coppia: a ciascuna la sua

molte di voi ci hanno mandato testimonianze ed articoli a seguito del nostro numero su «La corda doppia si chiama coppia». Pubblichiamo uno stralcio da una tesi di laurea di una femminista milanese e una testimonianza.
Continueremo il dialogo nei prossimi numeri.

dicembre 1976

premessa

l’idea di condurre una ricerca tra le compagne femministe sul loro rapporto di coppia con l’uomo è nata da una lunga e travagliata riflessione su quello che è stato il mio rapporto di coppia, sulle motivazioni che ne hanno determinato la fine e su come io ne vivo le conseguenze. Per cui mi sono posta, io per prima, soggetto-oggetto di questa ricerca rivolgendo a me stessa quegli interrogativi a cui, in. un secondo momento, hanno dato una risposta altre trenta donne.

Il mio interesse verso il rapporto uomo-donna e, più precisamente verso le modalità con cui questo rapporto è vissuto dalle donne che attraverso il movimento femminista hanno preso coscienza di sé, è motivato da due ordini di considerazioni: il desiderio di un confronto aperto della mia «nuova» identità di donna con quella vecchia e stereotipata dell’uomo (se è vero che io sono cambiata sarà mutato almeno in parte il mio rapporto con l’altro sesso), la sicurezza, forse un pò fideistica, forse un pò illusoria che l’amore esiste ancora, anche se può aver perso il suo alone romantico e i suoi caratteri di unicità e di eternità, e quindi l’idea di scoprire i suoi caratteri attuali.

In effetti, devo tener presente che le condizioni strutturali sulla base delle quali io intrattengo dei rapporti con il sociale e quindi anche il rapporto con l’uomo, mi pongono in una situazione, direi, privilegiata. Sono una donna che vive a Milano (un ambiente che per certi versi è molto vivo e stimolante), ho una laurea, ho un lavoro e perciò sono autonoma economicamente, ho acquisito una coscienza politica attraverso una lunga esperienza nata con le lotte del ’68 e che ora si sviluppa nel femminismo. Anche le donne che ho intervistato vivono una situazione molto simile alla mia. Esse provengono nella maggior parte dalla piccola-media borghesia; la loro età varia dai 21 ai 33 anni. Hanno un titolo di studio di scuola media superiore o universitario, svolgono un’attività lavorativa, più o meno stabile, più o meno gratificante ma che assicura loro un reddito autonomo.

Vorrei precisare che la mia intenzione non era quella di costituire un Campione così omogeneo: in realtà l’unico criterio che ho usato nella scelta di queste donne è che esse provenissero dai diversi gruppi femministi presenti a Milano. Dalla constatazione di questa omogeneità può derivare perciò, una prima considerazione : le femministe milanesi costituiscono una certa élite rispetto alla maggioranza delle donne e, pertanto la loro esperienza, le loro scelte di vita e di rapporti non sono generalizzabili. Ebbene, credo di poter dare per scontato che la realtà che vivono queste donne è una realtà da cui molte altre sono emarginate, escluse; ciò però non ne sminuisce il significato, l’importanza, nella misura in cui esse possono rappresentare un tentativo di ribellione verso forme tradizionali di rapporto (di cui la donna ha sempre subito tutto il carico di oppressione e di negazione) e, per contro, di creazione di nuove forme di rapporto (in cui la donna finalmente si pone come soggetto attivo).

In questo processo essa fa riferimento a dei fondamentali punti d’appoggio: la famiglia d’origine, il femminismo, l’uomo. Il femminismo in quanto prassi di rapporto con le altre donne, è il momento centrale della evoluzione delle donne intervistate poiché ha significato e significa tuttora, per la grossa esperienza di analisi e di confronto del proprio vissuto con quello delle compagne, il recupero almeno a livello emotivo del rapporto con la madre, la introiezione d’un «oggetto» buono, che ha, reso possibile la rivalutazione, in positivo, del rapporto con se stessa e con gli altri e perciò anche il rapporto con l’uomo. 

 

convivenza e non convivenza

Nelle donne intervistate inoltre le aspettative nei confronti del proprio uomo variano al variare del tipo di rapporto, a seconda cioè che si tratti di un rapportò di convivenza (matrimonio, convivenza in coppia; convivenza allargata a più persone) o di non-convivenza (v. tab.). La convivenza nelle sue forme, più o meno sganciate dagli schemi del rapporto tradizionale, comporta pur sempre una messa in comune delle basi pratiche della vita: la casa; il reddito, la presenza fisicq il quotidiano,,,! figli.

Lei 28 anni – lui 39 anni sposati civilmente da 5 anni.

Appena conosciuto mio maritò, è stato un colpo di fulmine, abbiamo deciso che avremmo vissuto insieme con una voglia di anti-conformismo, fregandoci dei genitori, con cui peraltro d rapporti erano molto complessi. Poi, evidentemente, subentrano altri bisogni di sicurezza, per cui abbiamo deciso di sposarci. Sia per me che per lui c’era proprio un bisogno di sicurezza che anche l’istituzione ci poteva garantire. Non è vero che ci si sposa sempre per compiacere i genitori. Ti accorgi che c’è anche questa componente, perché se non ci fosse nient’altro saresti disposto a fare una lotta dura.

Lei 26 anni – lui 32 – convivono da 5 anni.

«La scelta di convivere è avvenuta in modo spontaneo; sembrava scontata perché derivava da una necessità pratica. È venuta come soluzione dopo un anno che il rapporto funzionava, senza viverla come una scelta».

Lei 23 anni – lui 28 convivono con una coppia e un ragazzo da tre anni.

«Io sono entrata in un primo tempo in una comune. Anche lui era in cerca di una casa, così a poco a poco si è insediato e abbiamo deciso di convivere. L’idea era già chiara fin dall’inizio. Pensavamo che non avesse senso vederci una volta ogni tanto; anche dal punto di vista sessuale. Eravamo contrari al matrimonio in quanto istituzione. Si pensava che il convivere insieme ad altre persone favorisse il non chiudersi della coppia, perché siamo partiti con l’idea della coppia libera, aperta.»

In questo caso il tentativo è quello di superare, all’interno del rapporto, la fissazione dei ruoli sessuali e arrivare ad una gestione paritaria del rapporto a due. Il che non significa fare una lotta dura contro l’uomo autoritario, repressivo, violento (perché questo tipo d’uomo non esiste più nelle nostre esperienze) quanto saper condurre un gioco molto raffinato e sottile con un uomo che spesso a parole esprime la propria solidarietà, la disponibilità ad un rapporto paritario ma che di fatto mantiene molti suoi privilegi; lasciando ancora alla sua compagna tutta la responsabilità della gestione domestica (anche se l’aiuta nei lavori di casa), togliendole direttamente o indirettamente spazi vitali che lei ha il diritto di sviluppare in modo autonomo.. E qui mi riferisco ai piccoli ricatti quotidiani, ai sensi di colpa che ti fanno sentire male se lo lasci Solo a casa, se. non rispondi a tutte le sue richieste di sicurezza, di continuità, di possesso. Questi sono problemi che per gran parte vengono superati in un rapporto di non-convivenza che per sua natura si pone al di là dei confini posti dall’istituzione stessa della convivenza e teoricamente dovrebbe basarsi su due autonomie.

Lei 25 anni lui 30 – vive in una comune – lui da solo.

«Quando l’ho conosciuto non avevo indicazioni di nessun tipo circa l’impostazione del rapporto. Abbiamo fatto insieme un’esperienza di convivenza di un anno, determinata dal fatto che eravamo insieme all’estero, che non è stata né positiva, né negativa. Non l’abbiamo vissuta come esperienza che doveva prolungarsi nel tempo. Non ho sentito l’esigenza di riprenderla. Ho voluto piuttosto seguire i miei stimoli, facendo un salto nel buio. I motivi per cui io non convivo sono: la convivenza porta meccanicamente a dover dividere gli amici, il tempo libero, al sentire la responsabilità della noia altrui, al dividere gli altri rapporti, anche sessuali che tu instauri, a meno di non fare la M.me Bovary della situazione… .

Lei 33 anni – lui 38 – lei vive con una amica – lui da solo.

«La scelta della non-convivenza è motivata sia dal fatto di volere una mia sfera personale ma anche perché avrei potuto morire all’idea di vivere con quel tipo d’uomo. Forse questo è in relazione al fatto di non sentirmi abbastanza innamorata. Poi adesso mi vedo più sola. Le basi fondamentali della vita: la casa, il lavoro direi che li vedo meglio da me. Non riesco ad immaginarmi in una situazione di convivenza. Io credo che la non convivenza sia importante per obbligare una persona a fondarsi su sé stessa o aiutarsi con altre che non siano, però la persona con la quale ha un legame forte. Certo rompere la convivenza è un grosso casino. Significa andare contro tutta l’organizzazione sociale, culturale sia nel bene che nel male. Ma per chi è debole di autonomia, come me, è necessario rompere con l’istituzione per fondare un rapporto qualitativamente diverso. Chi invece l’autonomia l’ha ” dentro ” può darsi che riesca ad avere ben presente sé stessa singola pur nella convivenza o nel matrimonio. Può darsi che qualcuno sia più forte». L’esperienza conferma come anche in questo tipo di rapporto di non convivere sia molto difficile per la donna sfuggire ai meccanismi che la rendono subordinata al proprio uomo. Non si tratterà certo della dipendenza più palése, cioè quella determinata dalla mancanza di autonomia economica, ma piuttosto di livelli di dipendenza più sottili, che non agiscono sulla superficie del rapporto ma piuttosto nei suoi meandri psicologici. A prescindere dalla forma peculiare che ciascun rapporto si è scelto (di convivenza o di non-convivenza) il tema comune che caratterizza tutte le situazioni è il nuovo atteggiamento assunto dal polo femminile della coppia. È la donna infatti che interviene nel rapporto, lo mette in discussione, rende esplicito il conflitto, si fa portatore della nuove esigenze, si mette in gioco. L’uomo si sarebbe adattato, nella maggior parte dei casi, a vestire l’abito stretto ed invecchiato del rapporto tradizionale, contando sul fatto che i suoi privilegi lo avrebbero comunque preservato da una situazione particolarmente scomoda.

Rispetto allo stereotipo del rapporto totalizzante, l’unico vero interesse nella vita, in cui il senso dell’unità prevale sulla individualità di due persone, dove perciò è necessario dirsi tutto, fare tutto insieme, dove si spia con apprensione negli occhi dell’altro il sorgere di un pensiero nuovo, molte cose sono cambiate. Si ammette la propria diversità, si arriva ad accettare di non capirsi fino in fondo, si decide che il rapporto può essere portato avanti sulla base di alcuni aspetti ritenuti da entrambi abbastanza significativi da giustificare la sua validità (una buona intesa sessuale, l’affetto, un progetto comune, una buona comunicazione) che non coinvolgono tutta la sfera dei propri rapporti personali, dei propri interessi, dei propri investimenti affettivi.

Il rapporto di coppia perde in questo modo i suoi caratteri inglobanti, diventa “una” dimensione della vita di due persone, non più ” l’unica ” dimensione. Questo è il punto di arrivo, la meta che questo tipo di donna, si prefigge di raggiungere. Naturalmente le tappe sono faticose, sofferte. L’emancipazione dal proprio rapporto di coppia ha significato per molte, in un primo tempo, il rifiuto ” per principio ” del rapporto esclusivo e l’espansione della propria sessualità attraverso la ricerca di rapporti ” plurimi ” i quali se hanno allargato la loro esperienza in campo sessuale, si sono rivelati in un secondo momento altrettanti momenti di dipendenza dall’uomo. Da qui è nata la riflessione sul concetto di autonomia che non significa evidentemente essere > sessualmente emancipate (secondo l’ottica maschile del ” vado; la scopo e torno”) ma significa soprattutto ricercare dentro di sé le garanzie della propria crescita e, quindi, non usare il rapporto con l’uomo soltanto come fonte di gratificazione e di conferme oppure come porto sicuro in cui rifugiarsi per riversare tutte le proprie frustrazioni, le proprie insicurezze. È sulla base di questa consapevolezza che la donna si sforza di liberare il proprio rapporto da quei giochi di potere, da quei ricatti, da quelle rappresaglie che nascono soprattutto da problemi di gelosia, di possesso e che non fanno che aggravare la dipendenza reciproca. Liberare il rapporto dai suoi aspetti soffocanti e mortiferi per recuperare i contenuti che arricchiscono la sua esperienza di donna: questo è il punto. La “nuova donna” non è più disposta a subire passivamente una realtà predeterminata, un destino immutabile, né accetta di stare con un uomo per il solo fatto di sentirsi utile a lui. Al contrario vuole trarre da questo rapporto vantaggi anche per lei, desidera “viverlo”, “agirlo”, a costo di assumere tutto il peso della precarietà e quindi rischi di una sua rottura.

 

sessualità

La rivalutazione della sessualità, della importanza di questa dimensione espressiva della propria personalità, è un dato costante di tutte le donne intervistate. Non a caso il processo di recupero della propria identità di donna è strettamente legato al riconoscimento e all’accettazione della propria determinazione sessuale.

«Prima, per rifiutare il ruolo di donna, avevo rifiutato moltissimo la mia sessualità, facevo una censura su me stessa. Solo attraverso la negazione della mia determinazione sessuale riuscivo a pormi, nel rapporto con gli altri, come ” persona ” al di fuori dei ruoli sessuali e a farmi accettare in quanto tale». Che cosa significa, infatti, per queste donne avere un rapporto sessuale soddisfacente? Ecco alcune risposte significative:

«Il piacere dell’orgasmo, ma non solo questo, il fatto di poter manifestare liberamente le tue tensioni, sensazioni, fare liberamente delle richieste precise. «Non avere più paura. Non sentire più questo rapporto come una violenza. Quindi non sentirmi più divisa: da una parte una E. che non si sa bene dove sia e dall’altra una E. che è lì e che non partecipa. Far sì che questo rapporto sia l’espressione dell’unità della mia persona».

«Significa avere un rapporto in cui io vivo il ruolo dell’uomo e della donna. Oltre a godere a livello fisico, anche un grosso desiderio dell’altra persona. Non è soltanto un discorso di orgasmo ma di desiderio dell’altra persona e di cercare il suo piacere come il mio». Il riconoscimento di questa sua risorsa (la sessualità) allo stato potenziale ha spinto la donna su un sentiero ancora inesplorato, tutto da scoprire, in cui lei ha seguito le tracce facendo molti tentativi e anche molti errori. Il primo passo è stato quello volto a sperimentare la propria sessualità con più uomini, cosa che le ha dato la sensazione della libertà della propria sessualità e soprattutto il dato dell’esperienza. Molto spesso ciò si è tradotto nell’atteggiamento emancipatorio del “vado, lo scopo e torno” che, a posteriori, ha rivelato alla donna tutti i suoi aspetti squallidi e alienanti perché, se al momento per lei significava ” maggior potere ” verso il sesso maschile, di fatto il suo risvolto reale era ancora una strumentalizzazione del suo corpo, questa volta da parte di più uomini anziché di uno solo.

 

coppia aperta coppia chiusa

Il dato di partenza su cui quasi tutte le coppie hanno costruito la loro storia è l’accettazione ” teorica ” della reciproca libertà Sessuale, che in pratica significava riconoscere all’altro sesso un diritto che è stato sempre attribuito soltanto all’uomo. La messa in pratica di questo semplice ” principio ” ha suscitato nel migliore dei casi ” dei grossi problemi “.

Il problema della gestione dei rapporti “extra” rimane invariato, a prescindere dal fatto che l’apertura della coppia sia stata data per scontata fin dall’inizio o sia subentrata in un secondo momento nella vita della coppia (in genere questo secondo caso si è verificato più spesso nei matrimoni). L’atteggiamento ” alternativo ” sostenuto da mólte coppie è quello del ” comunicarsi le rispettive esperienze “, misurandosi con la propria capacità a superare emotivamente il grosso impedimento della gelosia e del possesso. L’operazione, così razionalizzata, sembrerebbe lineare. Ben presto però le donne che l’hanno praticata ne hanno raccolto anche tutte le conseguenze negative e le contraddizioni. Non è così facile come sembrerebbe. Si rischia infatti di cadere nelle maglie di una rete di ricatti, di vendicazioni, incomprensioni, giochi di potere, rappresaglie, che si traduce in sostanza in una maggiore dipendenza reciproca. Molte ‘ donne si sono domandate infatti fino a che punto il bisogno di comunicare al partner le proprie esperienze sessuali. non nascesse, .piuttosto, dall’esigenza di scaricare, i propri problemi, T,propri sensi di colpa e di cercare la sua approvazione e la sua benedizione. Come dice una intervistata: ‘

«Si finisce ancora una volta per rafforzare i lati negativi della coppia pur affermando apparentemente una cosa che con la coppia è in contrasto». Spesso succede che il. rapporto con un altro uomo coincida con un momento di stanca o di crisi nel “suo” rapporto di coppia e che serva perciò da stimolo rispetto a quest’ultimo; in particolare suscitando nel suo partner principale un atteggiamento più vigile ed interessato.

Tranne che in pochissimi casi, dove il rapporto extraconiugale, (da parte dell’uomo) ha portato alla rottura e alla separazione della doppia,, in tutti gli altri casi esso è servito paradossalmente a consolidare il rapporto di coppia principale. Credo che SU ciò influisca il fatto che la donna non vive generalmente l’«altro» in alternativa al proprio uomo ma piuttosto’ nei termini di un amore passeggero o, spesso, soltanto di amicizia che si completa con un rapporto sessuale. Molte donne parlano di queste esperienze definendole degli incontri non parziali, cioè di sola amicizia o di sola intesa intellettuale, ma totali in quanto comprendono anche la sfera sessuale-affettiva, laddove questa costituisce una naturale evoluzione del rapporto.

Finora sono stati evidenziati gli aspetti contraddittori ed ambigui della «coppia, aperta»; vediamone orai vantaggi. Per la donna, sperimentare diversi rapporti erotico-sentimentali (perché, tengo a precisare, lei fa’ sempre degli investimenti affettivi, non riesce a vivere

questi rapporti in una dimensione soltanto fisica) vuol dire arricchire la propria esperienza. Le gratificazioni che le derivano dal sentirsi accettata fisicamente, confermata, amata, sono altrettanti stimoli vitali, grosse cariche emotive che, nelle condizioni migliori, incidono positivamente sul suo rapporto di coppia.

«Questi altri rapporti paralleli mi davano una grossa carica, una gioia di vivere, per cui ero più contenta, allegra e questo si rifletteva in tutto».

 

il rapporto di coppia e l’amore

Lo stereotipo della «femminista» dura, che non cede alle lusinghe dell’amore ma si mette in rapporto all’uomo sulla base di un freddo scambio di prestazioni, è già caduto miseramente affrontando il tema della sessualità. Il suo desiderio di uri rapporto erotico e affettivo allo stesso momento, la ricerca di una comunicazione globale ma anche spontanea e gioiosa con l’uomo contraddice clamorosamente questa immagine.

L’amore, tuttavia, resta un concetto indefinibile, che sfugge a qualsiasi tentativo di imbrigliarlo in schemi fissi, in immagini precise. Resta nel limbo del vissuto individuale, una dimensione a metà strada tra la realtà e la finzione. Qualche volta si ha l’impressione di afferrarlo e viverlo pienamente per pochi attimi, qualche volta addirittura per lunghissimi periodi. È certo che tutte le donne intervistate ne ammettono la importanza: sia quelle che dicono di averlo conosciuto,, sia quelle che non l’hanno mai sperimentato, le une in modo gioioso e partecipante, le altre con l’amarezza della delusione dell’esserne state private.

Ma di che amore si tratta? L’amore con la A maiuscola, quello di tutta una vita? Questo senz’altro no. Se è possibile fare una comparazione con il vecchio stereotipo dell’amore, la cosa certa è che queste donne non lo vivono più in questi termini. L’amore non ha più un volto solo (quello dell’uomo ” unico “) ma può avere molte facce. Il che significa accettare il dato dell’esperienza realisticamente, senza più mistificazioni o idealizzazioni. Dice una di queste donne: «Credo che un potenziale affettivo non possa’ esaurirsi tutto nei confronti di una persona, la quale non è tutto l’universo ma è soltanto Un aspetto della realtà, con cui puoi avere un buon rapporto in un determinato momento, in

determinate circostanze e poi, chi lo sa…».

 

conclusioni

Non vorrei dare l’impressione che tutti questi processi avvengano all’insegna della razionalità, di un preciso calcolo dei costi e dei benefici. In realtà la sfera emotiva e sentimentale ha una grossa importanza; pur nella consapevolezza che l’amore non ha più un solo volto ed è sfuggito per sempre al concetto dell’assoluto (consapevolezza che lascia spazio alla possibilità di più rapporti emotivo-sentimentali) il rapporto con l’uomo «privilegiato» non può sopravvivere se viene a mancare la dialettica degli affetti. Non è quindi soltanto l’abitudine, la quotidianità, la sicurezza che proviene da una lunga pratica di vita assieme, la paura della solitudine che lo mantengono in vita. Deve essere presente l’amore, un amore costantemente rinnovato attraverso periodi di crisi, di rottura, di recupero e di benessere. Un amore che per la donna non significa più specchiare sé stessa nell’immagine dell’altro ma vuol dire essere capace di dare qualcosa di positivo nel suo rapporto con l’uomo, senza che con ciò venga meno la sua individualità e la sua specificità. Significa vivere la propria sessualità congiuntamente all’affettività non più a tappe, a sbalzi, come parentesi che si aprono e si chiudono senza lasciare dietro di sé il segno della tenerezza, dell’espressività, del gioco. Tutto ciò per molte donne fa parte delle «aspettative» poiché la realizzazione è stata parziale o di alcuni momenti dell’esperienza globale di rapporto. Questa nuova impostazione richiede infatti che anche «l’altro» sia sufficientemente maturo e disponibile per affrontare questo salto qualitativo. Salto che può anche implicare la fine della «coppia» tradizionalmente intesa e lo inizio di una relazione tra uomo e donna, contraddistinta non più dalla loro «unità» ma dalla loro «individualità .

Da tutte le esperienze di coppia prese in esame nel corso di questa ricerca emerge il fatto che la donna rivolge una sempre maggiore attenzione verso sé stessa all’interno del rapporto, in sostanza ascolta le sue esigenze, i suoi desideri, tiene conto del suo «essere» in quanto persona, il che non è certamente una mera forma di narcisismo, quanto piuttosto l’affermazione della sua identità di fronte a quella dell’uomo.