasie di gioie diverse, angoscie vissute come incubi molesti, da scacciar via con un abbraccio.
c’era materiale a sufficienza per sospingerla sul bordo del suo abisso, le spirali della notte sono mie! ma io volevo vincere nella luce, cercavo, (follemente?), la mia vittoria sulla mia ambiguità, mi chiedevo/è chiaro, se la vittoria non sarebbe stata anche la mia sconfitta, e se quell’ansia di superarmi per annientarmi non fosse il segno della mia natura, divina com’è noto. . riscatto? lo chiamai anche così, perché, l’ho già detto, posso recitare qualsiasi parte.
fu una sua imprudenza a offrirmi la carta con cui avrei vinto, leggo anche nei pensieri ma, ci ho ripensato, non mi ero mai accorto in precedenza dì poter attaccare un obiettivo così attraente!
quel foglio, sul tavolo accanto alla finestra… e ci batteva il sole, la tradizione insegna la prudenza: mai scrivere! perché la parola scritta rimane, ed attrae, “…perché l’amore è libertà: chi è amato sa di avere nell’amore la sua forza per essere libero, libero di essere e di realizzarsi, dove veramente c’è amore non può esservi gelosia, né possesso”, inorridii.
non mi colpì la retorica, né l’ingenuità della formulazione, non mi interessavano, sono vecchio abbastanza da saper guardare oltre la forma, vidi invece con chiarezza ohe quelle righe erano la sua verità e il suo programma, dalla libertà all’amore, dall’amore alla libertà.
ecco: io avrei sconfitto quel programma, da quel giorno mi feci attento al suo rapporto col figlio, osservavo la sua prudenza nel chinarsi o nel sollevare pesi: era premura: era rispetto, la guardavo sceglier un giocattolo, o addirittura un libro: era la gioia di dare, di preparare una gioia.
poi ci furono i sussulti, i calci, i guizzi nel mare cieco dell’utero, ci contavo, contavo sulla consapevolezza di indissolubilità, di indispensabilità: io e mio figlio: mio figlio senza me non vive; non nasce.
pensavo pure alla incomunicabilità di tale esperienza, che rende particolare, pensavo, la posizione della madre, ma,: “senti.., eccolo… senti come batte ii cuore!… un piedino… è il figlio…” chiamava il compagno a partecipare, lo teneva informato dei mutamenti che sì leggeva dentro.
io non mi allontanavo, e continuavo a cercare l’incrinatura. ci furono perfino situazioni in cui mi sfuggiva completamente, devo ammetterlo, del resto, la lealtà mi conviene: è la misura del mio successo, tutte le volte ohe il figlio le compariva come una presenza distinta, collocato ili lei ma pieno di una sua vita, mosso da fini suoi che erano già il segno della sua autonomia…
certo, potevo capire che fosse per lei la verifica della sua teoria sull’amore, ma la qualità della sua gioia la sottraeva al mio controllo, sono rimasto paziente, ad usare piccole cose: le caviglie dolenti e il fiato grosso per le scale, il ventre teso, Ì capelli opachi, e le domande, sciocche soltanto in superficie: ero più bella? tornerò mai come prima? così, attraverso occasioni minute e frammentarie, aprii fessure al rimpianto e avviai la donna sulla strada della rinuncia consapevole, del sacrificio compiuto per l’altro, e che già pesa come un piccolo ricatto.
in questa direzione mi mossi con cautela, e sempre nella luce, dinanzi alla sua figura trionfante, e al palpito robusto che la accompagnava durante il giorno, si sentiva soddisfatta come l’autrice di un’opera grande.
poi, quando all’improvviso il figlio la svegliò premendo, la donna fu invasa da un’emozione nuova finalmente: qualcosa di nascosto, di esclusivo, di cui non parlare con chi le dormiva accanto, inconsapevole, dovetti affrontare il parto, gli spasmi l’afferravano trafiggendola, fuggivo invaso dal terrore, dilagava invece nei brandelli del suo riposo, sempre più brevi, e più vicini. e allora, quasi senza ritegno, le suggerivo il canto della vittoria. “ce la faccio! ancora… ancora… tutto da sola… ce l’ho fatta!” aspettai senza impazientirmi, era spossata, senza pensieri, sentiva solo il mondo galleggiarle intorno, poi le diedero il figlio, umido e tiepido, non pianse, tutto il mondo tra le sue mani, eccola la felicità che brucia come una vendetta… “il figlio! mio figlio!”
avevo vinto, e basta, la mia vittoria si intitola “amore e possesso”, sono maestro di retorica: so essere misurato perciò.
ma le condizioni della mia vittoria mi spingono nella spirale di sempre: ho vinto nella luce, perché? se sono il suo contrario, come ho fatto a venire fuori dalle tenebre? se sono la sua immagine, non sono forse venuto fuori dallo specchio? in conclusione, sono forse riuscito a
dimostrare a me stesso che non esisto?