dialogo di una omosessuale

una donna a confronto con se stessa sul significato dei suoi rapporti e del suo essere omosessuale

novembre 1976

la mia esperienza omosessuale è stata solitaria ed intendo dire che al principio tutte le esperienze che ci conducono lontani dalla norma sono solitarie e portano sofferenza. Mi sono sentita nella adolescenza appioppare l’appellativo di «selvaggia» e dopo di «ragazza strana» ed infine «di persona eccentrica» ed ora sono adulta, invecchiata, ho 27 anni, li ho tutti sulle spalle, vissuti nella mia esperienza intensamente. Essa mi ha graffiata, ne porto sempre indosso la tristezza e come una negra l’umiliazione, talvolta l’alienazione, altre volte la convinzione del come sia naturale e di come riesco a misurarla quietamente cercando sempre il significato dei sensi di colpa che mi nascono dentro quando mi scontro violentemente con le strutture borghesi.

Sono stata una adolescente dura, nevrotica ed amareggiata e costretta a rientrare in un ruolo, in una prospettiva femminile di pormi di fronte alla realtà. Ora sono una persona dai gesti bruschi, virili, dallo sguardo severo quando si posa in altri occhi a saggiare l’ironia o il rifiuto, orgogliosa come un angelo ribelle, pazza di gioia se amata da una donna.

I problemi che devo affrontare sono avvilenti e mi stancano, mi rendono nevrotica. Devo nascondermi: non potrei dire apertamente che sono omosessuale cioè che amo le donne, ho detto le amo e lo ripeto fermamente ai psicologi (?!) del Centro Reich di Napoli che nel corso tenuto nel 1974 ciclostilarono i seguenti appunti sulla omosessualità in cui leggere: «Uno dei più falsi luoghi comuni sul fenomeno della omosessualità è che l’omosessuale maschio «ami» gli uomini e che la femmina «ami» le donne. La psicoterapia fornisce continuamente la riconferma che le cose stanno esattamente all’opposto: cioè l’omosessuale maschio non ama affatto gli altri uomini: «odia» le donne. L’omosessuale femmina non ama affatto le altre donne: ma «odia» gli uomini». Io penso che un omosessuale in equilibrio ormonale non sia nevrotico in forma patologica e non abbia bisogno dello psicologo per risolvere il suo problema di vivere, penso che un omosessuale in squilibrio ormonale e quindi con forme patologiche di nevrosi abbia bisogno dello endocrinologo per migliorare il tono della sua personalità e comunque non dello psicologo. Non so di quali tipi di omosessuali si stesse parlando, evidentemente di quelli catalogati e deformati dalla prospettiva socio-culturale di questo o quello studioso naturalmente eterosessuale come Lowen che dice ad un certo punto: «L’omosessuale è come se avesse il corpo morto».

A me sembra che bisognerebbe distinguere da certe forme paranoiche di identificazioni nel sesso opposto, come ad esempio è il caso di David nell’Io Diviso di R. D. Laing (1) da quelle forme volute e coscienti, cioè controllabili che hanno gli omosessuali, di identificazioni in strutture e modelli del sesso opposto al loro. Resta inteso che certe definizioni bisogna lasciarle agli omosessuali così come bisogna lasciare alle donne il significato del loro destino e della loro lotta. Non odio gli uomini, i maschi, e chiedo di non essere odiata come sono stata odiata e tormentata, chiedo che non mi si aggiungano problemi ai problemi, chiedo di esistere senza nascondermi o controllare i miei gesti, il mio modo di vestire o di gestire perché non mi sento sporca, non mi sento pericolosa, non mi sento ingiusta, non mi sento diversa nel destino che la morte ci riserva. Mi sento una persona alla ricerca di se stessa, di un modo giusto e sano di vivere la mia esistenza in una società malata, agonizzante, disumanizzata nella sua corsa al benessere e ai falsi bisogni. Nel 1972 ho deciso di parlare agli altri della mia esperienza e della mia condizione di omosessuale, di mostrarmi quale ero senza vergogna. C’era un certo esibizionismo in tutto ciò poiché nelle lotte è l’elemento essenziale per colpire l’attenzione degli altri, per spingerli a riflettere sul significato di una azione, un significato non suggerito da altri o viziato dal rispetto delle strutture sebbene queste siano sempre preesistenti ai giudizi, in qualità di condizionamenti psicologici espressi attraverso i sensi di colpa qualora vi fosse trasgressione alla norma. Io stessa avevo sempre dentro questo senso di colpa di sfiorare l’assurdo e di essere una vergogna. Mi sentivo dire: «sono omosessuale» e dentro avevo il sangue fremente di colpa. Ero pazza di dolore perché borghese e condizionata dalla norma da cui non sapevo staccarmi e al tempo stesso ribelle e legata a me stessa dall’istinto che mi spingeva ad amare una donna. Avevo indosso come un marchio la morbosità, la curiosità e l’eccitazione di certi uomini, l’odio di certi altri; avevo come nemici che più mi ferivano il rifiuto, la paura di infettarsi, il perbenismo di certe donne. C’erano infine i guaritori e gli untori sia maschi che femmine.

Infine con i movimenti di liberazione il fenomeno è diventato di importanza mondiale ed io ho potuto conquistare con l’aiuto di altri il diritto ad esistere come persona non come fenomeno da baraccone da vivisezionare e tormentare.

In quegli anni mi comportavo in pubblico con molta libertà dovendo provocare reazioni negli altri e non avendo naturalmente un lavoro non avevo niente da rischiare. La persecuzione (né trovo altra parola più adatta) era sempre dei maschisti, cieca, cattiva, moralistica (sei comunque una puttana), padronale (due donne autosufficienti sono,due donne in meno da chiavare). Sono stati degli anni duri perché dura ero anch’io con gli uomini, perché sempre senza cazzo ero amata dalle donne e facevo l’amore con una donna; il sostegno fallico della loro superiorità si sgonfiava miseramente, la crisi della loro identificazione in dieci centimetri di pelle era traumatica e avvilente, dissacrante di tutto un potere istituzionalizzato e maschista. Questa crisi di identificazione era la mia vittoria e la mia sconfitta poiché ora anch’io sto rischiando giorno dopo giorno con sempre maggiore pericolosità di rientrare in un potere, quello omosessuale, e in un ruolo, quello maschile. Ora e sempre con tristezza rifletto spesso sulla mistica della mia virilità. Mi spaventa l’idea che una mattina svegliandomi mi possa ritrovare maschio per punizione come Gregor Samsa si è svegliato scarafaggio. Amo questa indeterminazione del mio corpo, questo oscillare in emozioni e sensazioni ora femminili ora virili, è un transessualismo senza nessuna pericolosità perché si dispiega nel perfetto equilibrio ormonale del mio corpo. Talvolta soffocata dalla tristezza e dalla solitudine mi sono scoperta- a pensare ad un modo più facile di vivere: amare un uomo o cosa forse più semplice per me: fare l’amore con un uomo. Ho tentato ed ho scoperto che avrei dovuto percorrere all’indietro milioni di anni di civiltà e di storia. Avrei dovuto frequentare la scuola della mistica della femminilità, l’unica in. cui gli uomini riescono a riconoscere una vera donna, tutte le altre sono da combattere, da lasciare in solitudine, da disprezzare.

Io proiettata dall’istinto in un ruolo di dominio, avrei dovuto accettarne uno di subordinazione benché devo ammettere che è la donna esecutrice della repressione a vari livelli in seno alla famiglia.

E devo ammettere che la quasi totalità delle donne aspirano ad un rapporto di forza: maschio-femmina, l’unico che le tranquillizzi per il rispetto che esso richiede delle strutture e delle istituzioni su cui si fonda la famiglia e il Sistema.

Questi pensieri mi sono poi apparsi come il tradimento di me stessa, della mia lotta ed infine di cedere alla vigliaccheria o semplicemente di proiettare come fanno le donne da sempre in un uomo le mie aspirazioni e di affidare per stanchezza a questo uomo la realizzazione del mìo destino. Questo vivere da ombra mi è poi sembrato più alienante del mio vivere da omosessuale. Credo —e certe ribellioni ad un ruolo lo comprovano — che la stanchezza di dominare, di essere forti sia comunque totale e senza sesso ed è il punto focale delle discusioni sorte in seno ai Sistemi sia, voglio dire, quello americano, sia inglese, francese, italiano..

La mia esperienza con l’ultima donna che ho avuto mi sembra significativa a riguardo di questo rapporto di forza e di ruolo anche in seno al rapporto omosessuale, e alla discussione intera sulla naturalezza del rapporto in seno ad una società innaturale.

D. – Che cosa ami in me?

R. – La tua forza e’ la tua aggressività.

D. – Ti sembro un maschio?

R. – No. Ma c’è qualcosa di inquietante in te. Sei una donna e il tuo corpo me lo ricorda e questo mi dà fastidio ma mi sento protetta da te, sicura. Ma mi chiedo sempre se questo rapporto sia giusto, mi sembra non-giusto.

D. – Cioè è giusto un rapporto maschio-femmina.

R. – Si.

D. – Ti sembra l’amore tra due donne, una cosa sporca?

R. – Sì, se penso alle donne che si amavano in Histoire d’O ad esempio, ma tra me e te non è lo stesso. E’ diverso. Tu sei virile ed io ti avverto diversa da me, dal mio essere donna… eppure ho sempre questo dubbio che non sia giusto… devo pensarci, ci sto pensando fin dal primo giorno.

D. – Quando ci siamo conosciute ti sono sembrata diversa?

R. – No. Devo ammettere che però hai questo modo di disporti verso una donna, di parlarle, di carezzarla con lo sguardo, di mostrarle con tutta te stessa questo amore infinito che hai dentro.

D. – E tutto ciò ti attraeva?

R. – Inconsciamente, perché dopo tu me lo hai spiegato ricordandomi delle parole, dei gesti a cui io mai avrei affidato consciamente questo senso, questa attrazione.

D. – Insomma prima che io te lo facessi rilevare, non vi hai mai pensato?

R. – Una sola volta. E’ stato un capogiro da cui mi sono subito ripresa dandomi della stupida.

D. – E poi?

R. – Poi… (sorrisino) sei tornata. Ero pazza di felicità per il tuo ritorno, di poterti parlare, di sentirti parlare, di avere sulla mia pelle la dolcezza dei tuoi sguardi e dopo… poi… quella delle tue mani.

D. – Come hai accettato la mia omosessualità; Voglio dire, quando ti ho detto quel pomeriggio nella mia camera che ero omosessuale, hai avuto una reazione, quale?

R. – Mi sono sempre immaginata un omosessuale in maniera diversa dal come me lo hai mostrato tu con i tuoi discorsi.

D. – Pensavi per dirlo in una frase codificata che l’omosessuale è un mostro?

R. – Non esattamente. Voglio dire che mi era sembrato un vizio, un modo sporco di fare l’amore di persone deliranti e nevropatiche.

D. – Ti sembro delirante?

R. – No.

D. – Ti sembro nevropatica?

R. – Sei di una calma esasperante, di una riflessività che rasenta la freddezza. Certe volte mi hai esasperato, per questo, perché io perdo sempre la calma e il controllo di me stessa. D. – In questo momento rinunceresti a me, a dialogare con me, a fare l’amore con me perché ho un corpo simile al tuo? R. – No.

Sebbene questi dubbi, questo amore nato in una vacanza estiva era libero, dolcissimo, sano, un dialogo verbale e poi epidermico, dopo continuato epistolarmente, benché vi fossero incertezze e continui dubbi.

«Devo proprio dire che questo fenomeno mi ha preoccupato seriamente perché non è possibile che io continui a pensare a te; ai momenti di intesa che ci hanno unite e ad un futuro prossimo incontro. Non capisco proprio per niente, non voglio neppure sforzarmi di capire niente, non voglio sciupare neppure un attimo questa bellissima sensazione di sapermi legata a te, alla tua anima così bella e forte». Questo incontro fu un fallimento. Le distanze e il tempo ci avevano subito divise spiritualmente. Ci fu della timidezza in noi, un non riconoscersi. C’erano d’altra parte nella sua vita ora due uomini tra cui scegliere: uno le avrebbe dato subito la tranquillità borghese, l’altro era invece l’amore, l’uomo desiderato e finalmente incontrato. C’ero io infine, scomoda e ribelle. Ci lasciammo in tristezza.

«Sei intuitiva, e capisci veramente quello che provo. E’ vero quando il treno è partito, ero triste, ma ero triste un pò per la mia situazione confusa (lo è tuttora) ma soprattutto perché temevo di averti ferita, di aver chiuso una bella amicizia. Sono stata felice quando finalmente ti sei fatta viva. Però devo ribadire quello che ho detto e che non voglio mai più ripetere’ (cioè intendo qui parlare del suo desiderio di ristabilire i termini di. una amicizia banale). Io ho bisogno di te, perché comunicare con te è bellissimo e mi arricchisce, F. che pure conoscevo abbastanza, non mi è mai piaciuta a questo modo che tu me la hai mostrata».

Le lettere che seguono sono poi, credo, la testimonianza di tutta l’influenza dell’ambiente in cui viveva e lavorava, di certi valori antiquati ma pur sempre fascinosi della borghesia, di certa ipocrisia clericale, di certa restrittività di humus provinciale dove ogni cosa è scandalo, peccato, figuriamoci poi l’accusa di omosessualità, (sic) «Insomma quello che voglio dirti ora è che io continuo a volerti bene, ad amarti in un modo semplice e puro che tu sai, a desiderare il tuo bene e a turbarmi per come tu ami me. La mia paura è che i nostri due modi di volerci bene non possano renderti felice».

In una lettera che segue: «Le tue lettere sono bellissime, sono per me un vero arricchimento. Ma come fai a dirmi delle cose così grandi e dolci. Io non ti dico mai niente, e le mie lettere ti arrivano col contagocce. Sai che in questo momento sto in crisi? Mi sono ad un tratto resa conto che sono una sadica, una piccola stupida sadica che/ prova un sottile piacere nel vedere le persone soffrire… Io sono sadica come ti ho detto prima ma il mio sadismo deriva da quello smarrimento che a volte mi assale (e che tu hai letto bene dentro di me) quando mi sento o temo di non essere amata, di essere niente per nessuno, e allora reagisco nel far soffrire le persone che pure dicono di amarmi… ma questo non sempre succede, in genere cerco di dare amore più che ricevere… donarsi agli altri significa dimenticate se stessi».

E con l’avvicinarsi di un nuovo incontro: «Da parte mia voglio prepararmi a questa vacanza con la massima serenità di animo e con la chiarezza di una idea sola: che ti voglio bene e voglio comunicare con te nel modo più semplice possibile, nel modo più spirituale possibile. Se non ti darò il mio corpo, te lo dico fin d’ora, sappi che ti do il mio cuore e il mio affetto più dolce e sincero… come ti ho già detto per telefono sono andata a pranzo dal vescovo… mi sono divertita abbastanza… continuo a ripetere a me stessa che sto vivendo un momento felice, c’è una persona come te che mi pensa sempre e a cui anch’io penso. E’ bellissima questa cosa, non sciupiamola in nessun modo».

E alla mia risposta: «Caro ciclone… quando ho letto la tua lettera mi sono sentita precipitare, mi sono resa conto che ero stata cattiva ed ingiusta nei tuoi confronti, e di come era giusto che tu mi abbandonassi e non volessi amarmi più. Se anche io nel mio pauroso egoismo ti rifiutavo me stessa, il sentirmi dire da te ‘ basta ‘ mi ha fatto sentire tremendamente sola. Poi oggi mi hai scritto ancora e poi mi hai telefonato e mi sembra di capire che quasi abbiamo fatto la pace… anche io non vedo l’ora di abbracciarti e di abbracciare con te la nostra cara Londra».

Ed infine prima della partenza ad una mia disgrazia: «Anche io sto contando i giorni che ci separano… Mi sento di volerti ancora più bene, sapendo che in questo momento soffri. Spero che i tuoi ti capiscano e non ti complichino di più la, vita. Spero anche io di non darti dispiaceri inutili e di vivere con te questi giorni che dovranno essere indimenticabili. Nonostante io sia triste per le tue disgrazie, non riesco a nascondere l’euforia della partenza e dello stare finalmente con te».

Eppure in quei giorni c’era sempre, sebbene il suo amore fosse dei più dolci che avessi mai avuto, un fondo di insopprimibile tristezza, questa idea pericolosa di essere un qualcosa di mancato o di manchevole, c’era sempre la angoscia di renderla infelice, di costringerla con quel nostro rapporto al confronto di se stessa in quanto donna e di riandare continuamente a discutere i termini della sua educazione medioborghese, e di verificare sempre quel suo bisogno psicologico di rientrare in un ruolo, quello femminile, e di come spesso costringesse me in un ruolo, suo malgrado, in una identificazione maschile che mi stava riconducendo alla passata alienazione, ad un odio per il mio corpo, al desiderio di un corpo di maschio, per ristabilire i cardini del perbenismo, del moralismo, dell’atavismo dei ruoli. Era credo ancora una volta il rientrare in una dimensione di repressività, di artificiosità e di rinuncia alla mia libertà di esistere col mio corpo di donna. C’era questa tristezza di decidere prima della partenza, ancora una volta mi chiedevo una scelta di coraggio e di problematicità. Lei, d’altra parte e’ per le altre vie si era posta questo problema urgente di decidere, infine scegliemmo prima che quello sarebbe stato il nostro ultimo incontro.

«E’ stata una settimana esaltante, un amore bellissimo che mi riempirà sempre di gioia. Solo, quando penso che ti ho fatto soffrire, mi viene una rabbia terribile verso me stessa e mi dico che sono egoista ed incapace di amare. Ti chiedo ancora perdono e perdono anche per tutte le lunghe marce forzate e i digiuni che hanno, costituito il nostro Tour de Force. Perdono se ora anche se sento già fortissima la tua mancanza, ho deciso, anzi abbiamo deciso, di mettere la parola fine a questa bella storia. Tu mi hai donato la Città, Io ti ho donato me stessa».

Di questi giorni sono dei colloqui che ho avuto con un compagno intelligente che ha riposto l’aggressività nella dolcezza ed ha scelto un modo nuovo di essere uomo pur tuttavia in certi limiti insopprimibili, un uomo triste per la mia stessa tristezza, pubblica e cioè per questa società immobile, ingiusta, povera e schiavizzata, in due parole: paternalista e analfabeta; privata e cioè per il fallimento dei suoi rapporti, del suo dialogo con la donna.

Mi è venuto di chiedergli che cosa è per lui una donna.

R. – E’ un essere che eccita la mia virilità, che mi fa sentire uomo. Gli ho detto allora al colmo della tristezza: «Se tu riuscissi a mostrarmi al fine che non c’è differenza tra un uomo e una donna, io potrei rinunciare a me stessa, arrendermi e scegliermi un uomo, pur tuttavia ho sempre questa idea, e anche i dialoghi che ho avuto con te, essi lo denunciano, di una certa artificiosità tra noi due, di una mancanza di spontaneità nel disporci l’uno verso l’altro, di una durezza che io non credo di avere quando sono con una donna».

R. – (Sorriso) Siamo chiusi nello stesso ruolo.

D. – E se io rientrassi in un ruolo femminile, saremmo due forze uguali?

R. – Milioni di anni di educazione, di strutture ci rendono due forze di cui una ha sempre ceduto all’altra.

La mia forza ora è nel pensare, credo che siano milioni di anni che noi donne non pensiamo e riflettiamo su noi stesse. Ma pensare significa anche dividersi ed ora è necessario dividersi per ristabilire un rapporto di uguaglianza tra due persone, tra queste due forze: uomo-donna in quanto persone e non maschio-femmina in quanto forze che tendono al superamento e allo squilibrio.

Mi sono lasciata abbracciare dal mio compagno, il suo abbraccio è stato infantile, asessuale e non mi imbarazzava perché non metteva in discussione il mio ruolo, non mi poneva di fronte alla problematicità di una scelta che mi avrebbe divisa da lui, perché al fine la mia omosessualità mi è sembrato questo essere puri in una società di impuri, di voler essere libera dal condizionamento di una società che mi condiziona, questo voler essere autentica di ogni cosa, di ogni azione, il significato del mio modo di pormi di fronte alla realtà, di mettere in discussione ogni cosa al fine di trovarne il valore qualitativo. E’ il mio ‘ Pranzo Nudo ‘ per dirla con W. Burroughs. «L’idea che il nostro amore è realmente esistito mi viene dal fatto che ora senza di te mi sento sola, mi manca la tua forza e questo modo che hai di aggredire la vita per piegarla a te stessa. Ma scusami, tu ora ti arrabbierai e penserai che sono la solita cretina che continua a rivangare una cosa morta e sepolta, volutamente».

Questo ultimo messaggio ha colmato di gioia la mia angoscia di essere stata subito dimenticata, riposta e di aver fallito nella mia volontà di portare un messaggio, nel mio invito a pensare mettendo in discussione ogni cosa. Ma c’è da chiedersi se in questa nostra solitudine, in questo modo di stare vicini nel dialogo e di stare insieme tormentandoci non ci sia il segreto della nostra salvezza spirituale. Ma a questo punto amerei anche chiedermi con Geltrude Stein: «Scusate, ma quale era la domanda?».

(1) R. D. Laing, L’io Diviso, p. 81, ed. Nuovo Politecnico. «Ma ad un certo punto si era accorto di non potersi più fermare: si sorprendeva a camminare, senza volerlo come una donna; a vedere e pensare come potrebbe farlo una donna».