la violenza dentro di noi
la violenza nostra, “interna”, è diversa, è un problema separato da quella “esterna”, ma è sicuramente ad essa collegato, ne è un riflesso. Ma come?
immediata la rabbia, l’intolleranza che come donne, come femministe sentiamo crescere contro l’inaccettabile aumento e generalizzazione dei fatti “noti” di violenza carnale. Il movimento ha saputo mobilitarsi con forza ed immediatezza sui fatti di violenza, coinvolgendo tantissime donne, in piazza, come davanti ai tribunali di tutta Italia. Sappiamo bene che la violenza carnale non è che la parte più esplicita della quotidiana violenza che come donne (spesso inconsapevoli) subiamo, nel lavoro, nei rapporti personali, nella scuola, per strada, in famiglia, insomma ovunque. Sicuramente in questi fatti, ormai quasi quotidiani, esiste una grossa componente di classe, che fa sì che a pagare, a pagare sempre di più siano proprio le donne dei ceti proletari e sottoproletari, le meno difese, sia nelle strutture sociali che dalla giustizia. Credo che i fattori che portano a questa “rabbia” maschile contro le donne, siano, oltre che storici e culturali, quelli di sempre, oggi anche reattivi ad una “diversità” di ruolo che le donne si stanno faticosamente costruendo, a un obiettivo aumento di contrattualità e forza che le donne collettivamente e personalmente imparano lentamente a esprimere. Questo dato secondo me, aumenta e aggrava la volontà prevaricatoria maschile nei nostri confronti, quasi a esorcizzare la paura di un reale cambiamento nei ruoli sessuali. Dobbiamo guardare con molta attenzione a questo tipo di violenza, cercando anche di capire i modi in cui essa diventa il tramite per creare nel movimento, non solo situazioni positive di lotta, ma anche rischi di “criminalizzazione” (quasi “stimolata” con molto compiaciuto interesse da tutti i mass media), di non chiarezza dei modi più “nostri” di rispondere… questo problema si collega a quello, molto coinvolgente e attuale della violenza nostra, interna, che è, ovviamente diversa, un problema separato, da quella “esterna”, ma che è sicuramente a essa collegata, ne è certo un riflesso.
La violenza di non potere come donne ricomporre le varie parti della nostra vita (questo problema è sentito moltissimo dalle compagne femministe); la violenza di un rapporto “separato” con il proprio corpo. La violenza nelle nostre assemblee, aggressività, prevaricazione, rigido rispetto, spesso, dei ruoli carismatici, non del tutto, ma abbastanza stabilizzati. Aggressività verbale, gestuale, violenza di slogans e manifestazioni che spesso, nei contenuti non ci appartengono più, che rischiano di essere diverse dalle cose che vogliamo per noi. Violenza di rapporti tra donne ancora improntati spesso ad una competitività funzionale alle esigenze di apparire “giuste” secondo schemi di riferimento culturali di tipo maschile. Ma questa violenza, in che modo la riproduciamo? In che modo una cultura, una storia, tutto un mondo ci costringe a riprodurre i suoi schemi? Conosco bene ad esempio le ambivalenze, le complicità che personalmente ho con certi modi di violenza di coppia, di violenza sessuale. La violenza di giocare, ormai lucidamente, perché lucida è la nostra analisi in proposito, un ruolo seduttivo, che mi nega come soggetto positivo, falsa i miei rapporti, mistifica il mio modo di essere. La violenza culturale di chi sa di più, ovvia nella cultura maschile, meno tra di noi, ma esiste, la paura della collettivizzazione dei propri pensieri, idee, produzioni; questo appartiene solo a me,
Sta nascendo nel movimento proprio in questi mesi la consapevolezza generalizzata dei vari tipi di violenza che tra di noi spesso esercitiamo; quasi tutti i momenti assembleari, a Roma, sono stati dedicati ultimamente proprio a questi problemi, che si affrontano in modo sempre più articolato. L’attualità del dibattito si collega direttamente alla “violenza esterna” la violenza carnale, lo stupro, i tanti omicidi di donne, alla quale il movimento per la prima volta si pone il problema “di rispondere adeguatamente. In che modo?
In molte sentiamo che la violenza (praticata da donne) è estranea alla nostra cultura, estranea alla nostra storia, mentre essa è organica e stabilizzata nella cultura e nella storia maschili. Da sempre la violenza la subiamo e -nei secoli essa è diventata un elemento immediatamente paralizzante e regressivo, specie nelle sue forme più esteriori ed esplicite (il disagio, la paura e la rabbia dell’S marzo, del 12 marzo a Roma), ma anche nei rapporti personali molte compagne dicono: “se alzo un pugno per picchiare, contro qualcuno, so che è il momento di massima debolezza che io possa vivere, una violenza storica che ci ritorce contro”. Ma il problema resta, come imparare a difendersi per non doverlo più fare, come usare la propria rabbia, anche la propria storica impotenza in modo che diventi immediatamente incisiva nella realtà, e contribuisca a cambiarla, come difenderci dalle violenze personali, dalla violenza politica? Non credo che la soluzione possa essere l’uso delle armi, in questo periodo storico, non credo in nessun modo che la violenza in piazza possa oggi servirci, possa servire alla causa delle donne; credo anzi, che possano esistere tentazioni e provocazioni in questo senso da parte di forze che il movimento vorrebbero vederlo isolato, spaccato e debole, non mi sento però di connotare il movimento femminista come “pacifista” o “non violento” per definizione. Come donne sappiamo che quando è servito usare violenza per combattere e vincere, l’abbiamo saputo fare, e se servirà un movimento delle donne, un movimento di massa duro e deciso sapremo esserlo.
Oggi, il movimento femminista, divenuto forte, con una sempre maggiore contrattualità sociale e politica deve sapere distinguere tra violenza e forza. Deve essere consapevole della sua forza e usarla, farsi forte del rapporto sempre più articolato con tutte le strutture della società. Le donne devono imparare a utilizzare la collettivizzazione politica e culturale del movimento di massa, che tutte insieme stiamo costruendo. Nuovi modi di esprimere forza, con la qualità delle lotte, con l’ampliamento degli spazi di intervento, con l’ironia, con la storicizzazione della nostra forzata sottocultura, nuovi modi immediatamente rivoluzionari e dirompenti, all’esterno come nelle coscienze di tutte le donne.