un 8 aprile difficile
di fronte allo scontro con le istituzioni ancora una volta il movimento si è lasciato fagocitare da una logica partitica…
il convegno su aborto, self-help e anticoncezionali di gennaio e febbraio scorso aveva trovato una chiara espressione politica nel documento unitario finale che confermava la volontà delle donne di rifiutare qualsiasi legge sul proprio corpo.
L’8 marzo il movimento delle donne scende in piazza, pur con le proprie differenze, compatto come movimento in lotta, rivendicando la propria esigenza come forte presenza politica.
Il convegno sulla violenza di fine marzo ha rappresentato un momento di aggregazione politica, il bisogno di confronto disancorato da qualsiasi scadenza imposta dall’esterno, l’esigenza interna di memorizzare collettivamente i propri vissuti e le proprie analisi, la volontà di costruire insieme le date della nostra storia. Fin da allora la stampa ne proiettava all’esterno l’immagine di un movimento violento e proponeva al di fuori soltanto la commissione «violenza tra donne». Il bisogno del movimento di essere sempre dialettico con se stesso, di privilegiare il rapporto di donne tra donne, l’intelligenza critica di riprendere le fila da «donna è bello» viene stravolto come disconoscimento della propria storia, come acquisizione di una sconosciuta coscienza violenta.
La discussione e la successiva approvazione alla Camera della mistificante legge sull’aborto ripropone violentemente al movimento i tempi esterni delle istituzioni e ne accelera lo scontro.
Scendere in piazza, manifestare il proprio dissenso, rivendicare l’esistenza della propria presenza politica è il bisogno delle donne che si sentono truffate da questa brutta e mistificante legge maschile. Ma la tensione, fin dalle prime riunioni, è tanta e pesa per intero su tutte. ‘Le assemblee si susseguono e l’una sembra voler cancellare l’altra. Le differenze ci sono, si vedono e ci sono sempre state ma mai come in questo momento la stampa se ne appropria, le ingigantisce, le strumentalizza. Un movimento gruppettaro, violento, arroccato su dicotomiche posizioni con schieramenti già ben definiti: ecco quello che i giornali tutti riportano.
Il giorno del’8 aprile il gioco era già chiaro ma forse la carenza di analisi, la rabbia per la svendita delle donne, l’impegno politico di anni stracciato e calpestato dalla logica partitica parlamentare (di uomini e di donne!) hanno fatto sì che le donne comunque scendessero in piazza non avendo ancora provato sulla propria pelle come in questo momento politico non è lasciato passare alcun proponimento in positivo, come tutto venga inglobato in una logica di «pro o contro», in una logica di schieramento. In questi momenti in cui il Governo fortissimo (perché mai come ora è sostenuto da una granitica forza di appoggio come quella dei partiti della «larga intesa a 5») porta avanti soltanto la lotta al terrorismo e l’attività parlamentare, noncurante di qualsiasi bisogno emergente dal basso, produce leggi e decreti a ritmo incalzante con il solo scopo di tamponare le date dei referendum, le donne non hanno avuto ben chiara quanta possibilità di strumentalizzazione fosse dentro la lettura delle loro diversità, dentro le difficoltà di crearsi collettivi strumenti di comunicazione e quanto fosse invece facile che tutto ciò che non si lasciava inglobare nella logica degli schieramenti venisse considerato destabilizzante, lacerante, «fiancheggiatore». Di fronte allo scontro con le istituzioni, ancora una volta, il movimento si è lasciato fagocitare da una logica partitica e maschilista: la lotta per la «testa» del corteo è passata come il contenuto del corteo stesso mentre i veri contenuti erano completamente snaturati, ignorati. Soltanto 2 schieramenti: pro legge; pro referendum. La lettura politica di quella presenza di donne in piazza fu stravolta da un contendersi la testa del corteo in una scadente ottica cattolica dove il sacramento ha di diritto la testa della processione e la massa informe la coda. Ma quale allora il senso e le lotte del movimento per rivendicare per ogni donna il diritto di essere soggetto politico attivo se poi proprio la logica partitica dei maschi (così vecchia e così noiosa) ha facilmente il sopravvento, se poi la propria rappresentatività politica non è più l’essere fisicamente in piazza, in qualsiasi posto del corteo, ma viene delegata allo striscione di apertura? Il gioco del «divide et impera» è vecchio ma trova ancora spazio per riuscire vincente. Che dire poi del ruolo di compagne (storiche e non, di partito e non) che arrivano solo in occasione di scadenze politiche (quelle con la P maiuscola per intenderci) e che mai si vedono impegnate nei confronti quotidiani di pratica femminista? Attribuire loro solo un’azione di «gestione» o il ruolo di mediazione, di ponte tra il movimento delle donne e i loro partiti? Identificare le aree contrapposte con i gruppi più facilmente riconoscibili (MLD o il Collettivo consultori di S. Lorenzo) come protagonisti della diaspora in una concezione manicheistica della realtà (le buone e le cattive) ha significato ignorare il progetto politico dentro il quale il movimento si muove, cancellare la pratica self-help che è patrimonio comune e incontestabile di tutto il movimento. Ma evidenziare queste cose avrebbe significato dare omogeneità ad un corpo che in quel momento i giochi politici volevano diviso a tutti i costi Ma il bavaglio continuava ad essere imposto a chi ancora osava dissentire nonostante la stanchezza e le frustrazioni del fatidico sabato 8 aprile e progettava uno spettacolo teatrale itinerante nel centro storico, utilizzando uno dei più vecchi canali di dissenso l’espressione teatrale. Non appena le compagne cominciano ad affluire a San Cosimato la polizia interviene procedendo al fermo di 12 compagne’ che vengono «accompagnate» al commissariato per accertamenti. Vivere e dissentire in una città come Roma diventa sempre più difficile e questo lo sapevamo, ma quello che pesa e addolora è stato il fatto di consentire agli organi di potere di usare e strumentalizzare la rabbia delle donne dentro il movimento contro il movimento. Le piccole sterili vittorie non giovani a nessuno e tanto meno alle donne ma solo a chi ci ha sempre oppresso e a chi ci ha sempre diviso, Partire dalle diversità non può avere il significato di arroccarsi su contrapposte posizioni di immobilismo ma muoversi dentro una unica progettualità alla ricerca di nuovi strumenti di lotta.