teatro
di madre in madre
il 10 aprile andrà in scena al teatro la Maddalena di Roma il lavoro «Di madre in madre», di Muzi Epifani e Francesca Pansa, la storia di una Maternità. Questa è la riflessione/ricordo/racconto della nascita del lavoro.
le donne della mia generazione, che erano bambine ma già coscienti nel ’48 quando le donne italiane cominciarono a votare, hanno sentito dei discorsi curiosi. Il risultato del ’48 suscitò negli ambienti più evoluti una rabbia non ben argomentata verso le donne. Nel mio ambiente, laico e libertario, si dimenticava con serenità che l’Italia era, allora, e in parte ancora è, un Paese arretrato, confessionale, contadino. «Che stupide!» commentava mia nonna con totale disappartenenza. «Che stupide! Si sono andate a mettere sotto una tonaca nera. Stupide gallinelle — continuava con un sospiro —, e adesso come li rimandiamo nelle sagrestie questi lumaconi? Poveri noi! Ai lumaconi non c’è giardino che, resiste!» Mia madre rincalzava: «Povere donne nostre! Come sono cretine! Come hanno fatto a votare una razza che non è né maschio né femmina? Neri neri, melliflui, bavosi. Adesso ce li teniamo!». Concludeva la nonna: «Fossero tutte come la Sirighina. Lei è romagnola, intelligente e non si fa imbrogliare. È evoluta la donna romagnola! È povera e vota Pci». La nonna aveva spiegato il segno del Pei alla nostra lavandaia analfabeta e aveva anche tentato di persuaderla a votare repubblicano; ma la Sirighina aveva scosso la resta e i suoi orecchini d’oro coperti con la pezzetta a lutto: «Sono povera e voto compagni». Nel mio breve orizzonte infantile le donne naufragavano nella stupidità, senza vedere la bruttezza dei preti e dei sagrestani (così in famiglia si chiamavano i politici democristiani oppure, a scelta, mala razza di ipocriti prostrati). Si parlava con indulgenza del fatto che la Sirighina non comprendesse che Stalin era un «mostro sanguinario». «Come può difendersi dalla propaganda, povera analfabeta?» si domandavano tra loro mamma e nonna, Credo che attraverso tutte le classi sociali, per motivi diversi, passava ‘ il messaggio della stupidità delle donne. L’elaborazione femminista proprio non esisteva. Io stessa caddi in molte trappole che la società prepara alla donna: matrimonio precoce, figli da giovanissima, marito di finta sinistra. Se mi sono salvata lo debbo alla abitudine familiare di leggere e studiare molto. Leggere e parlare di libri era considerata un’abitudine indiscutibile, come lavarsi i denti e farsi il bagno. Per le donne più che per gli uomini: perché si sa che gli uomini corrono appresso a noiose beghe ma le donne (era un dogma che in casa ci fosse un buon servizio) se non amano la sapienza, cosa fanno?
Questa filosofia oggi sembra antidiluviana; tuttavia, quando ho dovuto guadagnare, tutto quello che avevo studiato per’ diletto mi fece molto comodo. Avevo -studiato con una calma metautilitaristica che ha il fascino dell’acqua profonda. Quando ho conosciuto Francesca, qualche anno fa, sono stata contenta di avere un’amica nata dopo il voto alle donne, I tempi erano cambiati, Francesca aveva una elaborazione femminista alle spalle, poteva avere una vita razionale. Quando Francesca rimase incinta cominciammo a fare lunghi discorsi per telefono. Perché accollarsi tutta sola l’onere di un servizio sociale, ‘ quale è là prò-creazione, dal momento che l’eroe sé la filava? Confrontammo le nostre esperienze: io avevo avuto i figli prima di domandarmi sé li desideravo o no; mi erano capitati, questi simpatici gnomi, tra sogni, giardini e romanzi. (Per la verità funestata non poco da un signore che strillava sempre più spesso per motivi meschini, un signore che in un posto astruso, l’anagrafe, mi aveva perfino appiccicato-il suo cognome).
Francesca, invece, che aveva da poco perso il padre in condizioni tragiche, lo rivoleva. Era desiderio di maternità-ma era anche magia. Quando compresi che per Francesca il figlio era indispensabile, non mi pentii di averle esposto le difficoltà dell’impresa, la maternità solitaria. Un po’ come facevano i genitori di una volta per sondare la profondità di una vocazione artistica. Mentre Francesca proseguiva nella maternità, scrissi Dilemma, che è una pièce psicologica, un dialogo tra le due donne per trovare la loro vera identità rispetto alla maternità e all’aborto; impresa difficile perché è il campo dove forse l’identità femminile è stata più straziata. Dì madre in madre è una stesura successiva, non più individuale ma di Francesca e mia. In essa le esperienze di più donne sono messe a confronto. In questa seconda stesura, con l’aiuto di Adele Cambria (1), che si era frattanto accollata il compito di regista e dava suggerimenti perché il testo fosse consono allo spettacolo che cominciava ad avere in mente, il personaggio di Francesca esce dalla sofferenza psicologica per entrare, con le sue contraddizioni, nella comunità femminista. Di fronte alla maternità Francesca non è più in un dialogo solitario con una amica (infatti nella prima stesura avevo, usando il ‘telefono come mezzo di comunicazione, accentuato la componente di solitudine e, con l’accompagnamento del duo per pianoforte di Schubert il tema dell’intimismo, sia pure a due voci) ma vive un mutuo sostegno in un gruppo femminista. Il grande pericolo di questa operazione, passare dalla corda intimista a quella politica, era di cadere nelle secche didascaliche. Non è sicuro che abbiamo evitato questo rischio. Ma speriamo, anche per merito di Adele, che nel gruppo è l’ideologa, che questo testo sia un aiuto alle compagne, che non si sentano sole nell’affrontare uno dei nodi salienti dell’esistenza femminile: essere libere, essere se stesse al momento di decidere se avere un: figlio: o no.