tentando il cinema
«Quello che vogliamo fare è dare il nostro contributo per chiarire cos’è, se c’è, se si può inventare un cinema femminista, che non sia identificato immediatamente come cinema militante di intervento e di denuncia».
«l’idea di creare un gruppo cinematografico femminista nasce dalla convinzione che le donne debbano appropriarsi di ogni mezzo di espressione e di comunicazione, cinema compreso.,, l’unico modo per sapersi esprimere con la cinepresa è filmare. «Il nostro gruppo vuol essere di “autocoscienza cinematografica”. Vogliamo tirar fuori da noi stesse, insieme, la immaginazione, la fantasia, il nostro modo di vedere e sentire le cose, di comunicare con la cinepresa». Così c’era scritto, fra l’altro, nell’an-nuncio-manifesto pubblicato da due compagne femministe su EFFE di Settembre-Ottobre 1976, con l’intento di formare un gruppo. Il mezzo scelto per imparare a far cinema era il super8, per la relativa facilità d’uso della cinepresa e per la possibilità di realizzare film a bassissimo costo.
Il risultato di questo «annuncio» fu che circa una ventina di donne si ritrovarono insieme a discutere del problema. Le motivazioni che avevano spinto le donne a rispondere erano svariatissime e andavano da un reale interesse per il cinema al voler stare insieme, qualunque fosse il pretesto. Per molte, quella era la prima volta che partecipavano ad un gruppo. Non fu per niente facile arrivare ad una omogeneità e a scoprire cosa fare insieme e soprattutto come farlo. I temi sul tappeto erano molti. Quelle di noi (circa una decina) che erano rimaste dopo le prime caotiche riunioni avevano l’ambizioso progetto di reinventare l’intero modo di fare cinema: ricreare il linguaggio filmico, inventare un cinema femminista. Ma anche scoprire la nostra creatività, conoscere la qualità diversa della sensibilità femminile e imparare a esprimerla per immagini, chiarirsi il timore reverenziale per la tecnica e — soprattutto — pelli TECNICO, chiarirsi quell’impasto di narcisismo e di timidezza che ci fa provare imbarazzo davanti all’obiettivo. Partivano proposte: gruppi di studio, lettura comune dei «testi sacri» del cinema, lezioni di tecnica. Decidemmo che bisognava darsi un ruolino di marcia. Se la nostra voleva essere autocoscienza cinematografica, cioè autocoscienza focalizzata intorno ad un lavoro, avevamo bisogno di individuare un progetto concreto intorno al quale concentrare tutte le altre esigenze e che funzionasse da rilevatore dei problemi reali di ciascuna di noi. Decidemmo di fare un film per documentare l’avvicinamento delle donne — noi — al cinema, il cui filo conduttore fosse, sì, tutta la problematica affrontata nel gruppo, ma che, nella sua struttura, lasciasse spazio all’invenzione, alla gioia, all’ironia di ciascuna di noi.
Il problema fondamentale, naturalmente, era quello di imparare a girare, e a girare bene. Abbiamo scartato subito il metodo di apprendimento tecnico-teorico da manuale: quelle di noi che sapevano usare la cinepresa, insegnavano alle altre, rimandando a più tardi il discorso «teorico». Così, tutte abbiamo girato una bobina di prova, scegliendoci dove e quando girarla, e poi ne abbiamo parlato insieme. È emerso un dato comune: quasi nessuna di noi riconosceva le immagini che aveva creduto di girare. Perché? Perché — abbiamo «scoperto» — la visione dell’occhio è diversa dalla visione della cinepresa. Normalmente abbiamo una visione di campo; con la cinepresa, invece, isoliamo un settore e lo mettiamo in evidenza. L’uso espressivo della cinepresa deriva proprio da questa possibilità-capacità di isolare un particolare, un quadro,. rendendolo significativo. Ma questa possibilità viene solo dopo la perfetta padronanza del mezzo ed una abitudine mentale a «pensare per immagini». Certo, avevamo scoperto la ruota. Quello che ci dicevamo, sorprese ed entusiaste, l’avevamo sentito e detto noi stesse centinaia di volte. La cosa importante e nuova, era che la stavamo verificando in prima persona; era che ciascuna di noi individualmente si impadroniva non solo di una nozione tecnica, ma anche di un concetto, e si impadroniva dell’esperienza di tutte le altre, che mettevamo in comune. Già da questi primi tentativi, poi, era possibile intravedere come ciascuna di noi aveva una sensibilità diversa nel cogliere le immagini: chi preferiva le panoramiche, chi gli effetti creati dal movimento di macchina, chi i giochi di luce, chi si intestardiva su un oggetto, preso e ripreso fino a sezionarlo. E anche questo è stato un primo avvio del discorso sulla scoperta delle proprie possibilità (o tendenze) espressive e sulla espressività, in generale, femminile.
Ad esempio, facendo questo tipo di analisi, ci siamo accorte che molte di noi esitavano a riprendere i volti delle compagne e, dall’altro lato, quelle riprese si sentivano in imbarazzo. In tutti e due i casi c’era un vero e proprio timore di deformare o di essere deformate dalla cinepresa, che per inesperienza non era — diciamo —perfettamente sotto controllo; c’era il timore di scoprire lati che non volevamo scoprire, difetti, espressioni che ci volevamo tenere segreti. Il timore di apparire brutte, o comunque diverse da come ci si immaginava, da parte di chi era ripresa; il timore di svelare la propria aggressività — o semplicemente — la propria curiosità, da parte di chi riprendeva. Analizzando questi fatti è nata l’idea di quelli che noi chiamiamo «i tre minuti». Ciascuna di noi girerà una bobina (che dura infatti tre minuti) ponendosi «davanti» all’obbiettivo con assoluta libertà di comportamento e di gestione: chi vorrà vedersi ballare, ballerà; chi vorrà fare le smorfie, «smorfierà», chi vorrà inventare una scenetta, «scenetterà». Questo per cercare di vincere l’imbarazzo dell’occhio meccanico che ci scruta ed è, in fondo, incontrollabile; che non è come uno specchio, perché non sappiamo che immagine di noi rimanderà finché non avremo visto il filmino. Lo scopo è quello di imparare a conoscere e ad accettare la nostra immagine fisica, il nostro «imperfetto», la nostra realtà di donne che camminano, ridono, giocano o lavorano. E vogliamo farne un mezzo per discutere insieme delle nostre reazioni, sensazioni, esperienze davanti alla cinepresa, creando momenti di autocoscienza cinematografica. Quello che veramente vogliamo fare è dare il nostro contributo per chiarire cos’è, se c’è, se si può inventare un cinema femminista, che non sia identificato immediatamente come cinema militante, di intervento e di denuncia. Abbiamo già fatto delle «uscite all’esterno», nella nostra storia. In occasione della manifestazione promossa da EFFE a dicembre sui giocattoli, per esempio, abbiamo girato alcune bobine, fatto interviste, tutto materiale di cui stiamo decidendo l’utilizzazione. Abbiamo filmato la manifestazione del-l’8 marzo scorso, con l’idea di farne un documento che possa girare nei collettivi, fra le altre compagne, che sia base di discussione e di confronto. Abbiamo in mente di cominciare un volantinaggio sistematico davanti ai cinema che proiettano film offensivi per la donna.
Ma il nostro obiettivo principale è la realizzazione di un film, in cui tentare qualcosa di nuovo, sia dal punto di vista del metodo di lavoro, sia dal punto di vista del linguaggio. Come abbiamo già detto, il filo conduttore del film sarà «il nostro avvicinamento al cinema», cioè tutti i problemi, le discussioni, gli scontri e le esperienze di donne che vogliono impadronirsi di un mezzo espressivo, finora egemonizzato dall’uomo. In mezzo alla descrizione del nostro modo di affrontare queste problematiche ci saranno episodi, flashes, battute, immagini liberamente inventate e coordinate in un tutto organico, anche se non omogeneo dal punto di vista «stilistico». Mentre nasceva il progetto del film, abbiamo scoperto — tutte — di aver una gran voglia di divertirci, di comunicare sorridendo, di denunciare la nostra esclusione non con la rabbia, ma con l’ironia. Stendendo la sceneggiatura di un episodio, per esempio, abbiamo intravisto la possibilità di esprimere con un particolare, con una trovata, anche buffonesca, la pomposità degli uomini che volevano — nel ‘700 — escludere la donna dagli studi e — oggi — vogliono escluderla dal cinema, in breve — sempre — dalla Cultura. Lo sforzo che stiamo facendo è che tutto quanto sia realmente collettivo, che realmente riusciamo ad abbattere i ruoli prefissati nel lavoro da svolgere. Indubbiamente i compiti specifici, all’interno di una singola fase di lavoro, dovranno rimanere (pena non fare nessun lavoro), ma nessuna di noi dovrà trovarsi imprigionata nella sua competenza.
Stiamo scoprendo sulla nostra pelle che non è per niente facile lavorare in gruppo, perché ognuna di noi si porta dentro condizionamenti pesantissimi, perché ciascuna di noi ha la tendenza ad affezionarsi alle proprie idee, quando le propone, perché nessuno ci ha mai veramente insegnato che non ci si deve castrare per lavorare con gli altri. Il lavoro di gruppo di tipo maschile, è basato sul compromesso: io rinuncio a qualcosa, così tu rinunci a qualcos’altro, rinunciamo insieme così siamo tutti contenti. Siamo invece convinte che esiste un punto di equilibrio tra la propria individualità e il gruppo; il gruppo non deve necessariamente negare la singola individualità. Il punto di equilibrio consiste nel sentirsi parte attiva di un processo creativo.
Questo richiede una grossa base di fiducia reciproca, di disponibilità a mettersi in discussione continuamente, di tolleranza. È difficile smantellare ogni volta i meccanismi che ci fissano nei ruoli. Le dinamiche di gruppo, che ricreano continuamente capi e gregari sono complesse e sottili da scoprire. Specialmente nel caso di un lavoro come quello che vogliamo fare, che comporta sia competenze tecniche ben precise, sia capacità creative e inventive.