la cultura maschile è dominio

la cultura borghese è una cultura di potere, per questo prevaricatrice e violenta, che può esistere solo espropriando contenuti di altri e contribuendo così a costruire un metodo culturale di dominio.

maggio 1977

vorrei riprendere il tema femminismo e cultura partendo da alcuni interrogativi che vivono oggi nel movimento, che mettono in dubbio questo rapporto: ovvero, ci appartiene questa cultura?
Oppure, se non ci appartiene nella sua interezza, qual è la parte che possiamo e vogliamo recuperare? Non penso che siano giri viziosi di parole ma problematica reale; infatti la cultura borghese se da una parte è solo ideologica, dall’altra però è anche realtà, vita, proprio perché costruita sulla ruberia dell’autenticità altrui, dell’espressione culturale, artistica di operai contadini, donne, negri, emarginati.
È una cultura di “POTERE”, per questo prevaricatrice e violenta, che può esistere solo espropriando contenuti di altri, contribuendo così a costruire un metodo culturale di dominio, che nega la differenza perché ne ha paura, di scissione tra teoria e pratica, e tra i suoi stessi settori.
Al suo interno è codificato il superiore e l’inferiore, il potere e il non potere, il sapere e il non sapere, usato sempre per dominare un’ altro, non come arricchimento collettivo.
E il ‘suo essere borghese, appartenere cioè ad una classe maschilista e razzista, sta in questo binomio CULTURA = DOMINIO, SAPERE = POTERE.
Molte di noi, specie chi opera nelle istituzioni, vi si trova quotidianamente in rapporto, la studiamo, la insegniamo, ne facciamo uso scrivendo, comunicando, creando a vari livelli, ma vivendo spesso una ‘sensazione di scissione violenta tra la coscienza critica femminista che applichiamo al nostro personale, a tutta la nostra vita, e il senso di impotenza, di frustrazione che ci coglie di fronte all’ambiguità di rapporto, tra noi e le conoscenze tecniche-teoriche, gli strumenti, che per 4 o 8 ore al giorno maneggiamo. Buttare via tutto? Ricominciare da capo? Alcune compagne da quando militano hanno smesso di lavorare, di produrre; altre sono in crisi, altre ancora vivono i 2 momenti separatamente, da una parte il femminismo, dall’altra il lavoro. E soluzioni, proposte sono ancora poche. Un settore del movimento tende a rifiutare la cultura, vivendola in blocco come maschilista, svolgendo una ricerca più come tentativo di espressione di una nuova cultura “al femminile”, che come riattraversamento critico di tutto ciò che è contro la donna.
Voler giustamente conoscere la nostra creatività non penso che sia l’iniziare ad edificare una cultura “al femminile”, ma piuttosto tensione ad una cultura di non-dominio, di non-potere, di non-esproprio dell’autenticità altrui, criticando le divisioni artificiali storicamente costituite. Rispondere alla storica esclusione delle donne dalla sovrastruttura con la “cultura delle donne”, non penso che sia la strada giusta da percorrere. Ci’ interessa combattere per la critica e il superamento del privilegio dei pochi, dell’esclusione dei molti, del suo essere contro la donna. Il binomio cultura = dominio, sapere = potere dovrebbe diventare: cultura come capacità collettiva di espressione, sapere come mezzo di comunicazione universale, negando la divisione tra lavoro manuale e intellettuale, tra uomini e donne, negando il concetto stesso di divisione ed esclusione. È il meccanismo, il metodo, la concezione stessa della cultura borghese che rifiutiamo.
Il separatismo diventa uno strumento necessario per la ricerca collettiva, anche in questo campo, della nostra autonomia, della nostra capacità critica, per negare la subordinazione storica, la “paura di non essere capaci”, il maschile introiettato sia a livello di metodo che di contenuto.
Storicamente il nostro rapporto con la cultura è stato di continue prevaricazioni, ogni qualvolta la nostra creatività, le nostre capacità servivano, non dovevano più appartenerci, venivano usate da altri, e noi rimanevamo man mano escluse anche da quello che sapevamo fare, disimparando progressivamente. Muse espropriate più che muse ispiratrici.
È ormai noto che i primi artigiani, le prime costruttrici di utensili furono donne, mestieri che significavano gusto artistico, padronanza del colore; quando si valorizzò ne fummo allontanate, ed emarginate ad altri compiti. La maggior parte degli arazzi, tappeti, lavori in oreficeria, ricami, pizzi, lavori su seta dell’epoca medioevale li han fatti delle donne; oltre ad essere le principali innovatrici dei telai, “inventavano”. Come sempre quando questi lavori significarono rispettabilità, ricchezza, ci furono tolti, ci fu addirittura vietato di tessere, potevamo fare solo lavori di rifinitura.
Le nostre alternative sin’ora sono state o l’ignoranza (sintomatica è la condizione della donna greca: solo se etèra, prostituta, poteva avvicinarsi alla cultura) oppure, nel momento in cui per varie cause storiche potevamo impadronirci di un mestiere, creare, ne venivamo ricacciate appena il nostro lavoro si valorizzava e ricondotte allo stato precedente.
Pur non essendo un popolo, una razza, abbiamo vissuto una costante colonizzazione culturale, con le nostre capacità continuamente stritolate e rimesse nella gran macchina della “cultura ufficiale”. Non abbiamo nemmeno una patria antica a cui riferirci, la nostra AFRICA non esiste, non siamo mai state libere. Dobbiamo riscrivere la nostra storia, conoscerla, raccontarla, ci sono già spunti, riferimenti, idee, ma ciò che manca è la continuità, sapere dove eravamo, cosa facevamo in Egitto, nel Medio Evo, nella Comune di Parigi, quanto nostro lavoro, lotta, creatività, c’è dietro questa “civiltà”, dietro la sua cultura, dietro ogni suo uomo.
Non vorrei fare della “donnitudine”, rivalutare cioè solo il passato, costruendo una romantica favola femminista, ma conoscere il passato come forza per produrre, per creare oggi, come forza di negazione e superamento del costante senso di inferiorità, di insicurezza, causate dalla convinzione ormai introiettata che solo gli uomini “sanno”, che noi senza di loro siamo incapaci, che in fin dei conti, storicamente, non esistiamo. Viviamo separatamente, la nostra “intellettualità” come la nostra sessualità, la nostra testa esiste spesso solo se rassicurata dalla presenza maschile, gratificata dal loro “benevolo” acconsentire. Dobbiamo noi invece decidere di quali strumenti, di quale tecnica, di quale teoria ci interessa impadronirci, perché ci serve, ci corrisponde; non vogliamo teorie “date”, ma ce le scegliamo, ce le ricerchiamo. Tutte le scienze, le tendenze, le correnti devono essere riattraversate da un punto di vista femminista; non voglio certo dire che dobbiamo rileggerci tutto, ma se le donne, e non solo alcune di noi, entreranno in rapporto con la cultura, penso che ci entreranno iniziando parallelamente un processo di distruzione di una parte di essa, di tutto ciò che è contro la donna, di tutto ciò che esclude.