università: testimonianza di una studentessa

come studentessa mi sento sottoproletaria e da questo deriva la negazione di essere studentessa liberata.

maggio 1977

durante l’occupazione all’università, è nata l’esigenza di riunirci, noi donne, in commissioni autonome, per poter impostare il nostro rapporto con l’università a modo nostro. Noi in particolare, provenienti dal magistero, risentivamo del fatto che la nostra facoltà, essendo considerata ghetto per sole donne, non veniva presa in considerazione nell’ambito di un discorso riformista. Volevamo programmi alternativi, che prendessero in considerazione la realtà di una cultura femminista. Professori diversi, non pregiudizievoli nei confronti di una sessualità femminile. Una compagna ha, infatti, raccontato che in sede di esame un cattedratico di psicologia l’aveva accusata di non essere in grado di parlare della vita amorosa in Freud, in quanto non la poteva vivere completamente, essendo convinto che le donne non conoscono che cosa sia l’orgasmo (!?!). Di qui l’esigenza di costituire commissioni di controllo di sole donne.
Non riuscivamo, però, a concretizzare queste esigenze e a metterle in rapporto alla discussione della riforma Malfatti, anche perché premevano scadenze esterne. Sono di quei giorni, infatti, le azioni di forza all’hotel Jolly contro i baroni dell’ostetricia, che fanno di nascosto i loro costosissimi convegni sulla sessualità e sull’aborto, problemi che riguardano direttamente le donne; gli interventi negli ospedali per sollecitare una presa di posizione pubblica sull’obiezione di coscienza. Entriamo in crisi quando dai giornali apprendiamo che a Padova le compagne avevano occupato il Magistero e stavano impostando un nuovo rapporto con l’università. Già prima dell’occupazione sapevo che a Padova le donne avevano lottato per una didattica alternativa. Poi con altre ragazze ho occasione di andare a Padova: qui scopriamo che anche loro vivono una profonda crisi. All’inizio avevano discusso i temi del rapporto con l’università; poi, causa alcuni “scazzi” con altre femministe relativamente ai metodi di lotta, e il rapporto con i compagni maschi, anche loro si erano trovate a dover ridiscutere il problema della violenza, del modo di partecipare alle manifestazioni (tipo di lotta, di violenza e di mezzi). (“Ci troviamo a dover sperimentare sulla nostra pelle le molotov, che pur rifiutiamo, in quanto armi maschili”). Ci hanno accusato, di “delegare”, all’opportunità, la violenza ai maschi, e di avere posizioni pacifiste. Posizioni non vere, in quanto noi portiamo avanti i “nostri” modelli di violenza nei confronti delle istituzioni.
È passato il primo periodo caldo dell’occupazione, ma, anche se non sembra, l’occupazione continua attraverso le commissioni nate da essa. Noi abbiamo istituito una commissione sul tema “donne e politica”. All’inizio la coesione tra compagne è stata molto difficile, tanto che continua ad esserlo in parte tuttora, in quanto proveniamo tutte da collettivi e da esperienze di militanza politica diverse. Ora continuiamo a portare avanti i temi del rapporto con il mondo del lavoro, dell’università, della politica, della famiglia, della società. Tutti questi temi tendono a far passare in secondo piano il problema specifico della riforma Malfatti. In ogni caso l’impegno è di portare avanti il lavoro di queste commissioni in quanto tutte le compagne, universitarie e non, sentono l’esigenza di chiarirsi in una commissione femminista all’interno dell’università. Io sento questa esigenza in modo particolarmente pressante in quanto vivo fuori dalla mia famiglia, in una “comune” di sei donne. Sono la cosiddetta studentessa liberata, che può disporre come, dove, e quando vuole del suo tempo, perché non ha i genitori in casa che controllano orari e persone che frequenta. Dal primo anno di università ho sentito l’esigenza di rendermi indipendente dalla famiglia, ma siccome dovevo studiare, anche se vivevo da sola, dovevo dipendere economicamente dai miei. Per questo ho sempre sentito di dover rivendicare un presalario, anche se in quanto figlia di genitori che hanno un reddito superiore al limite stabilito dall’Opera universitaria, non ne avrei il diritto. È inutile dimostrare che la mia famiglia ed io siamo due identità distinte: io infatti come studentessa mi sento sottoproletaria e da qui la negazione di studentessa liberata. Ancora adesso, dopo tre anni, i miei genitori continuano a darmi i loro soldi che rapprentano, in fin dei conti, l’unica arma con la quale possono sentirmi ancora parte della famiglia. Siccome questo gioco non mi piace, comincio a cercare lavoro: faccio ripetizioni saltuarie e così per un periodo entro nel ruolo dell’insegnante che assegna traduzioni di latino. In seguito, imparo a lavorare il cuoio ed ecco che divento donna artigiana che contratta con clienti che limitano la sua creatività. Il modello di borsa, infatti, non è sempre di loro gradimento e così, oltre a svolgere un lavoro “d’emergenza”, devo sentirmi ulteriormente frustrata dal fatto che chi compra non condivide i miei gusti.
Ma questi lavori sono precari e a me serve un guadagno fisso. Mi capita di fare del lavoro a domicilio: prendo la palla al volo e cado così nella trappola del lavoro nero; lavoro che mi assorbe gran parte del giorno e della notte, perché più lavoro e più guadagno, e perché c’è sempre il padrone che a volte mi tiene una settimana senza lavoro e subito dopo mi scarica sulle spalle 800 cinte da intrecciare in tre giorni. Nei confronti di questo lavoro vivo molte contraddizioni; minimamente lo gestisco io, nel senso che non ho limitazioni di orario, quindi lo accetto, ma nello stesso tempo è un lavoro da catena di montaggio, verso il quale non sento la minima motivazione. Certe volte, arrivo ad un punto che mi si “intrecciano” gli occhi, mi prendono i crampi alle mani. Mentre lavoro, penso a tutte le cose che potrei fare, che gratificherebbero i miei interessi e che sarebbero utili per il mio futuro ruolo di “Psicologa”. Inoltre devo trovare il tempo per il lavoro domestico: rispettare turni di pulizia, cucinare perché la mensa è poco funzionale e oltre tutto lontana da casa.
Da tutto ciò ne deriva una esistenza schizofrenica; non ritrovo più me stessa e quanto meno la parte di me stessa che dovrebbe essere la “studentessa”. È evidente che tolgo tempo allo studio, anche se faccio del mio meglio per non restare indietro. Il rapporto con l’università non mi soddisfa; quest’anno ho seguito bene soltanto tre corsi, andando a lezione e partecipando a seminari, A volte sono riuscita ad avere rapporti diversi con qualche professore, ma ora mi trovo a dover sostenere un esame con un professore che non ho mai visto; un esame che sosterrò perché è in preappello e perché mi permette di riempire un altro rigo del libretto. L’unica cosa buona della mia facoltà è il fatto che dà la possibilità di seguire seminari sui consultori sulla sessualità, sull’anoressia…
Anche in questo caso sorgono, però, dei problemi in quanto si trova sempre il “maschietto” che vuole approfondire il discorso sul ruolo dello psicologo, come tecnico, all’interno del consultorio. Mentre io come donna, identifico il lavoro che posso fare da femminista socializzando le mie conoscenze; non lo identifico con la figura di questo fantomatico psicologo, ma al contrario lo vedo nella prospettiva di stimolare un controllo, soprattutto da parte delle donne, dei problemi che esse vivono. Non lo vedo come razionalizzazione, ma come lotta per la conoscenza e la gestione del proprio corpo. Avverto l’impossibilità di portare in sede di esame programmi alternativi, che pure si svolgono durante l’anno con qualche professore più aperto. Volevo fare una tesi sperimentale sul ruolo della donna in rapporto alla chiusura dei brefotrofi, istituti per l’infanzia handicappata; chiusura che riporta il “diverso” all’interno della famiglia, il che comporta ulteriore lavoro non pagato sulle spalle della donna. Questo problema mi vede in una posizione contraddittoria, in quanto come psicologa sono per la chiusura di questi istituti, ma come donna sento che il prezzo sociale di questo reinserimento è pagato tutto dalle donne come assistenza materiale e morale. La commissione didattica ha assegnato la mia tesi ad un «padre…»: rifiuto in quanto con questo professore non mi sento da avere niente da condividere. Professori disposti ad accettare tesi con temi femministi sono, però, pochi; per cui debbono selezionare e dire di no a molti studenti, Per non parlare, poi, delle lezioni e dei programmi: non si svolge un minimo di pratica e per la specializzazione i professori invitano a frequentare i propri corsi privati e costosi. Confrontandomi con altre compagne all’università oltre a questi problemi ne sono usciti mille altri, tanti che a elencarli ne verrebbe un testo sacro, Infatti oltre il presalario garantito a tutte, vogliamo tirocini assicurati e retribuiti, per poter combattere lo sfruttamento che viene fatto su questo lavoro, in cui è così alta la presenza delle donne. Professori meno cattedratici, più vicini alle nostre esigenze, non a caso c’è poco spazio per tesi femministe e oltretutto per ottenerle dobbiamo ricorrere a “raccomandazioni”, che vorremmo invece fossero dimostrazioni reali di solidarietà nei confronti della nostra lotta e della nostra ricerca da parte dei docenti progressisti. Da tutto ciò deriva l’urgenza di continuare il lavoro di commissioni femministe universitarie per poter concretizzare questi obiettivi e specificarne degli altri in nuove forme di lotta e di organizzazione. Vogliamo avere delle prospettive per la nostra vita che non siano un generico superamento della discriminazione femminile nell’occupazione. Noi vogliamo poterci garantire un maggiore controllo sulla nostra vita: il modo di essere socialmente produttive vogliamo sceglierlo in base ai nostri bisogni e ai nostri desideri.