seveso: la scelta non esiste

abortire un figlio voluto o mettere al mondo un figlio deforme? In ogni caso una violenza

novembre 1976

avremmo molte cose da dire a proposito dell’«incidente» dell’Icmesa: sui crimini e le complicità di tutti i tipi che si sono rivelati ad ogni livello delle strutture sociali, politiche, sindacali e assistenziali in questi mesi; sulle scelte politiche e sindacali della «sinistra»; sulle multinazionali e sulla scienza intesa come «progresso». Ma prima di tutto e soprattutto ci preme fare alcune riflessioni in prima persona su una realtà che conosciamo tutte molto bene e che ci accomuna alle donne di Seveso perché fa parte della nostra esperienza comune di donne. Parliamo ad esempio dell’angoscia che ci prende tutte le volte che abbiamo bisogno di ricorrere a una istituzione sanitaria. Conosciamo molto bene l’incomprensione, il disprezzo, la negazione come soggetti coscienti e responsabili che ci aspetta quando, ridotte a un numero o a un organo malato, siamo nude davanti a un medicogiudice inappellabile e ignorante dei nostri bisogni. Sappiamo anche molto bene che trovarsi nella necessità di abortire — perché di necessità si tratta, mai di libera scelta — è una delle esperienze più violente attraverso cui passa urta donna, perché nell’aborto tutte le carenze, le disumanità e i ricatti economici e psicologici della nostra società si ripresentano ingigantiti al massimo. Le donne di Seveso e dintorni stanno sperimentando sulla propria pelle tutto questo, con una drammaticità resa ancor più angosciosa dal sentirsi gli occhi puntati addosso, bombardate da notizie e informazioni contradditorie, al di sopra e contro i loro reali bisogni. Apparentemente è stata data loro ogni assistenza, tecnica e psicologica e, data l’eccezionalità dell’evento, pareva che i consueti ostacoli si appianassero, persino l’aborto era contemplato nella «rosa» di scelte offerta alle donne «contaminate». Ma l’illusione, se pure qualcuna si è illusa, è durata molto poco. A tut-t’oggi su centinaia di donne incinte della zona solo una ventina hanno abortito; per altre nella trafila delle analisi e degli accertamenti la gravidanza è arrivata a un punto dal quale è difficile tornare indietro; altre ancora si sono arrangiate da sé; una donna è morta e tutti si sono fatti in quattro a dire che non c’entrava la diossina e non era per aborto clandestino; nessuna donna sa ancora con certezza quali rischi corre e correrà negli anni futuri, se le sarà possibile avere altre gravidanze, quando, con quali precauzioni, aspettandosi quali danni o percentuali di rischio. Intanto in Parlamento sta per riaprirsi il dibattito sulla nuova legge per l’aborto, ognuno sta bene attento a riaffermare le proprie convinzioni e i propri distinguo arrampicandosi penosamente sui vetri; si scende ancora in piazza a gridare «aborto libero, gratuito e assistito»; il Cisa, perso ogni ritegno, sfrutta la disperazione di chi non ha altre vie d’uscita per battaglie che sono veramente solo le sue. Ciascuno a modo suo gioca e sperimenta sulla pelle delle donne. La pratica di lotta delle donne, per scoprirsi soggetti politici, non c’è, è ancora una volta scavalcata e stravolta.

Seveso diventa emblematica: vediamo perché. L’assessore Rivolta rende accessibile l’aborto alle donne che lo richiederanno. -Si parla, per la prima volta in concreto, di libertà di decisione, di scelta da parte della donna; ma scegliere che cosa, dopo un danno irreparabile che non concede margini di scelta? E’ di un cinismo e di una sfrontatezza insultante per tutte noi parlare di possibilità di scelta a una donna che ha voluto una maternità e si trova nell’impossibilità di portarla serenamente a termine perché altri, senza curarsi nemmeno della sua esistenza, le hanno avvelenato persino l’aria che respira. Non solo: nella farsa a soggetto in cui si dice alla donna «ti lascio libera di decidere se avere un figlio desiderato ma certo non sano o il non averlo più» i responsabili si lavano democraticamente le mani. La loro coscienza sporca si scarica ributtando la soluzione del dramma fattosi così tutto privato e personale sulla donna, lasciata sola a decidere. Inoltre, come può decidere una donna se abortire o no, quando viene lasciata nella più completa ignoranza sui reali effetti della diossina, anche e soprattutto a lungo termine, sul suo organismo e sul feto, ed è fatta invece oggetto di mostruose sollecitazioni?

Le poche informazioni che hanno le donne nei consultori gliele danno quelli di Comunione e Liberazione, che o incitano la donna a partorire tanto poi «se nascono bambini deformi troveremo chi li vorrà adottare», oppure, richiesti di informazioni contraccettive rispondono, tanto per fare un esempio, che «il diaframma si mette nell’utero».

Ma prendiamo il caso di una donna che sia arrivata alla «scelta» dell’aborto. Ha potuto ottenerlo, e come?

Ormai è nota la trafila: prima deve rivolgersi a un consultorio, dove si trova davanti uno sbarramento di consulenti (?) crociati del feto che con aria ispirata e comprensiva tranquillizzano la donna dicendole di aspettare con fiducia nella divina provvidenza. Segue il colloquio con un neurologo, generalmente preoccupato solo di accertare la pazzia; se la donna riesce a strappare un parere positivo, comincia il secondo atto. Deve farsi ricoverare in ospedale, e qui la trafila ricomincia: lunga serie di accertamenti clinici (la necessità dell’intervento deve essere «medicalmente accertata e non altrimenti evitabile»), altro neurologo che, invece di rifiutare un ruolo che non gli compete, si fa ,complice attivo e consapevole degli avvelenatori; infine ecco il ginecologo, che può anche essere del tipo «obiettore di coscienza», quello che nell’atto di estrarre il feto dall’utero si fa prendere da un’isterica crisi di coscienza. Dopo una settimana di degenza in un clima di linciaggio morale e incomprensione, finalmente l’aborto.

Così si può abortire a Seveso e dintorni. Niente fa pensare che in futuro le cose saranno diverse, anche se passerà una legge «liberalizzata». Certo qualcosa è mutato rispetto a solo pochi anni fa, quando neanche questo sarebbe stato possibile. Certo una «buona legge» rende possibili altri passi in avanti verso l’autodeterminazione della donna e il cambiamento delle strutture e della mentalità in cui siamo immerse. Non dobbiamo però dimenticare neanche per un istante che quello che veramente vogliamo è il diritto di non abortire, una maternità diversa, una sessualità che sia nostra. Esigiamo la possibilità di abortire, laddove ne siamo o ne saremo ancora costrette, come un atto di legittima difesa, non di liberazione. E’ solo la arretratezza della nostra condizione che ci costringe a quella che quasi sempre è una lotta di retroguardia, a cui molti hanno tutto l’interesse a costringerci e noi tutto l’interesse a non buttar via troppo tempo e energie. Rifiuteremo comunque, come molte donne di Seveso già stanno facendo, di farci passare per pazze in cambio di quello che è solo, lo ripetiamo, un atto estremo di difesa. Rifiuteremo che chiunque si arroghi il diritto di dirci ancora cosa dobbiamo fare della nostra pelle, della nostra vita.