dalle università con rabbia
proseguendo il dibattito sull’università, in questo numero presentiamo due contributi che partendo dallo specifico del vissuto quotidiano di studentesse femministe indicano alcuni dei problemi e delle questioni fondamentali che il movimento femminista si trova a dover affrontare nell’ambito delle istituzioni universitarie.
come è nato il vostro collettivo “fuori sede” e quali sono state le vostre esperienze come femministe all’università?
Elena
Il nostro collettivo è sorto tre anni fa per iniziativa di un gruppo di compagne che militavano nel collettivo “fuori sede” misto e che volevano affrontare da sole certe tematiche. Abbiamo così organizzato una grossa assemblea per incontrarci fra noi donne. Allora il femminismo era ancora per molte di noi qualcosa di vago, per esempio io leggevo EFFE e non ci capivo niente letteralmente, insomma io avevo tutta una serie di problemi però non ne ero per niente cosciente. Questa proposta di incontrarci fra noi è piaciuta subito e le prime assemblee erano gremite di compagne; però eravamo tutte molto confuse, allora c’era il grosso problema dell’autonomia del movimento — era un nodo da sciogliere non tanto per i cani sciolti come me, quanto per quelle legate a specifiche organizzazioni —. Queste assemblee molto numerose, si sono mano a mano assottigliate proprio per questo problema: a molte compagne non stava bene questo nodo dell’autonomia. L’altro grosso nodo era quello dell’autocoscienza; tre anni fa molte erano contrarissime all’autocoscienza, e convintissime che fosse sufficiente riunirsi in assemblee di sole donne per essere femministe.
Laura
Infatti per esempio io due anni fa a una riunione del collettivo di lettere ho preso la parola per scagliarmi contro il collettivo femminista e l’autocoscienza, cosa di cui ora mi vergogno moltissimo. Solo l’anno scorso ho finalmente sciolto i nodi dell’autonomia e dell’autocoscienza e ho cominciato a stare nel gruppo femminista e a trovarmi bene.
Rosy
Il nostro collettivo fuori sede ha avuto grossi problemi anche perché molte vanno via a luglio e il grosso ritorna a novembre per andare via di nuovo a dicembre per cui è difficile fare un lavoro continuativo. I primi anni abbiamo fatto le lotte per l’aborto, una mostra, e abbiamo diffuso i volantini per l’aborto nel quartiere, abbiamo notato che le giovani coi figli li rifiutavano mentre le vecchie li prendevano e li discutevano subito. Più che altro nel collettivo però il nostro tema dominante è stato quello della nostra condizione particolare di “fuori sede”. Avevamo problemi di inserimento: ci sentivamo e ci sentiamo emarginate anche rispetto agli intercollettivi femministi.
Elena
Infatti siamo andate per due anni agli intercollettivi, ma non parlavamo mai, loro parlavano di self-help e noi ci sentivamo a disagio perché non avevamo neanche fatto l’autocoscienza. Infatti nessuna di noi voleva andare. Ora le cose vanno un po’ meglio da quando anche noi abbiamo iniziato a fare autocoscienza.
Caterina
Io invece nel collettivo “fuori sede” mi sono trovata subito bene. Sono sarda, sto alla casa dello studente abusiva perché non ho il presalario. Io i problemi del femminismo li sentivo già al mio paese, solo che non c’è un collettivo quindi mi limitavo a parlarne con mia sorella e qualche mia amica. Qualche volta leggevo EFFE però non ho mai potuto approfondire questi problemi, non ho mai potuto avere scambi con femministe. Per me la venuta a Roma ha significato anche questo: poter stare in un collettivo femminista. Quando sono venuta a Roma sentivo molto il problema dell’inserimento: i primi due mesi non ho fatto altro che seguirmi tutte le assemblee all’università anche senza conoscere nessuno, cercando anzi di fermare la gente per chiedere chi era. Poi mi sono inserita nel collettivo di medicina, solo che io lavoravo come baby-sitter e non riuscivo ad andare a tutte le loro riunioni, non riuscivo a parlare quindi mi sentivo abbastanza emarginata. Poi sono venuta alla casa dello studente e ho iniziato a frequentare il collettivo femminista “fuori sede”. Molte cose non ce le avevo chiare sul fatto dell’autocoscienza e dell’autonomia del movimento, però, abbiamo fatto subito i piccoli gruppi e mi sono trovata bene.
Come avete vissuto l’occupazione di questi mesi?
Rosy
Quest’occupazione l’ho vissuta abbastanza male: ho frequentato le assemblee sia quelle di facoltà che quelle di ateneo, mi sono sentita subito respinta perché c’era una fortissima aggressività, un autoritarismo pazzesco. Io ho delle grosse difficoltà in genere a parlare ad assemblee, non faccio mai interventi. In linea generale non sto mai bene in un’assemblea però non mi sono mai sentita così “contante niente” come in queste. Per me l’aggressività è una cosa che toccavi con mano, ti faceva venir voglia di scappare: infatti io m’avvicinavo, poi per una settimana stavo chiusa qui alla casa, criticavo tutto e poi ritornavo in assemblea. Questo mi è successo pure con le compagne; ti ricordi Laura, quando siamo andate a quella assemblea degli intercollettivi femministi dove si è deciso di partecipare alla manifestazione degli studenti (in marzo) con uno spezzone di corteo tutto nostro. In questa assemblea è stata dapprima denunciata l’aggressività delle assemblee miste, ma poi è emersa una grossa aggressività anche tra noi, tanto che una compagna per parlare si è incazzata e ha cominciato a urlare e bestemmiare: “voglio parlare ascoltatemi”. Io quel giorno ero d’accordo con quelle compagne che dicevano che noi all’interno dell’università non avevamo elaborato niente di specifico sull’occupazione. Noi per esempio del collettivo “fuori sede” non avevamo avuto un momento di confronto collettivo con le compagne per vedere come ci rapportavamo all’occupazione.
L’occupazione ha sorpreso in un certo senso il movimento femminista prima che le compagne avessero portato avanti un confronto sullo specifico dell’università. I problemi della riforma, della didattica non erano stati affrontati nei collettivi. Abbiamo fatto autocoscienza, ci siamo occupate dell’aborto, dei consultori, ma non abbiamo elaborato una nostra posizione sulla questione universitaria neanche per quanto riguarda il collegamento col lavoro e cioè il problema della disoccupazione.
Laura
Però se ti ricordi bene, Rosy, all’inizio di quest’anno accademico dopo che si era un po’ risolto il problema che noi avevamo dell’autocoscienza e dopo che abbiamo affrontato i problemi della apertura all’esterno e dei rapporti col movimento femminista romano, abbiamo anche parlato diverse volte del problema della disoccupazione, non soltanto perché la realtà esterna ti imponeva di prenderne atto, ma perché alcune delle compagne laureate cominciavano proprio a sentire questa disoccupazione sulla propria pelle.
Elena
Il nodo principale è quello dell’occupazione giovanile e femminile in particolare. Come donna io sono convinta che fino a quando il movimento degli studenti lesta attestato su posizioni di difesa dalla repressione ci sarà poco spazio per noi donne. Noi rispetto alla violenza abbiamo delle grosse contraddizioni: la rifiutiamo, ma prima o poi dobbiamo fare i conti con la violenza, come è successo qui a noi all’università.
Sono convinta che dobbiamo fare una seria riflessione su quello che è il problema dell’occupazione femminile. Occorre darci degli obiettivi intermedi su questo problema che rispettino il nostro discorso sulla liberazione — come femminista io credo che il discorso sull’occupazione non vada posto così tout court, ma che si debba parlare d’un nuovo modo di lavorare, meno alienante. Ad esempio l’università potrebbe essere riorganizzata su un programma di metà studio, metà lavoro, rompendo la divisione tra lavoro intellettuale e manuale. Come movimento delle donne dobbiamo riflettere su questo, sulla didattica all’università, sui contenuti dell’insegnamento che vedono le donne totalmente escluse. I seminari delle 150 ore sono stati un inizio, in certe facoltà ci sono corsi e seminari sulla donna; si possono fare ricerche e tesi, però come collettivi non abbiamo ancora approfondito, non abbiamo fatto una vera analisi mettendo a confronto queste esperienze.
Per fare un’analisi di cosa va mutato nell’università, sarebbe utile esaminare i problemi che incontrate come donne nella vostra vita quotidiana di studentesse?
Rosy
C’è il problema dell’alloggio, Io faccio medicina: sono al quarto anno e sono vissuta per tre anni nell’altra casa della studentessa. Quest’anno vivo qui e sono abusiva. Per due anni sono stata titolare. Ora pago l’affitto alla titolare della stanza che vive fuori con il suo ragazzo tranne nei giorni che vengono i suoceri a Roma.
Marisa
Per me c’è il problema del contenuto e dei metodi d’insegnamento, che non servono a niente così come sono. Io faccio anch’io medicina, vengo da Cagliari e sono qui da soli tre mesi. Anche a Cagliari non ho mai frequentato, le lezioni per me erano tempo perso, seminari poi a Cagliari non ce n’erano. A medicina sentivo un’esigenza di fare pratica, I primi anni la fisica, la chimica venivano studiate come se non avessero alcun legame coi problemi incontrati negli anni successivi. Io ho fatto parte del collettivo di medicina ma eravamo sempre in poche, coi problemi del presalario per mantenersi agli studi si finiva per fare una vita tutta università, casa, studio e lavoro nero. Non frequentavo le lezioni anche perché mi rendevo conto che la preparazione che ci davano era sorpassata, mi sono illusa che facendo uno studio individuale potessi colmare le deficienze della facoltà, leggendomi ad esempio tutto quello che trovavo sulla medicina preventiva, sui problemi della salute della donna, o su certe malattie specifiche della mia regione, come l’anemia mediterranea. Una grossa carenza delle nostre università è che sono separate dalla realtà in cui si trovano, ad esempio in Sardegna a medicina non si affrontava mai il problema delle malattie specifiche alla regione.
Rosy
Come diceva Marisa, la trappola della soluzione individuale scatta subito specialmente a medicina. Se tu vuoi andare bene a medicina ti devi chiudere in camera a studiare. Non hai modo di socializzare il tuo studio. Quasi subito perdi il contatto con la facoltà perché le lezioni dei primi anni sono allucinanti: io all’inizio ci andavo attratta anche dalle apparecchiature, dagli argomenti, però mi sentivo una persona in mezzo a 500, non contavo niente, non significavo niente, ero una testa insieme a 500 teste, non avevo neanche quel minimo di potere e di partecipazione che hai in una classe di trenta persone al liceo, dove se alzi la mano riesci a dire quello che vuoi dire. Dopo aver subito questo annientamento come individuo, quando ho preso coscienza come donna, mi sono resa conto che la facoltà di medicina così com’è è merda .Coi professori come donna vai incontro a questo tipo di cose: se sei carina riesci meglio agli esami, oppure riesci a farli con un assistente che hai conosciuto prima. E per conoscere gli assistenti devi essere carina per forza, se no quelli non ti si filano proprio. Per quanto riguarda i contenuti dello studio non trovi niente come donna che riguardi i tuoi problemi. Ad anatomia l’apparato genitale lo studi come un elenco di organi e basta, a fisiologia trovi che “l’utero piange perché non ha avuto il baby” e che queste sono le mestruazioni. Quando arrivi poi a ginecologia o ostetricia scopri che a livello di conoscenze scientifiche non c’è quasi niente. Mi sembra però che questo problema non sia limitato a medicina ma va collegato con quello della scienza e della ricerca scientifica in generale.
Una scienza che non è neutrale, ma è contro la donna: basti pensare alla sperimentazione degli anticoncezionali, sempre fatta sulla pelle delle donne, e alla carenza di spiegazioni scientifiche sulle cause delle malattie tipicamente femminili come le varie vaginiti e infezioni femminili. Scopri che la medicina su questi argomenti è piena solo di “se” e di “ma”.
Elena
Anch’io ho soprattutto il problema dell’alloggio. Sono sempre stata abusiva, ormai sono al quarto anno. Il primo l’ho passato con Rosy e sua sorella, tre in una cameretta con tutti i problemi che si possono immaginare. Poi una ragazza mi ha affittato il suo posto letto, però ci sono sempre problemi di convivenza. Cose stupide magari, come litigi sulla sveglia, sulla luce, su chi vuol studiare e chi vuol sentire la radio, però si perde sempre tempo e si sta a disagio. Forse però il problema più grosso è quello economico. Qui alla casa dello studente non ci sono né frigoriferi né cucine. Io so cucinare; potrei anche organizzarmi, cucinare da me, invece ci sono solo fornelli elettrici. Per pasqua sono rimasta qui, eravamo in tre, abbiamo impiegato un’ora e mezzo solo per far bollire l’acqua della pasta. Poi ci sono i problemi dei servizi igienici, anche nell’altra casa dove si era in sei per appartamento, usavamo tutte lo stesso bidet. Non a caso io che non avevo mai avuta nessuna vaginite prima di venire a Roma, me le sono beccate tutte.
Che tipo di assistenza medica avete avuto?
Elena
Abbiamo il servizio di medicina preventiva. Non so se sono capitate tutte a me, però è stato un disastro. La prima esperienza con medicina preventiva l’ho avuta con una grossa vaginite. Il ginecologo mi guarda; mi ha detto che non avevo niente e pensare che avevo ghiandole grosse che si vedevano dall’esterno. L’altro grosso casino mi è successo quando ho dovuto abortire. Avevo smesso gli anticoncezionali perché il mio ragazzo si era trasferito e pensavo di non vederlo per mesi. Poi è passato da Roma un giorno e ci sono rimasta. Quando mi sono accorta d’essere in ritardo sono andata a medicina preventiva perché il predietor mi aveva dato un risultato negativo. Il ginecologo mi ha fatto fare la prova e poi mi ha fatto aspettare dalle tre fino alle otto nel suo ufficio. Poi non ha neanche avuto la cortesia di dirmelo lui, e me l’ha fatto dire il giorno dopo dalla segretaria; così di fronte a tutti, nell’entrata.
Mi ha anche fatto dire che voleva rivedermi. Per prima cosa mi ha chiesto: “Lo tieni”? Quando ho risposto di no, ha scritto su un foglio “eventuale controllo” e mi ha detto “puoi tornare da me, ma non per quello che pensi tu, auguri”. Io non mi sarei mai rivolta a lui, sapendo come sono i medici di medicina preventiva, però mi ha colpito il ‘suo atteggiamento. Sono poi andata a Londra ad abortire. Purtroppo mi è rimasto qualcosa’ dentro e ho avuto delle conseguenze terribili. Sono andata a farmi vedere al San Giovanni perché avevo delle emorragie continue. Era un giorno di festa e ho trovato un medico che mi ha detto: “oggi è festa, se vuoi che ti faccia qualcosa devi pagare, se no, non ti posso fare niente”. Io ho detto torno domani, perché io i soldi, neanche per una visita di 10.000-15.000 lire proprio non li avevo. Sono andata al San Giovanni, anzi è andata Rosy alle sei del mattino col motorino a prendermi il biglietto per il posto. È stata una esperienza allucinante. Le donne che erano lì erano tutte proletarie che facevano la fila dalle sei. Venivano visitate a gruppi di quattro. Costringevano donne incinte, giovani e anziane con problemi di menopausa a spogliarsi tutte nude insieme e a stendersi su quattro letti in fila a gambe larghe. Ogni tanto si apriva la porta e qualcuno poteva pure vedere: era un imbarazzo generale. Poi usavano i guanti, ma non quelli da buttare via, gli altri, ed erano lì all’aria. Io avevo questa grossa infezione causata dall’aborto. All’inizio il medico era gentile perché gli sapevo dire tutti i dettagli, però quando ha saputo che l’aborto non era stato spontaneo, ma che avevo interrotto la gravidanza a Londra, ha cominciato a fare dell’ironia. E anche gli altri medici che ho visto nelle visite successive, mi dicevano: “Voi andate a Londra, chissà cosa credete di fare, ecco quello che vi combinano”. Invece io so di essere un’eccezione. Anche se ho perso molto tempo negli studi con tutti questi guai.
Rosy
Anch’io a medicina preventiva ho avuto esperienze negative. Proprio lì mi è stata ‘rifilata l’UNIMENS, la puntura mensile, facendomela passare per qualcosa, di sicuro, di migliore della pillola. Io ero andata lì a prendere la pillola e il medico mi ha detto prendi l’UNIMENS perché è migliore. L’ho presa per 4 mesi, poi ho letto su EFFE che non era stata ancora ben sperimentata, che poteva avere conseguenze negative per le forti dosi ormonali che restano depositate nell’organismo. Ho interrotto l’UNIMENS e ho avuto mestruazioni per 15 giorni al mese per tre mesi. Sono tornata da quel ginecologo a lamentarmi. Dice: “sì, ho fatto male ma non provoca niente. Prendi pure la pillola”. Io ho continuato a prendere la pillola.
Occorre riflettere sui bisogni che emergono a livello di movimento studentesco, sui problemi della didattica, del nostro ruolo come donne all’interno dell’università e del come la situazione universitaria si rapporta al mondo del lavoro. Dobbiamo stare nella università come donne col nostro specifico e condizionare i contenuti stessi dell’insegnamento universitario e dell’esperienza universitaria più vasta.
Poi ho smesso per il mese d’interruzione e mi sono premunita di costosissimi spermicida e profilattici. E un profilattico si è proprio rotto, facendomi venire una paura tremenda, così mi sono presa la pillola del giorno dopo, cioè di nuovo grosse dosi di ormoni. Quel mese ho avuto le mestruazioni normalmente, ma il mese dopo è uscita una cosa stranissima, che non si è capito cosa fosse: un affare roseo e tondo con due prolungamenti — io spaventatissima ho pensato ad un feto. Sono andata a medicina preventiva e mi hanno detto di non preoccuparmi che era tutto regolare. “Continui a prendere la pillola. Ed io continuo. Insomma che devo fare”? Ho avuto una grossa conseguenza a livello emotivo. Avevo paura di essere ancora incinta, e la paura mi faceva perdere anche la sicurezza che mi veniva da quel minimo di conoscenza.
Ecco io penso che fra le studentesse qui le conoscenze sugli anticoncezionali siano scarse. Qui le ragazze che fanno all’amore lo fanno spesso ancora con il metodo del coito interrotto e/o l’Ogino Knaus. Qui alla casa abitano -essenzialmente ragazze che provengono dal sud, che non hanno ricevuto neanche un minimo di educazione sessuale. Qui il fatto della sessualità non viene risolto in positivo : siccome sei lontana da casa, sei in una città dove nessuno ti conosce, hai una specie di forma di emancipazione per cui magari fai all’amore, magari con anche più di un ragazzo, però stringi stringi non accetti bene la tua sessualità per cui o non te ne curi, o non vuoi assumere la responsabilità di vedere la tua sessualità come non finalizzata alla maternità come ti hanno sempre messo in testa: chi viene dal sud con una educazione repressiva al massimo ha dentro di sé l’idea che non si può avere una sessualità fuori dal matrimonio, per di più una sessualità in cui si prendono precauzioni per evitare il figlio che non vuoi.
Isabella
Infatti molte prendono la pillola solo dopo aver avuto dei ritardi, aver provato la paura di essere rimaste incinte; o addirittura dopo aver abortito. Questo dipende anche da come ti danno la pillola a medicina preventiva. Come fosse un veramon. Senza controlli, e senza capire che qui le studentesse arrivano alla pillola solo dopo grosse paure, perché il fatto di usare la contraccezione è estraneo alla mentalità di molte di noi. A medicina preventiva dovrebbero capire questo stato d’animo, rassicurare le ragazze spesso prevenute sui rischi della pillola. Capire come si sentono le ragazze die già hanno difficoltà ad accettare il fatto di fare all’amore e di prendere delle precauzioni. Dovrebbero dire: intanto prendi questa pillola, vediamo se è quella che va bene per te, facciamo le analisi, vediamo. Invece te la danno così. A me per esempio è capitato di andare a medicina preventiva perché avevo una vaginite. Erano solo quindici giorni che avevo rapporti sessuali, i primi, e ho avuto grosse perdite nere. Mi capita un dottore anziano, mi fa spogliare, mi mette lo speculimi, e mi caccia un dito dentro. Mi ha fatto un male tremendo, anche adesso se ci ripenso mi viene l’ansia. Insomma mi caccia dentro il dito e mi fa vedere il mio sangue. “Viene da una piaghetta che hai dentro”, dice e poi lo mette su un vetrino. “Curati bene e subito”. Non mi dice che cosa ho. Chiedo “posso prendere la pillola”? “Sarebbe meglio di no, ma prendila se no rischi di rimanere incinta”. Io esco di lì arrivo a casa e svengo perché stavo malissimo e poi mi ero convinta che non m’avesse detto cosa avevo perché avevo il cancro all’utero. Sono rimasta così in preda ai dolori, e al terrore ed ho avuto un ritardo mestruale di 30 giorni. Non riuscivo più a studiare né a fare niente.
Mi sembra che dalle vostre esperienze di studentesse, come del resto dalle mie di docente precaria, emergono tutta una serie di problemi e di bisogni specifici che potrebbero diventare la base di una proposta femminista per un vero mutamento dell’università; come mai secondo voi il movimento femminista non è ancor riuscito a esprimere una sua posizione sulla questione della riforma e su tutti i problemi ivi connessi?
Laura:
Io sono convinta che il movimento femminista abbia un certo ritardo rispetto al movimento che è scoppiato nell’università. Non a caso ci siamo trovate abbastanza impreparate rispetto all’esplodere della protesta all’interno dell’università. Come femministe abbiamo parlato molto sulla violenza, sul come rapportarci al movimento, sul problema di un nuovo modo di fare politica, però alle riunioni si è parlato e riflettuto poco sui problemi, sui bisogni che emergevano a livello di movimento studentesco, sui problemi della didattica, del nostro ruolo come donne all’interno dell’università, e del come la situazione universitaria si rapporta al mondo del lavoro. Non abbiamo elaborato gli spunti femministi su un nuovo modo di lavorare, su un nuovo modo d’intendere il lavoro intellettuale. Perché c’è stato questo ritardo? Perché c’è ancora secondo me? Innanzi tutto mi è sembrato che l’intercollettivo universitario dopo l’occupazione dell’aula D lo scorso anno, cioè dopo esser riuscito a creare un proprio spazio specifico dentro la università abbia fatto poco lavoro di coinvolgimento di altre studentesse rispetto al problema del femminismo e della donna nell’università. A parer mio c’è stato un certo rinchiudersi nell’aula D e per certi versi è divenuto più labile il contatto con l’esterno. È mancata una riflessione rispetto alla università; rispetto alla donna nell’università e non solo rispetto al femminismo all’università. Occorre riflettere sulle tematiche importanti dei bisogni, del nostro ruolo come donne, ecc. per poter incidere positivamente sul movimento degli studenti e più in generale per trasformare l’università. Dobbiamo stare nell’università come donne col nostro specifico e condizionare i contenuti stessi dell’insegnamento universitario e dell’esperienza universitaria più vasta.
Finora compagne femministe hanno fatto interventi, hanno scritto mozioni, hanno criticato il modo brutale dei maschi di far politica, hanno preso le distanze dalla violenza, però siamo riuscite solo a far questo anche perché siamo state castrate proprio da quel clima di violenza e sopraffazione. Nelle assemblee questo ci distruggeva come donne. Io credo invece che lavorando come commissioni di donne, aprendo un dibattito su queste tematiche, portando i nostri contenuti nei vari collettivi di facoltà, possiamo fare un primo passo per portare avanti il nostro punto di vista.
Tuttavia ci manca ancora un’elaborazione precisa, per esempio su come portare avanti certe lotte sulla riforma Malfatti. Un vero dibattito collettivo non è stato fatto. Se questa è una riforma che ci porta indietro come studenti, che oi emargina e che accentua la repressione — ci siamo dette — sarà ancora più dannosa per noi donne ” che già subiamo altri meccanismi di selezione. Però dopo queste prime critiche non abbiamo ancora elaborato niente da contrapporre in positivo. Io ad esempio non ho nessuna chiarezza sul cosa fare, proprio perché mi è mancato questo momento di elaborazione collettiva. Questo mi sembra ora l’impegno più urgente.