alla ricerca della coppia aperta
sono stata, fino a 28 anni, rigidamente monogamica. Ora ne ho trenta, di anni, un rapporto assolutamente sbagliato e sfociato in un matrimonio fallito in partenza alle spalle, alcuni rapporti, sempre monogamici e tradizionali e sempre sbagliati finiti malissimo (uno con un aborto vissuto sola come un cane e senza una lira), e finalmente vivo adesso, da due anni, una storia vera, piena, problematica, con un compagno della mia età, a sua volta con esperienze superate vissute in precedenza, che ha appena iniziato a fare autocoscienza (io inizio la settimana prossima).
Sono cambiate molte cose, in questi due anni, dentro di me: è venuta fuori la mia disponibilità mentale (e anche quella sessuale, ma con molta più difficoltà sessuale (repressa istituzionalmente da sempre, e da sempre ignorata, ho avuto altri tre incontri belli, vissuti con sincerità totale e per nulla superficiali, di cui il mio compagno era naturalmente al corrente, e sto sentendo sempre meno lontana l’esigenza di un incontro sessuale anche con una donna, dolcezza e complicità, non competitività, confronto con una persona uguale a me, specchio non deformante di me stessa.
Sta venendo fuori tutta la mia vitalità repressa, stanno cadendo da soli, disfatti dal tempo e dalle fasi storiche che viviamo, molti (non ancora tutti, certamente) falsi schemi sui quali ho per anni costruito false storie, false emozioni e false aspettative. E, soprattutto, false sicurezze.
Prima fra tutte, la sicurezza del «matrimonio» o di tutte le unioni di questo tipo, in cui ci si sceglie «per sempre» (tu sarai la madre dei miei figli e roba del genere), ma non l’amante con cui vivere emozioni, quello si cerca altrove, magari con la collega di ufficio, «separata»), e si danno garanzie che nessuno può dare, in nome di quella sicurezza di cui tutti, chi più chi meno, abbiamo ancora bisogno.
Sicurezza che vuol dire certamente affetto, amore, sincerità, solidarietà, punto di riferimento, questo sì, e non certo, come invece ci inculcano da secoli, soprattutto a noi donne, qualcosa di scontato da avere, comunque, a prezzo carissimo ,in cambio di castrazioni, rinunce, sacrificio di se stesse, e, soprattutto, FEDELTÀ’.
La sicurezza che sto imparando a trovare (con ancora molte ricadute, però) in me stessa, nel mio essere una persona che pensa, che ha le sue esigenze insopprimibili, che lavora, che si rapporta con gli altri, che ha un ruolo politico e sociale. Nel mio essere donna e femminista, nel mio totale rifiuto dei ruoli, da sempre funzionali al sistema capitalistico-borghese in cui ci troviamo a vivere, che nei suoi primordi di organizzazione, per assicurare la certezza dell’individuazione degli eredi e della trasmissione in eredità delle prime forme di proprietà privata, ha subordinato biecamente la donna al maschio, imponendole una poliandria (giacché di questa, e non di poligamia, sarebbe corretto parlare) coatta e schiavizzante, gratificata solo, senza alcuna possibilità di libera scelta, dal suo ruolo «eletto» di moglie e madre, nella nuova famiglia monogamica patriarcale.
Quello che è successo da allora nell’organizzazione familiare e sociale lo conosciamo bene, lo viviamo ancora noi sulla pelle, lo vivevano in modo ancora più allucinante le nostre madri.
La mia sessualità, di cui ancora so di aver scoperto, e con molta fatica, solo una piccola parte e con casini e contraddizioni e paure imprevedibili, sta venendo fuori però anche come gioia, piacere, amore, e anche come modo nuovo di comunicare, di esprimere tutta una gamma di sentimenti, anche l’amicizia. Non è vero che, se si è innamorate profondamente di un uomo (e parlo per ora, in quanto eterosessuale), non si prova attrazione fisica, anche violenta, per altri uomini. I quali in genere, almeno per me, devono comunque rispondere a determinati requisiti (essere non maschisti, «compagni», sensibili, per esempio), e con i quali si possono avere tanti tipi di rapporti, anche profondi o solo divertenti, possibilmente senza supercoinvolgimenti sentimentali, «senno’ è un casino».
I rischi ci sono, naturalmente, e grossi, non essendo abituati a queste cose: rischi di scambiare sensazioni sessualmente forti per innamoramento o cose simili, rischi di grosse delusioni (pochi uomini sono preparati a rapporti di questo tipo, veri, senza nessun desiderio di prevaricazione e di possesso, spesso in realtà si limitano alla scopata o si innamorano per davvero); infine, aumento dei rischi di incasinarsi e magari innamorarsi del nuovo partner. Ma, anche questi, sono falsi problemi, che si risolvono da soli, nel senso che poi le parti si chiariscono inequivocabilmente, e anche a prezzo di chiarimenti imbarazzanti o incazzati, ogni rapporto ritrova la giusta collocazione. D’altra parte, io continuo ad essere convinta che la monogamia naturale non esiste, e che essere femministe deve voler dire, subito, rifiutare i ruoli e tutto ciò cui i ruoli stessi sono finalizzati. Non basta esprimere atteggiamenti nuovi in schemi vecchi. Il modo riformista di vivere il personale è, evidentemente, riformismo politico. Io sono profondamente convinta di questo. E metterlo in pratica, non è mica facile, anche se a volte è estremamente piacevole. Significa lottare contro abitudini mentali e condizionamenti pesantissimi e nello ‘ stesso tempo confortanti, piangere di rabbia contro la gelosia, assoluta contraddizione, che ci portiamo appresso e che rischia continuamente di mandare a farsi fottere esperienze nuove e vitali, il senso di paura della solitudine, che coglie a tradimento e da cui è difficile difendersi, in una società, ripeto, la cui cellula portante è la struttura familiare, la divisione del lavoro, lo sfruttamento, i ruoli, e dove tutto è organizzato in previsione della coppia.
Combattere contro il senso di possesso con cui si pretende di requisire il/la partner e la sua vita emotiva e sessuale, rispettare lo spazio vitale e individuale del compagno (e pretendere, ovviamente, lo stesso trattamento), imparare a godere anche dei suoi momenti belli vissuti con altre persone, senza sentirsene escluse. Tutto questo costa tanta fatica, ed è umano che qualcuna dica «mica ce l’ha ordinato il dottore!». Certamente farsi violenza, se proprio non ce la sentiamo, e andare avanti solo su spinte ideologiche è sbagliato, ma secondo me è altrettanto sbagliato adagiarsi, compiacersi quasi dei propri limiti senza mettersi in crisi («io non ce la faccio»), e non tentare almeno di fare qualche piccolo sforzo graduale, qualche piccolo passo avanti, Che potrà poi rivelarsi meno difficile del previsto, e potrà magari significare creatività nuova, amore in espansione, emancipazione vera, e soprattutto liberazione, riappropriazione dell’espressività del proprio corpo, della propria indipendenza psicologica e autonomia individuale di persona, di donna, di femminista, di soggetto politico.
(Resta poi, immane, il problema della natura della sessualità femminile, tutta da scoprire).