intervista con una giornalista cattolica
Nicoletta Roscioni è cattolica, redattrice delle riviste «Quale società» e «Com», studiosa da molti anni di problemi di teologia. Dopo aver ricevuto il suo articolo in redazione abbiamo voluto rivolgerle alcune domande sulla posizione della donna cattolica in Italia. L’intervista è stata condotta da Adele Cambria.
Adele. Le donne italiane, cattoliche se non altro per battesimo al novanta per cento, come si pongono rispetto all’aborto?
Nicoletta. Io mi sono domandata perché su questo tema, sul quale come abbiamo visto si sono pronunciati episcopati e teologi, le donne cattoliche si sono fatte ascoltare pochissimo. Adele. Probabilmente perché, come dovunque, anche, quindi, nelle organizzazioni cattoliche, hanno meno potere degli uomini, meno diritto a parlare. Nicoletta. Credo che su questo non vi siano dubbi. Vi è però un’altra considerazione da fare. Credo di poter dire con una certa sicurezza, anche per quella esperienza che ho del mondo cattolico, del ‘ vissuto ‘ della parrocchia ed anche delle strutture ecclesiali stesse e delle comunità di base, credo di poter dire che vi è una sostanziale differenza di comportamento tra la donna operaia, proletaria o contadina, e la donna del ceto medio: la donna proletaria l’aborto lo ha sempre fatto, perché non ha avuto mai scelta: e la donna proletaria non si fa problemi di dottrina. Anche quella che va spesso in chiesa, che fa fare con grande sforzo di cerimonia la prima comunione ai figli, anche questo tipo di donna, se le si fa osservare che la Chiesa proibisce l’aborto, al limite ti risponde: «Come è possibile che la Vergine madre non mi capisca, che sono stata obbligata a buttare via questo figlio, perché ne avevo già sette o dieci, perché mio marito è invalido ecc.». Adele. Però credo che un sentimento di colpa, per avere abortito, anche la donna che, diciamo, si riposa nella Vergine-Madre, lo interiorizza. Ricordo l’angoscia di una donna di fatica, calabrese, che mi raccontava d’avere avuto 17 figli, diciassette gravidanze, perlomeno, e che per cinque aveva abortito. Ora il primo figlio, maschio, quello che avrebbe dovuto cominciare ad aiutare la famiglia, si era ammalato di tubercolosi renale, e lei mi diceva: È colpa mia, me lo dice mio marito che questa malattia è il castigo del Signore perché ho fatto cinque aborti.
Nicoletta. Chiaramente si trattava di un sentimento di colpa indotto dal marito, per scaricarsi del proprio rimorso di averla messa incinta diciassette volte. In ogni caso non bisogna dimenticare che la Chiesa si è pronunciata in maniera non-permissiva, e dura, sul tema dell’aborto, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. È evidente quindi che la maggior parte delle donne proletarie, le quali sono certo prive di una informazione precisa su encicliche e pastorali (al massimo la predica del parroco) se vanno a messa la domenica, sono quindi non informate della svolta e abituate a fare come hanno visto fare le loro madri e le loro nonne: cioè ad abortire, senza che gli venga in mente che c’entri il parroco. La situazione è diversa per la donna del ceto medio, la quale è più informata, ha ricevuto in genere, nell’infanzia, un minimo di istruzione religiosa, e quindi non può chiudere gli occhi davanti al divieto… Adele. Però è anche quella che alimenta il mercato abortista dei ginecologi da duecentomila in su. Nicoletta. Io credo che su questo problema ci sia una vera e propria scissione, di cui è principalmente responsabile la cultura del mondo cattolico negli ultimi trent’anni. L’enciclica Hu-mane vitae ha provocato un fortissimo trauma nel mondo cattolico: questi temi degli anticoncezionali, delle pillole, della maternità, che non era mai stato posto fino allora in termini così drastici, anche se poi l’enciclica stessa ha subito diverse interpretazioni, ha gettato nella disperazione moltissime donne, che non hanno più trovato nessuna possibilità di accomodamento con la propria coscienza, diciamo, di praticanti: vietati gli anticoncezionali, vietato l’aborto… Non voglio dire con questo che non fanno più l’aborto, o non prendono la pillola, ma vivono in uno stato conflittuale, di cui è la dottrina cattolica la principale responsabile, come è l’insegnamento cattolico che deve essere chiamato in causa. Per cui sarebbe necessario che i pastori, cioè in definitiva i parroci, affrontassero il tema dell’aborto dal punto di vista delle donne, in un colloquio con le donne: che le donne cattoliche portassero questo tema nella loro comunità, si confrontassero coi pastori e tra loro, oltre che con chi ha affrontato il tema da una posizione laica: giuristi, sociologi, medici ecc. Adele. Si può a questo punto dire che la donna di tradizione cattolica, la donna italiana quindi certamente, preferisce la estrema risorsa dell’aborto piuttosto che un ricorso programmato agli anticoncezionali ?
Nicoletta. La questione della pillola è più seria di quanto non appaia a prima vista. Mi spiego. Non solo in Italia ma anche in Francia le donne % non vogliono prendere la pillola; e, in quest’ultimo paese le statistiche sono impressionanti. Solamente il sei per cento delle donne fa uso di questo mezzo anticoncezionale. Come mai? Può bastare dare la colpa solo all’ignoranza, ad informazioni sbagliate, alla mentalità più o meno retrograda dei medici? Non lo penso davvero. In realtà il problema è più complesso. Solamente pochi anni fa il Concilio Ecumenico Vaticano II ha affermato che il rapporto sessuale non è esclusivamente finalizzato alla procreazione, ma rappresenta un fattore fondamentale per l’unione della coppia e per la sua crescita fisica e morale. Se questo è vero, se cioè la Chiesa ha affermato che la sessualità in sé è un valore essenziale per l’amore tra i coniugi, non ci si deve dimenticare che noi viviamo in paesi dove tradizionalmente è vero il contrario: cioè pesavano e pesano ancora non solo tutti i pregiudizi intorno alla sessualità, ma anche la sua negazione come valore e il continuo tentativo di relegarla nel vasto mondo del peccato. Questo capovolgimento di mentalità sarà dunque lungo a verificarsi, anche se la società cammina oggi con gambe più veloci. Adele. Allora tu pensi che il comportamento della donna che non vuole prendere la pillola e preferisce abortire «quando accade l’irreparabile», dipenda dalla non rimossa identificazione sesso-peccato.
Nicoletta. Prendere la pillola ogni sera (sempre che non vi siano controindicazioni mediche determinate) significa forse dover fare i conti ogni sera con la propria sessualità; significa ammettere davvero che questa non è solo finalizzata alla procreazione ma che va vissuta anche come valore autonomo di crescita e di felicità; significa ammettere che il piacere e la gioia, che dal rapporto sessuale derivano, sono fatti positivi e che la ricerca di quel rapporto al fine della gioia reciproca è ratto non solo legittimo ma buono in. Credo che ogni donna, anche quella che crede di aver saldato questi conti, debba inconsciamente combattete un pochino per questa conquista morale. E allora accade spesso che ‘aborto sia meglio della pillola: i conti con la propria sessualità si fanno una volta ogni due, tre anni e inoltre l’aborto rivestirà anche l’aspetto di una più severa autopunizione.
Adele. Ma tu, abortiresti? Nicoletta. Non nascondo che rispondere in modo direi «privato» mi richiede un certo sforzo e un pochino di coraggio… Per quanto riguarda la mia opinione sulla revisione della legge sull’aborto, non credo di avere dubbi. Questa legge va rivista: sono favorevole ad una depenalizzazione possibilmente fatta in istituti pubblici. Per quanto riguarda il fatto poi se io abortirei, credo che affronterei la cosa in questi termini di fronte ad una gravidanza indesiderata: prima di tutto farei «un esame di coscienza» del perché io mi sia trovata in questa situazione; affronterei tutti gli aspetti del problema, i miei rapporti con la famiglia, il partner, gli altri figli già esistenti, la mia vita sociale e di lavoro, e anche le mie scelte ideali politiche e religiose. Se infine, compiuto questo non facile esame e questa non facile verifica, (anche dei motivi inconsci che mi hanno fatto compiere errori di calcolo), decidessi- che è assolutamente e gravemente necessario interrompere la gravidanza cercherei di farlo il più presto possibile, possibilmente nelle prime due settimane. Comunque, una volta che mi fossi risolta a questa scelta che considero sempre dolorosissima e amara, anche se non ne voglio enfatizzare il «dramma», dovrei però sempre considerarla di fatto una sconfitta penosa, una «regressione» per quanto riguarda la mia capacità di dominare la realtà senza violentarla. Ecco, ho trovato la parola: un fatto che vivrei comunque come una violenza, anche se ne sono io stessa responsabile. Tutto ciò dovrebbe quindi farmi riflettere sul futuro e servirmi da «lezione». In nessun modo considero l’aborto una liberazione o una vittoria.