l’Europa può cambiare?
Pubblicando questo articolo di Ursula Hirschmann Spinelli; abbiamo l’opportunità di aprire un dibattito sulla partecipazione della donna alla vita politica (in generale e al disegno politico europeo in particolare). La donna «deve» fare politica per difendersi dalle strutture esistenti, o per crearne di nuove? La politica europea può essere una «occasione»? Ma, soprattutto, come la donna «deve» fare politica?
Iniziata da tempo ed esplosa clamorosamente nel 1974, la crisi europea ha pesato su di noi da allora. Dopo tanti sforzi e attese, dopo tante dichiarazioni altisonanti, è stato sufficiente che i paesi produttori di petrolio additassero l’Olanda come l’ultima della classe, perché l’Europa intera cominciasse a tremare. Non si è parlato più di unità, né di solidarietà: guai a pronunciare queste parole utopiche e pericolose! La parola d’ordine del 1974 è stata il «pragmatismo»; e all’insegna del pragmatismo si è avuto il silenzio, la fuga, il compromesso, l’improvvisazione e, da ultimo, sogni di impossibili ritorni al nazionalismo. Molte di noi per pura coincidenza hanno vissuto nello stesso periodo la scoperta della battaglia per la liberazione della donna, che, nella sua vivacità, strideva con la stanchezza e il grigiore della politica europea dove ovviamente — come in tutta la politica — le donne sono assenti. La liberazione della donna con il suo slancio innovatore era all’opposto del ripiego accompagnato da cattiva coscienza che i nostri governanti hanno adottato verso i vecchi schemi di un nazionalismo j anacronistico. Ed è proprio da questo contrasto tra la forza dirompente della nostra presa di coscienza e una politica del tutto priva di «grande disegno» che dovrà nascere la nostra partecipazione diretta alla (vita) politica.
La crisi europea è una crisi profonda di civiltà perché ha in se il germe della restaurazione dei regimi autoritari, della prevaricazione della (forza sulla giustizia: e saremmo noi le prime vittime di questo processo degradante perché le nostre conquiste sono recenti e incomplete e, quindi, più fragili. Proprio questo ci incita a forzare le tappe successive della nostra liberazione: individuale, economica, sociale, per impegnarci direttamente nella lotta per la conquista del potere nella nostra società, in ogni sua forma, per influenzarla, trasformarla, cambiarla; per darle, cioè, una dimensione umana secondo il nostro modo di pensare. Parafrasando Clemenceau, pensiamo che la politica sia troppo importante per lasciarla nelle mani dei soli uomini. Incontreremo molti ostacoli su questa strada che non riusciranno, però, a scoraggiarci. Esaminiamoli attentamente, perché sono strettamente legati alla natura stessa dell’azione pubblica delle donne.
Innanzitutto incertezza tra noi stesse.
Molte donne si sono installate nella liberazione individuale trovandovi finalmente il loro giardino felice al cui interno possono vivere senza costrizioni e diffidenze. Far politica significherebbe doverne uscire e misurarsi con le forze ostili. Ho ancora viva nella memoria l’esclamazione di una donna, assai consapevole della sua libertà, la quale, pur asserendo di essere profondamente antinazionalista, lanciava questo grido: «Non parliamo, per carità, di strutture politiche, nazionali o eurasiano! Esse soffocano ogni che cosa».
Ma disinteressarsi delle strutture vuol dire continuare a vivere in quelle esistenti. Rifiutandole non le si fa certo scomparire: semplicemente vorrà dire che saranno solo gli uomini a gestirle, a mantenerle in vita, a modificarle o a cambiarle; a restare, cioè, i padroni assoluti di quel che è loro opera nel senso più assoluto, i nostri Stati.
Lo Stato, o per meglio dire lo Stato-Nazione, è, da un secolo a questa parte, una struttura estremamente costrittiva delle nostre esistenze. Nel suo ambito si sono sviluppate feroci oppressioni interne (fascismo) ed esterne (imperialismo). Possiamo limitarci ad opporre a queste strutture — ormai fatiscenti ma tuttora in vita e pronte a soffocarci nuovamente — un «sentimento» antinazionalista per quanto forte esso sia? Sarebbe ingenuo. Bisogna invece creare nuove strutture adatte a canalizzare le nuove esigenze, strutture che producano il sovranazionale (le strutture esistenti, invece producono il nazionale). Solo così il sovranazionale potrà nascere e non sarà il prodotto effimero di una ventata generosa, ma una realtà irreversibile, fonte di civiltà. Come riuscire a creare queste nuove strutture? Di questo si potrebbe parlare un’altra volta.
Incontreremo altri ostacoli sul cammino della nostra impresa di coscienza politica. Esiste l’illusione del «prima» e del «dopo». L’idea del «prima occupiamoci soltanto della nostra liberazione individuale», «formiamo prima delle coscienze» sta all’inizio di ogni processo di liberazione. (I primi gruppi operai organizzati hanno pensato di lottare solo per il miglioramento delle loro condizioni di vita e i negri, all’inizio della loro presa di coscienza hanno pensato soltanto ai loro diritti civili). I primi hanno lasciato la gestione del potere in mano alla borghesia ,i secondi ai bianchi. Si tratta di forme di timidezza ancora fortemente radicate in tutte noi. Prima di deciderci ad agire politicamente vorremmo imparare sempre e sempre di più, comprendere sempre meglio, avere a disposizione tempo supplementare per accumulare conoscenze e raggiungere una maggiore maturità… E nel frattempo diventiamo madri e nonne! Quel grande antifemminista che era San Paolo parlava con disprezzo delle «femminucce che apprendono in continuazione e non pervengono mai alla conoscenza».
Impariamo dagli uomini che dai 30 anni in poi si buttano a giudicale le situazioni (senza limitarsi a rifletterci su), e decidono senza preoccuparsi se le loro informazioni siano complete o no, commettono errori su errori per poi correggerli di volta in volta: in una parola agiscono. Comportiamoci allo stesso modo, ne abbiamo il diritto e il dovere, proviamo il coraggio di giudicare, di agire, di commettere gli errori necessari.
Una ulteriore resistenza ci verrà da chi vorrà spiegarci come inserendoci nella politica, sia inutile restare unite in quanto gruppo di donne; che ciò era utile e necessario per le nostre lotte di liberazione femministe ma che non ha più senso quando si tratti di affrontare problemi comuni sia agli uomini che alle donne, come per esempio il socialismo, l’Europa politica o altro. Il ragionamento non torna: basta constatare il ruolo sporadico e subalterno che le donne svolgono nelle battaglie politiche per convincersi della necessità di restare organizzate come gruppo di donne. I meccanismi attuali dei partiti dei movimenti politici — sia di destra che di sinistra — funzionano, come ogni altro organismo, in direzione di una fortissima selezione maschile. Del resto tutte le nostre battaglie provano che soltanto restando unite costituiamo una forza e possiamo pretendere la parte di diritto o di potere che ci spetta.
Infine dobbiamo scegliere con una certa abilità quali potranno essere le nostre prime azioni politiche. La battaglia per l’unificazione politica dell’Europa potrebbe essere una occasione importante ed esemplare per le donne. Considerandone i ritardi e gli ostacoli si arriva in effetti a constatare che questa costruzione può essere veramente voluta e realizzata solamente da forze innovatrici. Inoltre la battaglia per una Europa politica è ancora aperta, duramente contestata dai detentori dei poteri nazionali: si tratta di una battaglia in cui le posizioni non si sono ancora cristallizzate, i cui meccanismi non sono ancora ben definiti; elementi, questi, che possono tornare a svantaggio, ma anche a favore, delle forze politiche che vi si vogliono cimentare. Quale migliore occasione, per le donne, di impegnare le loro energie per una reale democratizzazione dell’Europa?