storia di un crimine ginecologico

«Questi santoni in bianco sanno bene che il loro sapere è il loro potere sugli altri»

novembre 1976

ho voluto raccontare una mia esperienza personale perché tutta la rabbia, il dolore e la frustazione che mi ha lasciato dentro, siano in qualche modo trasformabili in qualcosa di positivo, di utile ad altre donne. La mia prima visita ginecologica l’ho fatta all’AIED, dopo sei mesi che prendevo la pillola (Evanord), datami dallo stesso istituto, e già da allora ebbi modo di spaventarmi: il medico che mi visitava era in evidente difficoltà e finì per chiamare una collega per un breve consulto. Alla fine decisero però di comunicarmi che non avevo altro che l’utero sinistrorso, ossia spostato a sinistra, cosa non grave, mi assicurarono. Ho continuato quindi a prendere la pillola per circa 2 anni, interrompendo ogni sei mesi, senza nessun disturbo grave, tranne delle vaginiti, la cui responsabilità non tutti attribuiscono alla pillola. Finché un giorno, dopo una visita ginecologica al Centro di Medicina Preventiva dell’Università di Roma, mi comunicano che devo operarmi urgentemente, poiché quello che si sente a sinistra non è affatto l’utero, il quale si trova perfettamente al suo posto, ma una cisti all’ovaia sinistra, Io, che fra l’altro non soffrivo di nessun disturbo, cerco di convincermi che non è vero, comincio a girare come una pazza da un ginecologo all’altro, approdando all’ambulatorio dell’ospedale S. Giovanni. Qui visitano in una stanzetta tre donne contemporaneamente, mentre altre due si svestono, aspettando davanti a questa sfilza di cosce allargate, il loro turno. Il ginecologo ti visita frugandoti dentro per un attimo mentre parla col collega accanto che sta facendo la stessa cosa, e tu sei lì come un pezzo di carne, come un animale, senza capire niente, senza contare niente. Dopo questa visita lampo lui però ha già capito tutto e ti dice che non solo una cisti ovarica potrebbe essere, ma un fibroma… chissà?

Meglio ricoverarsi massimo fra due giorni, con tutte le analisi già fatte. A questo punto mi convinco che ho un cancro e passo dei giorni di terribile angoscia, popolati da pensieri, la cui amenità si può facilmente immaginare. Riesco, dopo più di un mese di attesa stressante, poiché anche entrare in ospedale è un previlegio, a ricoverarmi al «Regina Elena», istituto specializzato nella cura dei tumori, naturalmente avendo ima raccomandazione. Noto, in seguito, che riescono ad entrare con una certa facilità solo le pazienti private dei professori che lavorano nel reparto e che quindi hanno già sborsato 40-50.000 lire per visitarsi nelle loro lussuose cliniche private (la Paideia, per es., o nei loro studi). Al «Regina Elena» mi prognosticano di nuovo una banalissima (per loro) cisti ovarica. Prima dell’operazione volevo parlare con qualche medico, farmi spiegare perché quasi improvvisamente e senza che avessi accusato mai nessun dolore, mi trovavo ora nella condizione di dovermi operare. Credevo fosse un mio diritto sapere cosa mi stava accadendo e perché, a cosa servissero le cure che mi stavano facendo, come si sarebbe svolta, perché era necessaria e quali eventuali conseguenze avrebbe portato l’operazione che stavano per effettuare sul mio corpo. Mi sbagliavo: non sono riuscita a cavare una parola né dalla bocca dello scarso e insufficiente personale sanitario (che è ricco però di suore, le quali ti impongono, tanto per consolarti, un rosario interminabile recitato tutti i pomeriggi nel corridoio comune, e ti salutano prima di entrare in sala operatoria con l’incoraggiante: «Si raccomandi alla madonna!»), né, tantomeno, da quella dei medici, che del resto si facevano vedere assai raramente, o in situazioni in cui non era possibile un colloquio. Questi santoni in bianco sanno bene che il loro sapere è il loro potere sugli altri, e se lo tengono ben stretto, non sono disposti a cederne neanche quelle briciole che basterebbero a smorzare un poco la paura e la penosa sensazione di impotenza di chi è costretto a ricorrere a loro.

Ti infilzano dentro un letto e ti fanno perdere ogni personalità, ogni senso di responsabilità: non sei che un oggetto nelle loro mani, non devi che accettare passivamente, e con molta riconoscenza, le cose misteriose e benefiche che fanno sul tuo corpo. Io non ho avuto neanche la forza di reagire come avrei voluto, quando, risvegliatami dall’anestesia, il mio compagno mi ha detto che il professore (naturalmente perché interrogato) gli aveva comunicato che mi avevano tolto l’ovaia e gli annessi (tuba ecc.). Ero troppo debole ancora per provare rabbia, ma mi sono sentita come se mi avessero bastonata. Mi avevano fatto credere che non ci sarebbe stata da asportare che la cisti, un piccolo intervento a livello di una appendicite, e invece avevano buttato via una parte del mio corpo senza dire niente, senza neanche avermi fatto balenare prima un’eventualità del genere.

Dopo l’esame istologico sono stata dimessa, l’ultimo tentativo di parlare con un medico prima di uscire, anche per farmi consigliare qualche metodo anticoncezionale che non fosse la pillola (pensavo che questa non fosse più adatta a me) fallì. Mi sbattevano fuori con una brillante diagnosi di guarigione; cosa volevo di più? Me la vedessi da sola con i miei dubbi e problemi! Sono tornata all’ambulatorio del «Regina Elena» per le visite di controllo, mi hanno dato altre medicine, ho sentito dire fra di loro le parole «aderenze» e «infiammata», ma mai si sono degnati di dirmi cosa stessero dicendo di me, delle mie condizioni.

Mi sono rivolta ad un ginecologo privato per risolvere i miei problemi di contraccezione, sentendomi prima di tutto incitare a sfornare al più presto un bambino, volendolo avere fra qualche anno, data la mia condizione, potrei non essere più in tempo (ho 20 anni)! Dopo la visita mi comunica ancora che sente qualcosa all’ovaia destra: potrebbe esserci una cisti anche qui. Al «Regina Elena», dove mi precipito, mi dicono che va tutto bene: c’è solo un normale gonfiore nell’ovaia che si trova improvvisamente a fare un lavoro doppio (sono passati solo due mesi dall’operazione). Ma io sono ormai terrorizzata, appena entro in uno studio medico mi viene una crisi, penso le cose più terribili per ogni doloretto che sento, soprattutto ho l’angoscia di rimanere incinta perché penso assurdamente che un aborto potrebbe farmi morire. A livello inconscio, credo che tutta questa terribile esperienza mi abbia fatto scattare meccanismi antichi, solo razionalmente superati, che mi ricordavano come ero donna in quanto sesso, e mi facevano sentire come mezza castrata e meno donna perché con minori possibilità di procreare. Ho pensato che un ginecologo donna, in quanto tale, mi avrebbe saputo aiutare, ma anche questa è stata una delusione.

Non ho che disprezzo e odio, ormai, per questi sciacalli in camice bianco, che speculano schifosamente sull’ignoranza, sulla paura e sulla vita della gente, e mi chiedo se quello che mi hanno fatto era veramente necessario, o si poteva evitare. Ho pensato con quanta serenità alcuni medici, nell’800, dichiararono di aver rimosso dalle 1500 a 2000 ovaie, per ovviare a problemi come la masturbazione e le tendenze erotiche troppo accentuate per le donne. Ora che ho sperimentato, oltre a saperlo astrattamente, sulla mia pelle il ruolo dell’istituzione medica, la sua repressione, la sua totale indifferenza per la dignità e i reali bisogni dell’individuo e delle donne in particolare, in cambio della sua completa dedizione al potere e al profitto, so che bisogna cercare un aiuto ed un riferimento vero solo nel movimento delle donne che vogliono riconquistarsi il controllo del proprio corpo, della propria sessualità, della propria maternità, e che hanno capito quanto le istituzioni mediche siano un punto strategico per la loro liberazione, proprio perché sono un punto strategico per la loro oppressione.