la famiglia che uccide
abbiamo ricevuto questa denuncia di un gruppo di compagne di Palermo a proposito della morte di una donna, una delle tante, troppe donne che muoiono per la violenza sottile della famiglia e, dopo morte, diventano casi di cronaca, più o meno nera. Basta.
Antonina Sinagra, di 18 anni, è morta il 13 luglio scorso sfracellandosi contro un terrapieno dopo un volo di diversi metri dal tetto della segheria paterna dove lavorava da alcuni anni. Le notizie date da L’Ora e dal Giornale di Sicilia sono state contraddittorie. Mentre le prime notizie parlavano senz’altro di suicidio per un amore contrastato dal timore del padre di perdere un’unità lavorativa in seguito al matrimonio della figlia e della volontà di Antonina di evadere dalla «casa-putìa» (putta = bottega) col matrimonio, le successive informavano che Antonina lavorava come partecipe di un’azienda di tipo cooperativistico e ipotizzavano che non si trattasse più di suicidio ma di fuga e di fatale caduta dal tetto, e cioè che l’intenzione di Antonina era quella di liberarsi della famiglia paterna allontanandosene e non andando incontro a morte deliberata. Per la stampa le ragioni della fuga sono riassunte in formule quali «ridda dì domande senza risposta». Le compagne di Palermo, invece, riflettono sul fatto che le risposte alla morte di una donna ci sono sempre ed hanno un particolare contenuto.
Sul suicidio o «fatale disgrazia» di Antonina Sinagra, di cui hanno parlato i giornali, noi donne in lotta contro il sistema patriarcale-capitalista vorremmo fare delle riflessioni e porre degli interrogativi, perché, quale ohe fosse l’intenzione ultima di Antonina — fuggire o morire — possiamo sempre e ben a ragione pensare che la causa determinante di una tale intenzione ha un solo preciso nome: condizione femminile.
Anche ammesso (ma abbiamo molti dubbi), come successivamente è stato detto, che Antonina fosse considerata operaia e compartecipe dell’azienda familiare a tutti gli effetti legali in un’attività di tipo cooperativistico e che quindi godesse degli utili e avesse tutto quello ohe le spettava dal suo pesantissimo lavoro, aveva lei oltre l’indipendenza economica l’autonomia di vita a cui aveva diritto?
Esprimiamo molte perplessità di fronte alle ultime notizie che non parlano più di sfruttamento diretto di Antonina sul lavoro esterno (meno che mai del suo sfruttamento comunque come casalinga, «operaia della casa») da parte del padre-padrone. Non si era fatta l’ipotesi che il padre-padrone temesse di perdere in seguito al matrimonio della figlia un’unità lavorativa che gli sarebbe costata molto di più se sostituita con un elemento estraneo? Ma a parte questo noi vogliamo chiederci: aveva Antonina liberamente scelto questo genere di lavoro, questa sua vita? Nessun condizionamento psicologico aveva esercitato la famiglia perché lei accettasse quanto le veniva proposto o imposto? In che cosa lei aveva potuto assecondare l’istinto di libertà — l’istinto che è in ogni essere — a voler decidere di sé? Forse lo aveva assecondato lavorando tra la polvere, i rumori, i trucioli della. sua segheria negli anni più belli della sua vita?
Vorremmo poi avanzare forti critiche nei riguardi di chi ancora dinanzi al cadavere di una ragazza di diciotto anni osa parlare in termini borghesissimi (sia pure riferendo la voce popolare di parenti di Antonina) di «ragazza a posto», «gran lavoratrice», «tutta casa e putìa», di famiglia unita, i cui membri non hanno il tempo di litigare perché tutti pensano a lavorare lavorare lavorare… e dove tutto si svolge sempre nel rispetto del padre. Ma non può essere stato proprio il contenuto di tali espressioni — quando in esso e solo in esso si riassume la vita di una ragazza — a determinare la tragedia di Antonina che aveva invece diritto a godere senza troppi pesi della sua giovinezza? Quale è stata la sofferenza di Antonina che, giovanissima, ha subito la doppia violenza di un doppio lavoro?
Quanto alla «ragazza a posto» secondo valori patriarcali, borghesi, clericali, valori che sono sempre stati quelli che hanno portato le donne al manicomio o al suicidio o comunque a indicibili sofferenze, i signori giornalisti non hanno nessuna critica da fare? Potrebbero, se avessero accettato o compreso qualcosa dell’ideologia e della lotta femminista, dire che «ragazza a posto» singnifica: sul piano sessuale ferocemente repressa. E anche dietro il mito dell’unità della famiglia di Antonina o della famiglia in generale non si nasconde la feroce oppressione, repressione, compressione dei membri di essa, ma soprattutto dei membri femminili, nell’interesse del padre-padrone?
In tutta la vicenda di Antonina, quella che fondamentalmente fa spicco è la figura del padre-patriarca che impersona il principio d’autorità e che a noi femministe spiega tante cose. Quanto alle liti tra sorelle, si tratta sempre dell’antica rivalità fra gli oppressi, voluta e provocata dai padroni, i quali sanno bene che invece la solidarietà fra gli oppressi può diventare spirito di unità rivoluzionaria per scalzarli dalle loro posizioni di potere. Noi dunque avanziamo l’ipotesi che Antonina sia morta appunto perché «gran lavoratrice», «ragazza a posto», «tutta casa e putìa», tutte»cose che le impedivano di vivere in totale padronanza di sé la propria vita, gioiosamente, espansivamente.
C’era in vista, questo sì, il matrimonio per Antonina (anch’esso destinato a rivelarsi col tempo un inganno) e la liberazione dalla famiglia paterna poteva non essere troppo lontana, ma forse la sofferenza era tale che lei non se la è sentita di aspettare ancora, di resistere.
Noi siamo convinte ohe per essersi voluta allontanare dalla famiglia paterna — con la fuga o con la morte — Antonina sia appunto vittima della famiglia, che nasconde la sua violenza e la sua natura di puntello del potere, ammantandosi dell’ideologia dell’amore, dell’affetto, della protezione, e dietro la cui «sacralità» si nasconde la brutalità dello sfruttamento, dell’oppressione, della negazione della donna. E se invece Antonina fosse morta per qualcosa collegata al suo amore per un uomo, collegata all’Amore? Anche in tal caso noi sappiamo che il mito dell’Amore è stato il mito per eccellenza, che meglio di ogni altro è riuscito e riesce (vedi stampa femminile, fotoromanzi, eccetera) a condizionare la donna per meglio farla cadere nella trappola del matrimonio. Senza considerare che anche nel campo dell’amore le contraddizioni tra vecchi tradizionali modelli e modelli della società consumistica possono provocare profonde crisi in donne che stanno cercando di raggiungere piena consapevolezza di sé e dei loro diritti.
Contro la repressione e la violenza dello Stato e degli uomini, in tutte le sue forme, noi donne, che abbiamo preso coscienza del tragico gioco che nei millenni l’uomo ha giocato sulla nostra pelle, lottiamo e continueremo in modo sempre più organizzato ed efficace perché non ci siano più vittime come Antonina Sinagra, Barbara Poli, Claudia Caputi, Maria Di Carlo, Maria Gatto, Cristina Simeoni, Donatella Colasanti, Rosaria Lopez, e tutte le donne sconosciute la cui storia è calpestata, ignorata, stravolta dalla cultura patriarcale-capitalista.
Dietro il mito della famiglia si nasconde la feroce oppressione, repressione e compressione dei membri femminili nell’interesse del padre-padrone.