il tempo dentro di noi

l’8 marzo la RAI-TV ci ha fatto un regalo: un film sull’aborto dove d’aborto Parlano le donne in prima Persona. Questa è più una testimonianza che una critica 6 vuole aprire un dibattito.

aprile 1978

«quel tempo dentro di noi» è il tempo che ci sentiamo intimamente di poter dare, regalare, investire, sprecare, usare per gli altri; è il tempo che non viene riconosciuto come un diritto delle donne; è il tempo-spazio interiore la cui assenza caratterizza la nostra esclusione. Sempre proiettate all’esterno paradossale del nostro privato, che per noi non significa mai privacy, ma servitù e disponibilità quotidiane per le infinite esigenze di mariti, figli, suocere, mamme, nonne, nipoti, sorelle, fratelli, vicine di casa e portieri, lattai, fornai. Il tempo dentro di noi. Rispettare il tempo dentro di noi, avere del tempo dentro di noi, come avere uria stanza tutta per sé, è la condizione indispensabile per poter amare con amore. E se a quarant’anni, con tre figli, un marito marinaio spesso lontano che vogliamo amare quando c’è, che vogliamo per noi d’inverno quando non può navigare; e se proprio quando possiamo averlo, questo tempo da dedicare con gioia a quello che si è costruito in quarant’anni, arriva un altro figlio? Quanto ci costerà, che prezzo in fatica e in disamore e in rancore dovremo pagare? È questa la domanda che si pone la protagonista dello splendido film proiettato dalla 2a rete TV l’8 marzo scorso. Il dilemma di Helen di fronte a questa sua maternità del tutto inattesa è: continuare a cullare suo marito nel sogno di una famiglia numerosa, anche sapendo di non poterla mantenere, se non rinunciando ad una vita scorrevole e pacifica conquistata in tanti anni di duro lavoro, rinunciando ai piccoli spazi per giocare coi figli, per pensare un po’ a sé o negare questa nuova vita che sconvolgerebbe l’equilibrio raggiunto. Nessuno potrà aiutare la donna, né il marito, dolcissimo marinaio sognatore e spesso lontano, che rincorre ancora il sogno di ricomprare la fattoria che rubarono al padre quando lui era bambino; né la sorella più giovane, infermiera, che ha abortito a sua volta e che sente invece il peso di una maternità cui deve rinunciare perché non è sposata, perché lavora, perché non ci sono strutture che glielo permettono. Tutti i dialoghi fra le donne, lungo i quali si snoda il rosario della nostra condizione di donne, dalla sessualità, negata alla non-conoscenza del corpo, dal rapporto col maschio a quello col lavoro, non serviranno ad altro che a portare a consapevolezza un’inquietudine che sta in fondo all’ anima di Helen. Ma alla fine lei, come ciascuna di noi, rimarrà sola con la sua decisione: sola di fronte alla vita. «Si dice sempre che siamo soli di fronte alla morte e così è per tutti. Ma le donne, oltre ad essere sole di fronte alla morte, sono sole anche di fronte alla vita, che la si dia o che non la si dia», dicono nel film. Non sapremo se Helen abortirà o no. Per noi tutte non è determinante: la nostra vita ci ha insegnato che entrambe le strade saranno dolorose. Momento lunghissimo di autocoscienza questo film canadese di Anne Claire Poirer, realizzato in collaborazione con i collettivi femministi canadesi e commissionato dal National Film Board of Canada nel quadro del progetto Società JSIuova. E come in una riunione di piccolo gruppo mi sono sentita prendere dalla vicinanza. Io che non ho mai abortito. Io che non ho figli. Il tempo lunghissimo delle inquadrature fisse, i gesti lenti, il corpo delle donne a volte in posizioni scomode e contorte, a tratti rilassate, gli oggetti quotidiani quasi accarezzati nella riflessione, mi hanno ricordato tutte le nottate trascorse a parlare con un’amica e insieme le riunioni caotiche di Firenze e del Governo Vecchio. Le esitazioni, il pudore e la voglia di dire, e poi il discorso che continua da solo dentro o fuori di me, non so. Sei tu che continui il mio,-io che completo la tua frase. Non mi ha infastidito la macchina da presa traballante, non mi sono quasi accorta degli errori di montaggio, degli sbalzi di luce, il taglio teatrale delle inquadrature. Quello che ho avvertito è stato che sembrava naturale sentir dire alle due donne sullo schermo le frasi dette e ripetute per anni nelle nostre «sedi di movimento», -quasi una conferma (se mai ce ne fosse bisogno) che il «personale è politico» ed è uguale dappertutto: identici i temi della nostra oppressione, identici i ritmi della nostra battaglia. L’aborto ricondotto alla sua condizione di problema esistenziale delle donne, non un qualsiasi momento di lotta per i «diritti civili», ma elementare riconoscimento della nostra specifica «umanità» di donna. Paradossalmente la finzione dei film rende, una volta tanto, più reale la realtà della nostra solitudine. È questo il cinema delle donne? Le interpreti non sono delle pinrUp che parlano in astratto: ma due donne non belle, non brutte, vere. La poesia dei visi non belli l’hanno ormai scoperta an-, che gli uomini, Altman fra i primi. Ma quanta tenerezza in più, quanta familiarità in più in queste due canadesi. Quanta bellezza nei giochi d’amore fra Helen e il marito, nella voglia di vivere l’erotismo di una quarantenne. Quanti uomini parlano ancora di «oscena senilità» se a 35 anni abbiamo ancora voglia di fare l’amore? Non pochi, visto che il sesso ci è concesso dai 15 ai 25 anni e poi il silenzio. È questa la forma del nostro cinema militante? È questo il modo di legare i nostri bisogni e la nostra realtà ad una battaglia politica e alla diffusione dei nostri contenuti? Penso di sì. Dopo certi super 8 sulle manifestazioni, dopo certi audiovisivi sull’aborto, in cui ti dimentichi persino da che cosa nascono, che servono solo a farti credere che i caroselli in piazza e lo scontro col maschio che vede il film con te e si arrabbia, siano il nucleo della tua lotta. L’8 marzo scorso, dopo aver gridato e fatto girotondi e aver venduto fiori in piazza ecco: ti siedi davanti al televisore e ci sei tu e altre donne, vere, non schemi di personaggi, ma problemi reali sullo schermo, che ti aiutano a riannodare un filo che tende continuamente a spezzarsi: quello della continuità fra te stessa e il femminismo; quel tuo essere donna nella vita privata; quel sofferto tornare a casa e perdere coscienza di stare spalla a spalla con le altre, perché il tuo nemico è lì, dolce e caro, contraddittorio e pericoloso, il tuo compagno, il tuo bambino, la tua famiglia. Lì nel tuo privato sai che dovrai risolvere cose che non ti risolverà il movimento, se non a lunga distanza, se non sarai tu stessa il movimento. Ogni tanto nel film, un vago sentore di ideologico, di forzatura del dialogo, ma mi chiedo: lo sento io perché a volte svolgo il ruolo di «femminista», con tutto quello che le etichette vogliono dire, o esiste davvero? o quanto gli slogan sono riusciti a distruggere con l’abuso la realtà da cui sono usciti? (l’ha già scritto una donna dell’Appio Tuscolano, lo scorso numero). Quanto la mia militanza limita la comunicazione con le altre donne? Il cinema delle donne è ancora una ricerca. Ricominciamola. Esiste un linguaggio cinematografico al femminile? esiste la possibilità di non fare ideologia sulla nostra pelle? esistono le immagini che ti aiutano a crescere senza prevaricarti e senza offrirti pacchetti di slogan e consolatorie conclusioni? un cinema che sia il divenire stesso della tua lotta, che colga momento dietro momento il tuo percorso verso la liberazione, senza miraggi illusori, senza fantocci costruiti solo per essere distrutti?