femminismo

care compagne

Pubblichiamo le riflessioni di una nostra compagna sulla crisi che il movimento sta attraversando.

settembre 1979

da un anno penso di scrivere questa lettera e da un anno rinvio. Un’esitazione di per se stessa sintomo dello stato dei nostri rapporti, segnato dalla diffidenza e dalla paura di rivelarci le une alle altre. Questa reticenza, a sua volta, è insieme indice ed effetto della fase di stagnazione dogmatica che ha raggelato, negli ultimi anni, il movimento.

Ci sono stati tempi, soprattutto all’inizio del femminismo, in cui nessuna di noi temeva di essere ‘frequentatrice dell’eresia. Ricordo il modo in cui fu scritto, nel luglio di nove anni fa, il manifesto di ‘Rivolta femminile’; una specie di fuoco d’artificio di pensieri, sentimenti, sensazioni da sempre inespressi o trattenuti, un’esplosione liberatoria, uno dei rari momenti in cui, davvero, la immaginazione è andata al potere (potere, se non altro, di creare una nuova visione di noi stesse).

Lungi da me l’intenzione di mitizzare lo ‘stato nascente’ del movimento, di indulgere nel ‘come eravamo’. Tuttavia è fuori dubbio che questa voglia di scardinare i modelli, di andare all’assalto dell’ideologia dominante abbia costituito uno dei pilastri portanti del femminismo. Dopo dieci anni, con amarezza, sono costretta ad ammettere che anche noi siamo cadute nella trappola di trasformare la nuova eresia in nuova ortodossia. Distrutto, o perlomeno incrinato, il modello di donna tradizionale ci siamo trovate a sostituirlo, senza volerlo, con un altro, non meno esigente ed esclusivo, della ‘femminista militante’.

Non sono d’accordo con il modo in cui Maria Antonietta Macciocchi ha gettato in faccia alle cosidette ‘femministe storiche’ — etichetta che tra l’altro ci hanno appiccicato dall’esterno e in cui nessuna di noi, credo, si è mai riconosciuta — le sue astiose critiche. Tuttavia non si può darle torto quando scrive che “l’intolleranza del neocentralismo democratico femminista è un altro muro che si frappone davanti alla realtà”, che il femminismo “ha ormai i suoi mausolei, le sue profetesse, le sue segretarie generali, il suo corredo di tribunali per punire con accuse infamanti chi dissente”. Ognuna di noi ha, a questo proposito, ricordi ben più agghiaccianti di quelli tragicomici della Macciocchi-alle-prese-con-la-Cambria-ladra-e-cattiva, sbandierati ai quattro venti sull’Espresso.

Non è giusto farne — come la scrittrice radicale — la sola chiave di lettura di un movimento complesso e degno di essere interpretato attraverso ben altri segni, ma è innegabile che molte nostre riunioni assomigliavano pericolosamente a rituali della Santa Inquisizione, ogni compagna trasformata in ringhiosa guardiana della ‘virtù femminista’ di ogni altra. Il collettivo, strumento della nostra vicendevole scoperta e accettazione, è in troppi casi diventato il luogo in cui applicare con accanimento i meccanismi della censura e dell’autocensura ideologica.

All’internò dei collettivi e tra i gruppi, si è andata formando una gerarchia mai apertamente riconosciuta — ma quanto ingombrante nei fatti! — basata sul modello della ‘vera femminista’ in omaggio al quale ogni gruppo ha operato la divisione tra femministe di serie A e B, tra le ‘vere compagne’ e quelle che tutt’al più potevano sperare di iscriversi all’Udi. La classificazione e riclassificazione di questi ‘gironi del femminismo’, la ricognizione quasi ossessiva di questo universo chiuso, divenuto per alcune il solo universo, ha distorto molte delle energie vitali del movimento da attività più costruttive.

Il meccanismo del “io sono più femminista di te”, la mania del purismo ideologico per cui nessuna azione mai può andar bene perché in nessuna può mai riflettersi l’ideologia nella sua interezza, l’esasperazione dell’egalitarismo, inteso come censura di qualunque deroga individuale al sentiero tracciato collettivamente sono stati tra i fattori principali che hanno rinchiuso il movimento nell’immobilismo dogmatico.

Stare a polemizzare con le femministe storiche cattive, come ha fatto la Macciocchi, mi sembra inutile. Utile è invece cercare di capire quali sono i meccanismi che trasformano i processi di liberazione in nuove occasioni di costrizione, che a nostro dispetto assicurano la ricostituzione dei ‘modelli’, che riducono una vasta, nuova visione del mondo ad un dogma soffocante. E’ questo un problema che riguarda tutta la sinistra, tutte le ondate rivoluzionarie della storia.

A conti fatti, il movimento delle donne è maggiormente in grado, rispetto agli altri della sinistra, di superare questo processo. Non solo perché meno impedito dai lacci della istituzionalizzazione, ma perché, avendo integrato il privato e il politico, subisce meno degli altri la tentazione di separarsi dalla realtà per forzarla ad adeguarsi a una ideologia precostituita. In un certo senso e il movimento più laico dell’intera sinistra: vittoria non da poco, in una tradizione impregnata di cattolicesimo come la nostra, dove anche chi si definisce “rivoluzionario professionista” (vedi i gruppi terroristici) non sa fare a meno dei suoi sacerdoti, dei suoi martiri, del ‘verbo’.

Ed è il più laico proprio perché legato più d’ogni altro al quotidiano, alla trama del vissuto che sempre elude, e grazie a Dio, sopravanza, la rigidità degli schemi ideologici. Tuttavia non abbastanza laico: perché non sta sospeso in un limbo ed è quindi contagiato dai residui del cattolicesimo da un lato e dalle tentazioni ideologizzanti della sinistra dall’altro. Ne sono una riprova l’intolleranza per ‘la diversa’, la degenerazione della militanza in donazione di sé alla causa, l’ansia di ricostituire il reale frantumato e contraddittorio in un’unica, rassicurante ideologia.

A questo bisogna aggiungere il difetto tipico della generazione nostra, nata alla politica nel ’68: una certa ingenuità storica, che ci ha fatto credere che la rivoluzione fosse a portata di mano e che i cambiamenti fossero più rapidi e lineari di quanto si siano rivelati. Certo è meglio peccare d’ingenuità che di rassegnazione o arroganza, come è stato per altre generazioni, ma a lungo andare anche l’ingenuità diviene complicità e le velleità rivoluzionarie finiscono con il favorire la reazione, non i mutamenti profondi e duraturi. I fatti ci hanno reso più sobrie e, se non hanno oscurato la volontà di lotta, hanno certamente ridimensionato i miti su cui si era innestata nel ’68. Personalmente, non mi sento orfana di questi miti, infranti od offuscati dagli avvenimenti di questi ultimi anni. Penso anzi che sia tempo di sbarazzarsi anche degli ultimi rimasti e ‘tramandati’ al movimento femminista: in particolare: la innocenza storica degli oppressi (vedi Vietnam) che nel femminismo è diventato innocenza storica delle donne e l’egalitarismo a tutti i costi che è diventata negazione delle responsabilità individuali, abdicazione al collettivo all’ombra di una ambigua sonorità. Mi pare che su questi temi sia cominciata la riflessione, ma non so quanto sia andata avanti perché manco da un anno dall’Italia.

Un’ultima considerazione: i giornali parlano di crisi del movimento, ci danno per risucchiate nel riflusso. Crisi c’è, ma con buona pace di chi, come la Macciocchi, indulge nella visione della femminista storica che torna a casa, deposita le bandiere e rivaluta il privato (“ses petìtes affaires”, scrive) non abbiamo optato per il pensionamento politico anticipato. Il fatto che molte si siano allontanate dai collettivi — chi per fare un figlio, chi per studiare, chi per stare un po’ in santa pace — è dopotutto un segno di sanità mentale. Per molte il gruppo non era un luogo vita le, di crescita, di piacere: perché restarci, per salvare quale faccia, per ingannare chi? Prendersi una tregua dalla militanza, rigettandone i lati patologici, non equivale automaticamente a riporre nell’armadio il femminismo per tirarne fuori le gonne con lo spacco e la sbiadita chincaglieria della femminilità tradizionale. Se è vero che, come scrive la Macciocchi nella prefazione al suo libro “Les femmes et leurs maitres” siamo ormai al post-femminismo (affermazione non nuova, perché ricordo una discussione ad Effe un anno fa sull’argomento) — non è il caso di celebrare funerali troppo precipitosi. Se il femminismo prima maniera ha esaurito il suo compito storico, siamo in grado di prenderne atto senza spargere lacrime sul suo declino. Perdere l’etichetta di femministe storiche non ci rattrista anzi ce ne sbarazziamo con sollievo. Ci interessa mantenere viva la nostra coscienza, insieme
alle altre donne, nelle nuove forme che con tutti i nostri limiti e cori tutte le difficoltà oggettive ci inventeremo strada facendo.