inghilterra

la rinascita del femminismo

aprile 1975

Il movimento femminista in Gran Bretagna ha una storia lunga e illustre. Alla sua ideologia sono legati i nomi di Mary Wollstonecraft, e John Stuart Mill, il filosofo radicale. Durante il XIX secolo le donne medio-borghesi seppero condurre una lotta politica intelligente e dinamica per ottenere diritti politici e civili, aprirsi la strada verso le professioni e accedere agli istituti d’istruzione superiore. Fu in quel periodo che le donne della classe operaia cominciarono a scioperare e ad organizzarsi in sindacati, mentre Josephine Butler, con la sua campagna contro le leggi sulla prostituzione e le malattie sessuali, attaccava la moralità patriarcale dell’Inghilterra vittoriana. Negli ultimi anni dell’Ottocento ella vinse quella battaglia che in Italia ottenne il meritato successo soltanto nel 1958 con la Legge Merlin. Le donne inglesi, come le americane, subirono quella specie di lavaggio del cervello che Kate Millet definisce la «controrivoluzione sessuale» e Betty Friedan «la mistica della femminilità». Dimenticarono le «suffragiste» e le «suffragettes», Mrs. Fawcett e Mrs. Pankhurst. Ma il loro risveglio era inevitabile. Si diceva che la battaglia per l’emancipazione femminile venne vinta definitivamente nel 1928 con il raggiungimento della completa parità politica e legale con gli uomini. Ma basta uno sguardo alla demografia scolastica, alla struttura occupazionale ed economica della Gran Bretagna contemporanea per dimostrare quanto le donne siano lontane del raggiungimento di una uguaglianza sociale effettiva.

Consideriamo, come prima cosa il sistema scolastico. Nella Gran Bretagna, a differenza delle altre nazioni europee e dell’America, vi sono ancora molte scuole esclusivamente maschili o femminili — più di un terzo degli istituti medi superiori — e sono proprio quelle di più alto prestigio

e livello d’istruzione, da cui provengono gli studenti più preparati e la maggior parte della popolazione universitaria. Naturalmente nella scuola esclusivamente femminile, il personale docente è anch’esso femminile, e ciò porta al perpetuarsi della carenza più grave nel campo dell’istruzione della donna, quella cioè dell’insegnamento delle materie tecnico-scientifiche. Lo stesso Ministero della Pubblica Istruzione con un suo Bollettino — il numero 2A del 1954 — raccomanda il minor stanziamento possibile di spazio e denaro per l’insegnamento di tali materie negli istituti tecnici femminili. Il risultato è che all’Università la proporzione di donne nelle facoltà scientifiche è di molto inferiore a quella degli uomini. I risultati degli esami di scuola media inferiore e superiore indicano che la differenza fra i due sessi non sta nelle loro capacità, ma nel numero di coloro che, pur- superando gli esami con ottime votazioni, continuano gli studi. Fra le ragazze che lasciano la scuola prima dei 18 anni, poche seguono corsi di avviamento. Nel 1964, soltanto il 6% delle ragazze, contro il 36% dei ragazzi, aveva conseguito il diploma di specializzazione. Il 40% delle ragazze trovarono impieghi che non offrivano possibilità di miglioramento. Nel 1963, il 2,0% delle ragazze si iscrisse all’università, contro il 5,1 % dei ragazzi. Invece il 2,9% delle ragazze contro lo 0,8% dei ragazzi si iscrisse ai Colleges of Education (dove si consegue il diploma di insegnamento per le scuole elementari e medie). La maggior parte delle scuole di medicina limita il numero delle donne ammesse al 10%. E’ regola generale che le donne debbano possedere una qualifica più alta degli uomini per poter entrare a farne parte. A Oxford e Cambridge, il numero dei posti per donne è limitato dal numero dei «colleges» femminili (perché in queste università i sessi sono drasticamente divisi). Non soltanto i collegi femminili sono in numero nettamente inferiore, ma sono anche molto meno ricchi. Soltanto il 12,5% degli studenti di queste università sono donne. Per il Paese intero, le donne sono il 24% della popolazione universitaria (contro il 29% in Italia, il 32% in Israele e il 47% in Finlandia). Con tale situazione nel settore della istruzione, non è sorprendente constatare che le donne sono scarsamente presenti nelle professioni e nei posti di responsabilità. Nel 1965 [‘8,5% degli avvocati, il 4% degli architetti, lo 0,02% degli ingeneri chimici, lo 0,06% degli ingegneri civili, il 21,2% dei medici e il 58,8% degli insegnanti erano donne. Da notare che due terzi delle insegnanti si trovano nelle scuole elementari. Nella vita pubblica la donna va incontro alle stesse difficoltà. Fra il 1951 e il 1964, solo il 5% dei nuovi candidati alle elezioni per il partito conservatore era costituito da donne contro il 7% per il partito laburista. Nel Settembre del 1967 vi erano 19 deputate fra i laboristi e 7 fra i conservatori — cioè il’4,1% di tutti i deputati. Vi erano 6 donne membri del Governo, fra cui una membro del Consiglio dei Ministri e una membro della Camera dei Pari. Nell’amministrazione locale la situazione non è molto diversa. Nell’intero paese le donne sono circa il 12% dei consiglieri comunali e provinciali. Nelle commissioni parlamentari di inchiesta, di informazione etc, le donne costituiscono l’I 1 % dei membri.

Molti sono stati gli studi sulle possibilità di avanzamento offerte alle donne nelle varie professioni e dalla quasi totalità di questi è stato possibile rilevare una profonda discriminazione, non soltanto nei confronti dei colleghi uomini, ma anche nei confronti delle donne nubili. Soltanto nell’impiego pubblico e nell’insegnamento esiste una situazione più o meno equa per la donna sposata o non sposata.

Un buon terzo delle donne professioniste è occupata in professioni complementari del campo medico: assistenti sociali, dietiste, infermiere, fìsioterapiste, etc. Le loro paghe e prospettive di miglioramento sono minime. Parlare di parità in questo campò è ridicolo, data la quasi totale assenza di elementi maschili, spaventati da troppo precarie condizioni, di lavoro. Se nel settore professionale la donna inglese non ha visto migliorare la sua posizione negli ultimi venti anni, nei settori del lavoro industriale e artigianale la sua posizione è addirittura peggiorata. Secondo uno studio compiuto nel 1965, tra il 1906 e il 1960 il numero delle operaie qualificate è sceso del 34%, mentre nello stesso periodo il numero degli operai qualificati è salito dell’I 1%. Ciò è dovuto al mutamento strutturale dell’industria e al declino dell’industria tessile che dava impiego al 72% di tutta la manodopera femminile qualificata.

Nel 1970, dopo molti anni di lotta, il principio della parità salariale, «equal pay for equal work», venne legalmente riconosciuto, ma dove non esiste parità di lavoro, la parità salariale viene privata di qualsiasi significato. Le donne rappresentano una fonte di manodopera a buon mercato e la loro posizione contrattuale è molto debole. Mentre il 50% degli operai sono sindacalisti, soltanto il 25% delle operaie lo sono. La debole posizione economica delle donne non sposate e la mancanza di autonomia di quelle sposate rendono problematica la loro partecipazione alle lotte contrattuali.

Le donne lavoratrici non sono però le sole a soffrire della precarietà della posizione femminile nella società di oggi. Una grossa fetta di donne ha scelto (se di scelta si può parlare) la professione di casalinga, senza però trarne, almeno secondo i numerosi studi compiuti negli ultimi dieci anni, la benché minima soddisfazione. Hannah Gavron, in un saggio pubblicato nel 1966, stimò che il 68% delle casalinghe appartenenti al ceto operaio e il 75% di quelle appartenenti alla classe borghese desideravano un lavoro extra-domestico. Inoltre fra le donne sposate che lavoravano il 60% aveva motivato la propria scelta non secondo un criterio economico, bensì secondo «necessità emotive ed intellettuali». La famiglia moderna inglese è «pianificata», i bambini sono pochi e le opere assistenziali per l’infanzia svolgono il loro compito con serietà e scrupolo. Si può dire quindi che le madri inglesi abbiano esaurito il ruolo materno in giovanissima età, e questo potrebbe spiegare il fatto che le donne tentano il suicidio due volte più spesso degli uomini. In molti casi si tratta di una drammatica protesta contro la loro condizione, piuttosto che un serio tentativo di uccidersi. Un famoso medico inglese ha denominato questo fenomeno «nevrosi della periferia», la stessa descritta da Betty Friedan nella società americana.

Il «Women’s Liberation Movement» è di formazione recente. Esso venne fondato nel 1968 da alcune correnti dei movimenti laborista e studentesco e comprendeva molte donne americane impegnate nella campagna per la pace nel Vietnam. Un grande impulso esso lo ricevette dallo sciopero, compatto e massiccio, delle operaie della fabbrica automobilistica Ford, per la parità salariale. Già nel 1969 gruppi del Women’s Liberation erano presenti in tutte le maggiori città. Il futuro del movimento rimane però oscuro per due motivi di fondo: la mancanza di una ideologia politica unificata oltre a quella strettamente femminista e la tendenza all’isolamento culturale che impedisce ogni possibilità di una più precisa strutturazione del movimento.