Io, bestia
«ci teniamo talmente tanto a far parte dell’ umanità” da non ricordare il passato»?
per King, mio fratello cane, che più di tutti ha saputo insegnare. Parlare a favore degli animali suscita un risolino soprattutto negli uomini, ma anche nelle donne. Eppure quel risolino dovremmo conoscerlo bene. È lo stesso con cui vengono liquidate le nostre argomentazioni, è quello del poliziotto che chiede quanti erano a violentarti, è quello del giornalista che commenta il femminismo in tono mondano, è quello del compagno di fronte ad una riunione di donne o del marito a cui comunichi che intendi trovare lavoro. Non capisco come possiamo risentirci del fatto che le classi sfruttate non riescano ad intravvedere nello sfruttamento del nostro sesso i meccanismi di potere che così chiaramente individuano e denunciano quando vanno a colpire i loro interessi, se noi stesse non sappiamo distinguerli quando brutalizzano chi ci è «inferiore» nella scala gerarchica del potere. Ci teniamo talmente ad essere entrate a far parte dell’«umanità», da non ricordare il passato? Quando avere un’anima voleva dire tutto, noi non avevamo l’anima, ma l’istinto, «come le bestie». Ce l’hanno data, quando si è svalutata, di fronte al valore crescente dell’intelligenza. Ora stanno riconoscendo l’intelligenza, ora che la specializzazione è tutto, e restiamo confinate alla manovalanza intellettuale. Continuiamo comunque ad essere inglobate nella sfera dell’istinto, anche se ora lo chiamano «intuito femminile», e ci ghettizzano in quel valore per loro negativo che è l’irrazionalità. Ma che altro sono l’irrazionalità, l’intuito, l’istinto, se non una più veloce computerizzazione dei dati, espressa secondo codici diversi da quelli dominanti? La cosa che temo di più, proseguendo nello studio ed acquisendo la capacità di astrazione, è il perdere alcune caratteristiche: intendermi con gli animali, riconoscere a fiuto i nemici, prevedere situazioni, sentire il mio corpo. E chi ha già perso questi poteri (magici) ha il coraggio di inferiorizzare la loro validità.
alcune riflessioni socio-linguistiche
Un proverbio mistrettese dice: «della moglie e della mula, non ti fidar che filai è sicura». Se questo ci illumina sulla similarità delle funzioni e della considerazione di cui godono nella civiltà contadina donna e mula, non è da meno il contesto industriale in cui viviamo.
Se usciamo di sera, siamo senz’altro delle «vacche», se ci piace l’amore siamo «in calore». Chi ci ha fino a poco tempo fa negato il diritto allo studio ci chiama «oche», e siamo necessariamente «stupide come galline». Senz’altro ognuna di noi ha ricevuto amorosi messaggi tipo «passerottina mia» o «sei dolce ^ come una cerbiatta». Se il nostro lui è in compagnia si esprimerà a favore dei nostri «fianchi da giovenca», ma ci dirà senz’altro che siamo «grasse come balene». Gli piacerà anche figurarci come «pantere», purché pronte a fare le fusa quando lui ci chiama «miciona mia». Ma non bisogna desiderarlo troppo, diventeremmo subito «appiccicose come mosche» a fastidiose come «quella chioccia di mia madre». Potrete essere anche «brutte come un gufo», ma guai a «pavoneggiarsi», guai a «fare la civetta»! E infine, se nell’orgia dei sensi vi chiamerà «lurida cagna» alla maniera di Humphrey Bogart, tacete, e semmai mugolate. Soprattutto non esternate le vostre opinioni, non dimostratevi «testarde come mule». Vi dimostrereste per quello che siete: nient’altro che «donniciole».
L’uso di queste metafore trascende il qui banalizzato esempio di fruizione di coppia e si trova in abbondanza nelle opere di prosa e di poesia, che la pigrizia mi ha impedito di andare a «spulciare», e di cui costituiscono prelibata materia prima, grazie all’identica prerogativa di poter essere rese significanti di attribuzioni arbitrarie, dato che i soggetti denotati non hanno alcun potere culturale. È facile a questo punto offendersi per gli accostamenti arbitrari donna-animale, ma così facendo cadremmo nella logica che li ha prodotti. L’uomo più debole non è forse «vigliacco come una femmina, isterico come una moglie, traditore come una puttana, stupido come una donna»? In quest’ultimo caso ci è evidente (e deve esserlo anche nel primo) che, pur esistendo l’intenzione di offendere, noi non riconosciamo , i termini usati come offensivi, tali solo secondo la scala gerarchica maschile e la visione antropocentrica del mondo. , Ho riportato le associazioni semantiche collegate alle due categorie di termini solo per evidenziare una sorta di «destino comune» nell’attuale organizzazione sociale, Dato accomunante è, per cominciare, il fatto che ad entrambe sia negata una propria cultura, intesa come insieme di modalità espressive e comportamentali diverse, ma intenzionali.
donna e animale
Quello che citerò di seguito è l’applicazione di princìpi universalmente riconosciuti validi e la descrizione sommaria di pratiche normalmente attuate.
Diciamo spesso che la donna è l’unico essere cui non viene riconosciuta la forza lavoro che produce: l’animale ne produce altrettanta e, analogamente, ne riproduce. Come animale domestico, la donna non viene trattata diversamente dall’animale da guardia, da compagnia o da riproduzione; ci è risparmiata solo la funzione mangereccia, in compenso i riti sacrificali si perpetuano su bianchi agnelli e candide vergini, scelti preferenzialmente come «capri» espiatori. La donna e, nelle classi sociali elevate, usata come simbolo di prestigio, come «animale di razza»: il ghepardo o il doberman per le ville dei ricchi, i barboncini e i cocker per i borghesi hanno identica funzione. Come le attrici, donne la cui funzione sociale è prevalentemente estetica, le bestie subiscono interventi atti a rendere più gradevole il loro aspetto: taglio di coda e orecchie, permanente, asportazione di denti (caso Marlene Dietrich). Il marchio sulla pelle del bestiame è sostituito invece dal nostro cognome da sposate. I percorsi che le donne destinate ai bordelli fanno da quando esiste l’umanità, imperialisticamente assetata di esotismo, sono gli stessi che animali in via di estinzione percorrono a milioni ogni giorno.
«Andare in battuta» indica tanto un safari che la ricerca di una donna, comunque preda. Negli zoo si perpetua il voyeurismo dei «civili», che da «sani» un tempo visitavano le gabbie delle «pazze». Il perpetuarsi di tutto ciò accresce il suo valore normativo: più una donna maschilizzata (cioè resa femminile secondo la logica maschile) più sfugge il contatto con gli animali, con la cattiveria del servo che punisce lo schiavo: ha un culto ossessivo dell’igiene casalinga e conseguentemente il timore paranoico di tutto ciò che è detto sporco, animale e se stessa compresi: è la prima a decretare la morte o l’abbandono nelle strade di animali scomodi; teme, come le è stato insegnato per renderla più debole, ogni altra forma di vita (vignetta classica di lei e il topo) e la sua unica funzione è quella di venir salvata dal drago da un principe che la possiederà.
E, importantissimo: la medicina ottusa e violenta che le donne subiscono ha le sue radici nella vivisezione sugli animali. Il fatto che molte compagne si stiano interessando a questo aspetto della medicina e stiano organizzandosi anche in questo senso è molto importante perché non significa materna caritatevolezza, ma coscienza di tutti i processi che la «scienza medica» percorre, sbagliando fin dall’inizio.
Per la regolazione delle nascite moriamo d’aborto o ci insteriliscono a nostra insaputa: il sovrappiù di animali viene ammazzato adulto nei macelli o da lì portato sui tavoli della vivisezione, e non mi riferisco, nel primo caso, agli animali che Usiamo come cibo, ma ai bastardi,’ nome che chi ha un figlio senza padre «regolare» conosce fin troppo bene. Anche questo è prodotto della cultura e dell’organizzazione maschile dell’esistenza.