notte e nebbia

una donna sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti racconta la sua tragica esperienza. Mentre si libera Kappler, ci ricorda quanto sia difficile perdonare.

dicembre 1976

Ravensbriick è situato in un luogo molto romantico, su un lago. Il terreno dove sorgeva apparteneva originariamente a Himmler: siccome la terra rendeva poco, egli la vendette al Reich perché vi fosse costruito un campo di concentramento. In seguito il lago si rivelò assai utile, perché vi furono gettate le ceneri, di 60.000 donne che trovarono la morte in questo campo.

La baracca delle «cavie», una delle baracche dette «Notte e nebbia», fu sempre indicata alle nuove venute con grande terrore. Solamente i forni crematori, e le fosse dove ogni giorno veniva buttata la «razione» giornaliera di cadaveri, poterono rivaleggiare con quella baracca. Ogni giorno morivano in media trecento donne: di dissenteria, di spossatezza, di consunzione, di tubercolosi, di tifo e di altre malattie. Le SS ci dicevano sempre che la sola uscita dal campo sarebbe stata per noi il forno crematorio. Anche le donne di altre nazionalità erano convinte che il gruppo delle «operate» fosse una cosa speciale. Nella baracca «N.N.» (Notte e nebbia) coabitarono, con le donne polacche sottoposte ad esperimenti chirurgici, alcune paracadutiste sovietiche condannate a morte: queste ragazze guardavano con diffidenza le loro compagne provenienti dalla «Polonia dei signori»; ma quando, un giorno, le SS vennero a prendere tutte le «cavie» per condurle a morire, le paracadutiste incitarono le migliaia di prigioniere ad assalire i carnefici, e il gruppo delle SS, benché avesse a disposizione i cani, per quella volta decise di rinunciare, rimandando l’esecuzione. A partire da quel giorno le ragazze sovietiche organizzarono una guardia di notte per far riposare tranquillamente le polacche: «Dovete dormire — dicevano — per avere i nervi a posto. Dovete sopravvivere per mostrare al mondo ciò che vi hanno fatto». Anche una donna norvegese, quando le SS vennero per prendere due «cavie» e fucilarle, volle andare a morire al posto di una di esse: era convinta che toccasse all’altra sopravvivere; a quella che portava i segni della tortura. Le polacche non furono le sole a subire le operazioni dei medici nazisti: simili pratiche vennero eseguite anche in altri campi di concentramento. Adelchi Baroncini, padre di tre mie compagne di lager a Ravensbriick, arrestate a Bologna perché comuniste, è morto a Mathausen in seguito ad un esperimento eseguito dai chirurghi sul suo corpo.

Benché siano passati più di trent’anni, io credo che di queste cose si debba parlare, perché il fascismo è sempre attuale. Ho potuto rintracciare una di queste «cavie»: Stanislawa Bafia, moglie del Presidente della Corte Suprema di Giustizia, residente a Varsavia. Mi ha raccontato i suoi ricordi, e questo colloquio non è stato un’esperienza piacevole per lei: tuttavia non ha voluto sottrarvisi, perché ritiene che far conoscere quella verità sia una cosa molto importante. Riporto qui l’intervista.

«Divenni membro della Resistenza a quindici anni; a sedici fui arrestata dalla Gestapo e a venti fui liberata dal campo di concentramento. «Noi speravamo che tutto ciò non durasse a lungo. Quando arrivai al campo, mi rasarono completamente la testa, e io mi domandai come avrei fatto, una volta uscita di là, a riavere la mia lunga capigliatura: non sarei stata mai capace di farmi vedere così dalla gente della mia città, Zamos. Ma quando uscii dal campo, avevo le trecce che mi arrivavano sotto la vita. In questo convoglio eravamo tutte ragazze polacche, e tutte eravamo state condannate a morte. Il bando affisso sui muri diceva:

Tutti coloro che, non essendo tedeschi e trasgredendo le leggi e i decreti, sono stati sorpresi e arrestati mentre cercavano di impedire o di ostacolare l’opera costruttiva del Governo Generale tedesco, sono passibili della pena di morte.

L’istigatore e il collaboratore sono considerati egualmente colpevoli.

Il tentativo di commettere una trasgressione è punito come la trasgressione compiuta.

La pena di morte può essere egualmente comminata nei seguenti casi:

1) deterioramento dei manifesti murali fatti affiggere dalle autorità tedesche;

2) offesa alla maestà del Reich;

3) deterioramento degli oggetti di proprietà tedesca;

insubordinazione.

F.to Governatore Generale Frank Decreto del 4 dicembre 1941

«Nei documenti della SS e della Gestapo risultavano come N.N. («Notte e nebbia») : significava che avremmo dovuto essere sterminate; perdute come nella nebbia e nella notte. E’ per questo motivo che non potevamo andare a lavorare fuori del campo come le altre.

«Quando, prima dell’arresto, mio padre mi parlava della fame, non capivo di che cosa parlasse: non capivo che si potesse conoscere la mancanza del pane. Solamente al campo ho capito le sue parole; ho capito che era anche possibile sognare il pane. «Ricordo che una volta decisi di fare un regalo a un’amica: le regalai il piccolo pezzo di pane che era la nostra porzione dell’intera giornata. Presi questa decisione come offerta a Dio per la salvezza della mia famiglia; perché avevo sentito dire che i Tedeschi stavano deportando in massa gli abitanti di Zamos e della regione. Per molto tempo non avevo avuto notizie da casa. Mi dicevo: «Farò questo sacrificio, non mangerò questa porzione, conserverò questo pezzo di pane per un’amica di cui ricorre l’onomastico». Non sapevo dove nascondere il pane: avevo paura di lasciarlo nel rozzo armadio dove tenevamo le nostre stoviglie di metallo, perché ero sicura che mi sarebbe stato rubato subito. Durante il giorno portavamo con noi la porzione di pane in una borsa di stoffa attaccata alla cinta; ma come fare di notte? Decisi che la cosa migliore fosse nasconderla sotto il guanciale di paglia; ma mi venne il timore che non avrei resistito tutta la notte senza mangiarla. E veramente non riuscii a chiudere occhio: quel pane aveva un così buon profumo! Quell’orribile pane fatto di segatura! Desideravo tanto metterlo fra i denti e addormentarmi così; ma sapevo che, una volta fatto questo, non avrei avuto la forza di trattenermi dal divorarlo tutto. E io avevo fatto voto di non mangiarlo per la salvezza della mia famiglia… «Non chiusi occhio per tutta la notte; e finalmente, quando alle quattro del mattino la sirena ci svegliò, presi il pezzo di pane e corsi dall’amica a cui avevo deciso di regalarlo. Glielo lanciai con odio, gridando: «E’ un regalo per il tuo onomastico!»; e fuggii subito, prima che mi venisse l’impulso irresistibile di riprendere il pane, o almeno di dividerlo con lei. «Quello era anche il giorno del mio onomastico: San Stanislao, 8 maggio. Quando andai al lavoro, incontrai la «piccola mamma» del campo, la signora Liberakova, che mi regalò cinque patate: un dono regale. Allora pensai che forse questa era la ricompensa per il sacrificio precedente, e che magari era il segno che la mia famiglia sarebbe uscita sana e salva dalla guerra. Purtroppo non fu così, I miei fratelli rimasero in vita solo perché erano troppo piccoli, ma mio padre fu assassinato durante la deportazione. Così, quando tornai a casa, trovai un grande vuoto.

«Rimasi tanto tempo in quel campo che mi sembrava di essere nata in una famiglia di mendicanti, e che tutta la mia vita in libertà, i boschi, la natura, tutte le cose che appartengono ad una vita normale, fossero soltanto una favola che qualcuno mi avesse raccontata in modo così espressivo da farmela ricordare in continuazione. La natura ci mancava terribilmente: il nostro campo era circondato da un alto muro; non si vedeva niente, solo le cime degli alberi e il cielo, oltre alla ciminiera del forno crematorio, che esalava un odore nauseabondo di corpi umani bruciati. La mancanza della natura era terribile come la fame.

«Tra le sorveglianti ce n’era una diversa dalle altre: comandava il gruppo che andava a lavorare nel bosco. Era stata reclutata nelle SS quando era giovanissima: le avevano detto che doveva lavorare in un giardino d’infànzia, ma fin dal corso preparatorio .aveva capito di quale giardino si trattasse. Quando arrivò al campo e vide quello che succedeva, rimase avvilita e spaventata: non potendo andar via, decise di essere buona con le prigioniere. Se una delle donne che lavoravano ad abbattere alberi era troppo stanca, le permetteva di sedersi per terra e di riposare. I cani delle SS erano addestrati ad azzannare i prigionieri ogni volta che li vedevano seduti per terra: ma quella donna aveva ammaestrato il suo cane in modo che non facesse male alle prigioniere sedute. Qualche volta le prigioniere trovavano per terra delle patate, e lei faceva finta di non vedere. Quando una delle nostre compagne riusciva a fuggire, quella sorvegliante faceva da sola la perquisizione, facendo sparire tutti gli oggetti compromettenti che trovava. Le altre SS se ne accorsero, e da allora la donna divenne una prigioniera come noi: ma non rimase a lungo a Ravensbriick, presto fu trasportata in un altro campo. «Quando Radio Londra annunciò per la prima volta che nel campo di Ravensbriick si facevano operazioni sperimentali su donne deportate, cominciò tutta una serie di perquisizioni nella nostra baracca. Le notizie erano state portate fuori del campo dalle nostre compagne che lavoravano all’esterno: così tutto il mondo aveva potuto conoscere la verità su quello che avveniva al campo, e anche il nome delle vittime. Il prof. dott. Karl Gebhardt, Brigaden-fuhrer

SS, al Gruppenfùhrer SS Gra-vitz

resoconto preliminare degli esperimenti clinici nel campo di concenframento di rawensbruck

Per ordine del Reichsfiihrer SS ho intrapreso il 20 luglio 1942, nel campo di concentramento femminile di Ravensbriick, una serie di esperimenti clinici aventi lo scopo di analizzare le infezioni conosciute sotto il nome di cancrena gassosa e sperimentare l’efficacia dei metodi fino ad ora conosciuti.

«Krysia Czyr e Dusia Wojtasik trascrissero il testo qui sopra riprodotto con urina e con succo di cipolla tra le righe delle lettere ufficiali che ci erano consentite, e che venivano censurate dalle SS. Ogni tanto riuscivamo a spedire anche delle lettere illegali con buste normali: le compagne del gruppo che lavorava nel bosco le portavano fuori e le consegnavano a una guardia forestale tedesca che, rischiando la propria vita, le portava alla posta. Non sappiamo che fine abbia fatto quest’uomo. «Il nostro gruppo fu una volta convocato dal comandante del campo. Eravamo tutte ragazze molto giovani; pensavamo di andare all’esecuzione, ma non fu così. Tutto il corteo degli ufficiali delle SS venne e ci osservò con grande curiosità: guardavano le nostre mani, le nostre gambe; ci dissero di sollevare le gonne. «Dopo le operazioni, Himmler in persona venne a visitare il campo. Fummo legate alle tavole, e le fasce vennero tolte dalle gambe per far vedere le ferite: ma ci coprirono il viso con le lenzuola, perché Himmler non voleva vedere i nostri occhi. Una nostra compagna, una, che parlava bene il tedesco, gli disse che noi ci rifiutavamo di essere operate: se avevano stabilito di ucciderci, ebbene, che ci uccidessero; ma non avevano il diritto di ammazzarci due volte. Era una violazione del diritto internazionale. Himmler rispose che la cosa non era di sua competenza, e che avremmo dovuto parlarne col comandante del campo.

«Ne parlammo al comandante del campo, il quale esclamò: «Cosa? Operazioni al campo? E’ la prima volta che sento una cosa simile!». Disse che quello era un atto di insubordinazione e di rivolta, che saremmo state punite e che, se la cosa si fosse ripetuta, avrebbe fatto fucilare una prigioniera ogni dieci.

«Poco dopo condussero con la forza altre dieci di noi nella prigione del campo, e là furono operate. Per punirle non lavarono loro neppure i piedi prima dell’operazione.

estratto dal protocollo del processo dei medici a norimberga.

Nelle operazioni che avevano lo scopo di diffondere le infezioni, si sperimentarono diversi virus purulenti. Il più comunemente usato fu lo stafilococco dorato; ma furono utilizzati anche il virus della cancrena gassosa e quello del tetano.

Un altro gruppo di esperimenti riguardò muscoli, nervi e ossa; e quelli riguardanti le ossa furono di tre specie: frattura, trapianto e scarnificazione. «La mia amica Barbara fu operata: le scarnificarono le ossa. Eravamo arrivate con lo stesso convoglio: Barbara aveva quattordici anni e io diciassette; era molto bella e formosa. Diceva che alla fine della guerra voleva diventare ballerina; purtroppo ciò non è mai avvenuto: morì tre anni dopo la fine della guerra, e subito dopo l’operazione le sue gambe divennero storte. Per molti mesi ebbe la gambe ingessate e, quando ricominciò a camminare, erano così deformate che doveva usare le stampelle. «Furono i medici di Hohenlychen gli autori dell’impresa: utilizzarono i pezzi delle ossa nell’ospedale militare che si trovava a diciotto chilometri dal nostro campo.

«Capitava spesso che ci addormentassero per l’operazione; poi, a causa di qualche visita importante nell’ospedale, l’operazione non veniva eseguita. Io, per esempio, fui sottoposta ad anestesia per quattro giorni consecutivi, e alla fine fui operata. Quando mi svegliai, mi accorsi che entrambe le mie gambe erano state ingessate: non potevo muovermi. Mi trovavo in una corsia insieme alle ammalate di mente: finestre e porte erano sempre chiuse. I medici nazisti le avevano operate alla colonna vertebrale e avevano loro tagliato le gambe: dopo alcuni giorni tutte furono eliminate con iniezioni; ogni giorno venivano a prenderne una per ucciderla. «C’era una donna jugoslava che era diventata pazza perché tutta la sua famiglia era stata sterminata in sua presenza. C’era anche una donna ceca, di Lidice: avevano incendiato la sua casa, e dentro la casa erano bruciati vivi i suoi bambini; gridava in continuazione che bisognava correre in loro aiuto. Io ero la sola normale tra tante malate di mente: ogni volta che mi addormentavo, c’era sempre qualcuna che gridava, e quelle grida erano così terribili che mi svegliavo di soprassalto. A un certo punto pensai che avrei dovuto gridare più forte di loro: forse in questo modo avrebbero fatto silenzio almeno per dieci minuti, il tempo, di fare un breve sonno. Ma poi mi resi conto che, se avessi cominciato a gridare come loro, le SS avrebbero eliminato anche me. Ma non lo avrebbero fatto comunque, visto che mi trovavo in quella corsia? Perché non mi avevano lasciato con le mie compagne?

«Subii quel martirio per quattro o cinque giorni: non potei dormire neppure per un momento. Non potei pregare, assolutamente no: Dio non esisteva, altrimenti non avrebbe mai potuto permettere tutto ciò. Quando ci fu un breve istante di silenzio, trovai un sistema per salvarmi: tornavo a casa, a Zamos; ero sulla strada che conoscevo così bene; mi dicevo: «Guarderò attraverso la finestra quello che succede a casa mia… Andrò a fare una passeggiata nel bosco, nei campi…» Ma, all’improvviso, le grida di una pazza mi strappavano al mio sogno; e mi rendevo conto che ero là, nel lager, in mezzo alle altre donne. «Dopo cinque o sei giorni un’infermiera polacca, anch’essa prigioniera, Isa, riuscì ad entrare in quella corsia. Le dissi: “Non posso respirare, la mia camicia mi soffoca; devi portarmene un’altra più larga”. Isa me ne portò un’altra: ma anche così non potevo respirare. Le dissi: “Anche questa è troppo stretta” “Ma come? E’ una camicia molto larga. Aspetta: ti porto un termometro. Penso che tu abbia la febbre alta”. Quando guardai il termometro, non riuscii a vedere niente. Isa disse che avevo più di quaranta gradi. Non so come abbia fatto, ma riuscì a tirarmi fuori di là. «Tornai tra le mie compagne. Non ricordo come avvenne, perché ero priva di conoscenza: le mie gambe bollivano, era incominciata la cancrena. Credo, che mi abbiano portata via dalla corsia proprio all’ultimo momento; perché tutte le donne pazze furono eliminate.

dal protocollo del processo dei medici a Norimberga

Cinque polacche operate morirono di infezione, due furono fucilate nel gennaio del ’43. Il 28 novembre 1943 altre quattro vittime delle operazioni furono fucilate. Delle 74 polacche operate nella primavera del ’43 non rimanevano in vita che 61. Io personalmente non sono andata a Norimberga: ci andarono Jadwiga Dzi-do, Dziunia Karolewska e Maria Ku-smierczuk (quest’ultima era una di quelle donne che erano state operate nella prigione del lager dopo la nostra protesta). In questo processo i nazisti si difesero come potevano: dissero che comunque noi eravamo destinate allo sterminio perché condannate a morte; niente di male, allora, se ci avevano utilizzate per il bene dell’umanità. Ma quando Jadwiga e Maria mostrarono le loro gambe, gli avvocati difensori capitolarono, e preferirono rinunciare a interrogare le testi.

verdetto del 1 tribunale americano a norimberga

Essendo risultati colpevoli di crimini di guerra e di genocidio, sono stati condannati:

Karl Gebhardt, professore, dottore in medicina, primario dell’ospedale di Hohenlychen, clinico capo presso il capomedico delle SS, medico personale di Himmler, presidente della Croce Rossa tedesca, a morte per impiccagione.

— Fritz Fischer, dottore in medicina, medico ausiliario a Hohenlychen, Sturmbannfiihrer delle SS, all’ergastolo.

Hertha Oberhauser, dottore in medicina, primario del campo di concentramento di Ravensbrùck, medico ausiliario a Hohenlychen, a 20 anni di reclusione. La dottoressa Oberhauser è rimasta solo sette anni in prigione: poi è tornata a casa ed ha ricevuto un risarcimento dal governo della Repubblica Federale Tedesca per aver dovuto scontare quegli anni di prigione. Si è comperata una lussuosa villa ed ha esercitato la professione come pediatra. Le proteste organizzate dagli ordini internazionali dei medici, affinché venisse interdetta dall’esercizio della professione, hanno avuto effetto: tuttavia ella riceve, come tutte le altre SS, una pensione governativa. «Alcune di noi hanno ancor oggi le ferite aperte; alcune invalide sono tuttora deformi; altre soffrono di malattie psichiche; una buona parte, sebbene ancora in giovane età, è stata costretta ad andare in pensione. Questo è stato per noi una grande tragedia, perché, al ritorno dal campo, avevamo incominciato a studiare con grande entusiasmo, sperando di poter collaborare alla costruzione del paese. «Io, per esempio, fui colpita alla testa da agenti della Gestapo durante gli interrogatori, ed ho ancora terribili dolori alla nuca: non riesco a tenere la testa diritta, e avverto dolori anche quando sono a letto. Anche la mia colonna vertebrale è indebolita: non posso portare un peso superiore al mezzo chilo. Se debbo fare un lavoro in casa, anche il più facile, debbo indossare un collare rigido, pesante e assai spiacevole.

«Naturalmente mi rendo conto del fatto che molto tempo è passato, non è piacevole per gli altri sentirsi ripetere il racconto di questi malanni. Vedo che le altre donne della mia età sono sempre piene di energia, sono in grado di lavorare, tenere in ordine la casa, badare ai figli: io non posso fare niente di tutto ciò. Certo, anche io ho un figlio: ma mi pare che, se non avessi vissuto quelle terribili esperienze, sarei una madre migliore, meno nervosa. Lo so perché una volta sono tornata da un soggiorno in sanatorio e mi sono sentita quasi bene; ero allegra, e mio figlio mi ha detto: “Mamma, che cosa potrei fare perché tu rimanessi sempre così?” Ed io sono rimasta stupita, vedendo come lui avesse notato subito la differenza. Anche mio marito avrebbe meritato una moglie più efficiente. Cerco di fare tutto, di non lasciarmi andare; essere allegra, scherzare. Faccio tutto il possibile… Ma basta una piccola cosa, una contrarietà e di notte faccio quei sogni terribili… Sento le grida delle donne operate… E questo sogno è per me il più frequente… Vorrei tanto non ricordare.