CONVEGNO VIOLENZA

le bambine cattive dicono no

“il nostro modo di far politica ha per fortuna mille facce: è questo che ci ha salvato dall’ ultimatum istituzionali sul terrorismo”

aprile 1978

siamo state al convegno anche noi. Alcune più marginalmente; una, addirittura, che ha grossi problemi con le assemblee, ha preferito leggersi i documenti delle commissioni. ‘Sentiamo il bisogno di chiarire alcuni punti controversi scaturiti dalla discussione fra noi di Effe sul convegno. Ad esempio si è parlato di autocommiserazione femminista. Certo, abbiamo detto e ripetuto che bisogna uscire dal circolo vizioso del vittimismo. Ma nel momento stesso in cui riconosciamo che al nostro interno ci sono compagne che non sono passate per la pratica del piccolo gruppo, preferiamo interpretare questi fenomeni come momenti di riscoperta della presa di coscienza personale come momento di lotta. In realtà non è un caso che questo atteggiamento sia venuto fuori durante la assemblea. Sappiamo tutte molto bene quanto il momento assembleare sia un modo complicato e fuorviarne di comunicare, quanta paura, aggressività, narcisismo scateni. Si è parlato anche di assenza di progetto politico generale, che doveva uscire dal convegno. Ma ci chiediamo, progetto politico o pluralità di progettazioni politiche? siamo un movimento o un’organizzazione? perché, dopo aver ritenuto a lungo positiva l’assenza di linee e progetti complessivi al nostro interno, perché alcune di noi ne sentono la mancanza orai II nostro modo di far politica ha — per fortuna — mille facce: è questo che ci ha salvato dall’essere ingoiate dagli ultimatum istituzionali sul terrorismo. È questo che ci ha permesso di rimanere non-violente e riflettere con calma, senza l’isteria una volta tanto maschile, su fatti così grossi come le BR e lo Stato, e ci permette di ricondurre il problema alle sue matrici reali: il potere maschile come potere di sopraffazione, che usa tutti i mezzi possibili per rimanere se stesso. Se servono le BR al gioco del potere, il potere le usa. Considerazioni che vanno ben oltre lo schierarsi col governo o contro il governo, che ci fanno andare avanti — fermo il nostro rifiuto del terrorismo — su contenuti di reale dissenso nei confronti del potere e dello stato maschili. Temi tutti da approfondire, comunque. Ci è sembrato bello accennare un’autocritica sul nostro modo (o non modo) di comunicare il patrimonio di femminismo alle altre donne. Però non si può rimproverare, quasi, alle giovanissime di trovarsi un approccio teorico prefabbricato che può evitar loro di ripercorrere tappe che tanto ci hanno fatto soffrire. Se l’esperienza di noi «vecchie» può servire alle giovanissime, ben venga. Non è detto che per essere femministe bisogna soffrire lacerazioni. È stato così per noi, può non esserlo per le «nuove». O forse — e ci sembra l’ipotesi più corretta — le «nuove» hanno altri ordini di problemi ed altre lacerazioni. Sarebbe interessante imparare a confrontarci con loro, invece di aspettare che si accorgano che aveyamo ragione noi. Se è vero che ci sono tra noi delle divisioni, non è vero che tutte le «nuove» sono estranee alla nostra storia. Quando però ci si accusa di essere incapaci di pronunciarsi chiaramente sulla violenza politica, non siamo d’accordo. Il «pronunciamento» che abbiamo fatto uscire dalla porta, perché al Convegno ci era stato esplicitamente richiesto, rischiamo di farlo rientrare dalla finestra, come se fossimo bambine cattive che per dispetto non fanno una cosa, per farla quando non sono osservate. Non vogliamo fare «la cacciata delle autonome» né dividerci in buone e cattive, ma rispettare i nostri tempi per il chiarimento. Il fatto stesso che il convegno sia andato avanti sul suoi contenuti, dimostrandone così la piena politicità, è stato un modo di rispondere alla violenza politica. Dove violenza diventa anche quella di chi ti dice: finora ti abbiamo lasciato giocare, adesso che la situazione è seria preoccupati della vera politica.