l’inconscio questa brutta bestia

si piccolo gruppo e I’ autocoscienze sono pratiche fondamentali dei femminismo. Con questo testo, di alcune compagne di Donne e Psicanalisi di Roma, riapriamo il discorso e la discussione.

aprile 1978

nell’antichità, come anche in molte culture contemporanee su cui non ci dilunghiamo, la dimensione inconscia, anche se non capita, era socialmente più accettata, tanto è vero che, in certi casi, assumeva un valore di interpretazione della realtà e diventava addirittura uno strumentò -operativo. Ricordiamo gli stregoni delle tribù primitive e gli sciamani che erano dei mediatori tra la realtà sociale e l’inconscio «incarnato» nel magico e ricordiamo l’importanza che i segni simbolici e premonitori assumevano e assumono nelle decisioni della vita di certe comunità. Per non parlare dei miti greci e romani a noi più familiari. Nelle società più vicine a noi l’attenzione all’inconscio fu allontanata perché non funzionale né necessaria alla produzione, anzi era chiaro che serviva a limitarla. In quanto tale veniva e viene attualmente associata al concetto di malattia e comunque all’emarginazione e pertanto delegata ai soggetti deboli e improduttivi: donne, bambini, vecchi e matti. Non è un caso che Freud abbia, potuto operare alla prima sistematizzazione scientifica delle leggi che governano l’inconscio, fondando la psicoanalisi, facendo le sue osservazioni sui malati, per lo più donne. Con la sempre più precisa separazione dei ruoli legata ad una più efficiente organizzazione del lavoro, nella divisione tra maschile e femminile, l’emozione e l’irrazionale sono rimasti precipuo patrimonio della donna e la razionalità prerogativa dell’uomo. Solo con la forza del movimento femminista le donne sono riuscite a rivendicare in positivo quelli, che erano stati fino ad allora gli elementi della loro emarginazione sociale, cioè l’emotività e la sessualità, considerate disvalori perché non funzionali alla produzione. Il corpo della donna, infatti, è stato accettato sostanzialmente, nel suo aspetto riproduttivo e cioè come capacità procreativa e non nella sua totalità di soggetto sociale: emotivo, creativo, e sessuale intero. La donna ha dovuto riappropriarsi del corpo e della sessualità per riuscire a diventare soggetto politico (Io sono mia).
Nella pratica dei piccoli gruppi di autocoscienza noi i donne abbiamo capito che la nostra sofferenza non era solo esistenziale ma derivava dalla nostra condizione di oppresse e ciò ci ha permesso di storicizzarla e-quindi di politicizzare la nostra lotta. Tutto è cominciato quando la donna si è accorta che le sue modalità espressive non erano socialmente accettate: più che la parola e la politica, l’affettività e l’emotività erano le sue modalità espressive. Nel piccolo gruppo la donna ha rivendicato la possibilità di esprimere tutto ciò e la possibilità quindi di riappropriarsi della parola. Queste rivendicazioni sono state, all’inizio, del movimento femminista, un grosso momento di identificazione reciproca e di solidarietà fra donne. La struttura del piccolo gruppo è stata una struttura nuova, rivoluzionaria perché ha modificato noi, i rapporti tra di noi e quelli tra noi e l’esterno: ha pertanto modificato la realtà, Per esempio, la pratica dell’autovisita collettiva e del self-help ha cercato di cambiare i rapporti tra la donna e il suo corpo e di conseguenza tra la donna e il medico. Le donne nel piccolo gruppo sono riuscite a «raccontarsi», esprimendo le loro sofferenze e appagando così il loro narcisismo, in questa modalità, sempre negato. Il confronto tra donne, nel piccolo gruppo, ha dato la storia cita della menomazione; la donna pertanto ha ritrovato una sua prima identità in quanto «vittima». Il mondo maschile ha oppresso le donne, quindi il maschio è il nostro nemico. L’oppressore si colloca così all’esterno del piccolo gruppo e del mondo femminile. , La teorizzazione della contraddizione uomo-donna che va a modificare, in qualche modo, il quadro marxista e quindi l’assunzione della donna’ come soggetto oppresso e perciò rivoluzionario ha prodotto un’estensione del movimento femminista a livello di massa, perché ha spaccato le organizzazioni politiche extraparlamentari e ha avvicinato moltissime donne al movimento femminista. Il rimosso-donna è emerso. La, riproposizione della scissione tra mondo maschile e femminile, classificati come «negativo» e «positivo», è stata necessaria e funzionale alla ricerca di una identità. Tale operazione si è potuta compiere al prezzo della rimozione dell’aggressività tra donne e pertanto ha prodotto dei valori comportamentali cioè l’ideologia femminista: non bisogna essere rivali, siamo tutte sorelle, io morirò per te e tu morirai per me, insomma: Donna è bello! Questa ideologia è diventata una gabbia immobilizzante perché ha riproposto il conflitto tra il dover essere e l’essere reale. Di nuovo le donne sono state costrette a vivere una p^” te di sé e non la totalità della propria realtà: non era data la possibilità di esprimere tutti quei sentimenti e quelle emozioni sempre considerate «negative», quali la gelosia, la rivalità, la invidia, la competitività, l’aggressività e l’insofferenza per la debolezza. Sentimenti che esistevano anche tra di noi! Le domande esplicite di attenzione e di solidarietà, di complicità del proprio vissuto e di avallo del proprio ruolo di vittima innocente di giustificazione della propria esistenza mascheravano, in realtà, le continue richieste inconscie di percepire sé stesse come «tutte buone» proiettando le parti cattive all’esterno di sé, sull’uomo e sulle istituzioni sociali. Questa difficoltà ad accettare le partì cattive di sé, cioè il proprio nemico interno, perché doloroso e fonte di ansia, ha impedito di leggere e capire i meccanismi che sottendevano ai nostri rapporti cioè alle «dinamiche» del piccolo gruppo. Era una richiesta di amore totale, di accettazione illimitata: una richiesta di «madre» che veniva fatta al piccolo gruppo e alle singole componenti. Tutte l’affettività e la richiesta di accettazione che non potevano essere agite con l’uomo, perché lui stesso le negava sentendole pericolose per la sua identità sociale, potevano essere comunque agite con le donne nel piccolo gruppo che, teoricamente, promettano amore e accettavano qualunque forma espressiva, dalle urla al pianto, pena enormi sensi di colpa, ci sembra essere stato patrimonio comune di tutti i piccoli gruppi nella loro prima fase di esistenza. Dopo di che le dinamiche non riconosciute e quindi non analizzate, hanno avuto il loro effetto: o il mutuo patto di non aggressione o lo scoppio dell’aggressività. Nel primo caso, questo patto di omertà per cui «tu non metti in discussione me e il mio ruolo ed io non metto in discussione te e il tuo ruolo» ha, ad un certo punto, talmente ingabbiato le persone che qualunque argomento era o banale o impraticabile. In questo caso il terrore della scoperta delle proprie dinamiche inconscie è stato talmente forte che il piccolo gruppo si è sciolto per supposto o dichiarato esaurimento. Le donne che sono uscite da queste esperienze «affermano che l’autocoscienza, per quanto non negativa, non è stata determinante né per la loro presa di coscienza né per il proprio cambiamento e che è una pratica ormai superata. Esse spesso ripropongono le vecchie modalità di ‘rapportarsi all’esterno.
Più di frequente invece, qualcuna ha rotto questo mutuo patto di omertà provocando tensioni e aggressività che nessuna è stata in grado di mediare, interpretare e ricomporre su stadi di consapevolezza più avanzati. In questo caso molte compagne si sono spaventate delle dinamiche di aggressione messe in moto, che non sono state più in grado di controllare e che hanno provocato situazioni insostenibili poiché creavano panico e tensioni laceranti. Anche in questo caso i piccoli gruppi si sono sciolti, ma questa volta sul dramma. Alcune compagne, ricomponendo a stento i brandelli della propria identità lacerata, hanno rifiutato e rifiutano tuttora l’autocoscienza, considerandola fonte sterile ed aggravio delle sofferenze. Sentono sempre di più l’urgenza delle scadenze esterne ma si trovano prive di strumenti teorici nuovi ed alternativi di interpretazione della realtà mentre avvertono in pieno l’inadeguatezza del vecchio modo di fare politica. Molte altre hanno intuito che i veri conflitti agivano al di là della coscienza, che spuntava un «padrone» che governava al di là di ogni controllo cosciente: hanno insomma percepito la dimensione inconscia ed hanno iniziato una terapia psicanalitica o altri tipi di terapia individuale o di .gruppo che richiedessero un «terapeuta». Questo avvicinamento alla’ psicoanalisi non stupisce<; in quanto questa è una scienza che s’impernia, sui, problemi legati all’emotività, e alla sessualità: chiaramente questa «avventura» è più permessa alle donne perché, come abbiamo detto l’emotività e l’irrazionalità sono state a loro storicamente delegate.
Infatti, come si può notare, più o meno volentieri, nel movimento femminista la richiesta di analisi è stata crescente: sono comparsi gruppi sempre più interessati all’uso dello strumento analitico. Il gruppo di pratica dell’inconscio milanese, il gruppo dell’inconscio romano (vedi Differenze n. 2), il gruppo «Donne e Psicanalisi» di Roma, la lettera di Stéphane Picard di rivendicazione dell’esistenza dell’inconscio (lettera su Differenze n. 5) e lo stesso convegno di Firenze su «Donne e follia» pur con le sue numerose ambiguità. Tranne questi pochi tentativi di unificazione del momento analitico, finora individuabile con quello politico collettivo, allo stato attuale, si manifesta, pur se con motivazioni contrastanti, un rifiuto della pratica dell’autocoscienza ed il movimento femminista si trova privo di strumenti teorici di interpretazione e di intervento sulla realtà. È a questo punto che noi vorremmo parlare delle nostre esperienze nei piccoli gruppi che contengono sì tutti gli elementi finora descritti, ma presentano altresì una crescita ed un’evoluzione rispetto all’immediato passato, esperienze che vorremmo proporre all’attenzione, alla riflessione e, speriamo al dibattito, delle compagne. Abbiamo maturato la convinzione che solo un cambiamento radicale di noi stesse ci darà la possibilità di fare delle analisi politiche meno parziali di quelle «economistiche» e fortemente ideologiche che eravamo solite fare nelle organizzazioni politiche in cui militavamo e che erano le nostre uniche modalità di comprensione della realtà. Questo cambiamento, solo diventando patrimonio collettivo, ci potrà fornire gli strumenti politici per lottare e per incidere sull’esterno e per costruire una realtà diversa. La presenza all’interno di alcuni piccoli gruppi di compagne che avevano alle spalle un’esperienza di terapia analitica, e che quindi possedevano già in parte dei «nuovi strumenti» di analisi della realtà, ha permesso di fare luce sulla dimensione inconscia delle dinamiche che si sviluppavano all’interno dei gruppi. La presenza di queste compagne, ha suscitato due tipi di atteggiamenti: da una parte c’è stata l’accettazione del ruolo di potere di coloro che detenevano lo strumento analitico, in quanto esso mediava le tensioni scatenabili ed era quindi rassicurante per la vita del gruppo, dava cioè delle garanzie, anche se scatenava dei meccanismi di delega, di dipendenza e quindi di competitività. Dall’altra parte c’è stato un secondo tipo di atteggiamento che era di rifiuto dello strumento analitico e si esplicitava nell’aggressione alle compagne che lo praticavano. Le nostre esperienze ci hanno dimostrato che là dove c’erano più compagne in possesso della «tecnica» c’è stata la possibilità che il piccalo gruppo vivesse a lungo e che lo strumento analitico, in una certa misura, si diffondesse anche per la enorme curiosità ed attrazione che tale «nuovo modo» di leggere la realtà suscitava. In questi piccoli gruppi sono emersi gli elementi connessi a tutti gli altri: l’affettività, la solidarietà, la sofferenza e l’aggressività. Ma l’aggressività, elemento pericoloso in quanto disgregante, e la sofferenza che può determinare delle fughe, in questi gruppi, sono state ricomposte attraverso un tentativo di comprensione che faceva ricorso allo strumento di interpretazione analitico e non si fermava solo all’ascolto del primo livello del discorso verbale razionalizzante, ma proponeva l’ascolto della propria emotività e di quella di chi parlava: proponeva e riconosceva come modalità di rapporto l’amore e l’odio, Quando parliamo d’amore e di odio intendiamo riferirci a quelle emozioni, quei sentimenti che riguardano i rapporti tra le persone che sono suscitate da una situazione, da una parola, da un’allusione, da un silenzio, da uno sguardo e che, spesso, appena percepite, vengono soffocate perché sentite pericolose ed incontrollabili, storicamente negate e ideologicamente scorrette in quanto ritenute irrilevanti, (insomma problemi propri che ognuno si deve risolvere da sé, nel proprio «privato»!). Invece proprio l’attenzione a queste espressioni emozionali ha permesso di capire quei fenomeni che sembravano altresì incomprensibili, quali le esplosioni di aggressività, il desiderio di emarginare, in certi casi di epurare, di cercare il capro espiatorio, la necessità del nemico esterno, le differenze e le rassomiglianze tra di noi. Esaminando tutto questo si delineano i ruoli e si scoprono i meccanismi e le varie sfaccettature del potere e la nostra ambivalenza (cioè il coesistere di sentimenti contrapposti, per es.: amore-odio), verso di esso, sempre negata, Questa modalità di rapporto basata sul riconoscimento della sofferenza del rifiuto, dell’ansia, dell’amore e del’ l’accettazione di cui siamo artefici e vittime, richiede un grande sforzo ed una volontà cosciente. Il riconoscimeli, to e la verbalizzazione delle proprie emozioni presuppone un atto di coraggio in quanto implica un rischio e l’accettazione delle sofferenze che conseguono alla messa in discussione di sé. Tale rischio può essere accettato solo dall’imprescindibile esigenza del proprio cambiamento, della propria rivoluzione interna che avviene al prezzo dello scoppio di tutte le nostre contraddizioni. Il prezzo, insomma, è la scoperta della propria ambivalenza che finalmente nel femminismo può diventare un valore e non un disvalore-negazione come in tutte le organizzazioni politiche strutturate gerarchicamente ed ideologicamente rigide. L’accettazione dell’ambivalenza è un primo momento di riconoscimento di sé come «totalità» e rappresenta un tentativo di integrazione del pubblico (parole, politica, lavoro «esterno da me») e del privato (emozioni legate all’odio, all’amore alla sessualità «il me interno»).
Questa scoperta dell’inconscio, vissuta in una dimensione collettiva e non duale e privatistica, implica la diffusione dello strumento analitico e la possibilità di cambiare nell’immediato i rapporti sociali. In questo senso tale lettura collettiva, anche se prevede tempi molto lunghi, è portatrice di ulteriori sviluppi e si configura come strumento antiideologico e perciò rivoluzionario. Precisiamo che non si vuole affermare I e propagandare una sorta di nuova «terapia» che richiede altre strutture ed ha altri fini, ma si vuole proporre soltanto la possibilità di una ride-i finizione e di una nuova lettura della realtà, esclusa per molto tempo dal mondo culturale della sinistra. Questo ci permetterà di acquisire nuovi strumenti di intervento nel sociale e nel politico i quali eviteranno il nostro riparo dietro false sicurezze e ci faranno superare lo stadio di «vittime», dandoci la possibilità di diventare artefici e protagoniste della nostra liberazione e della nostra storia scoprendo sempre di più le modalità della nostra oppressione per meglio dividuarle e meglio combatterle.