Sanremo
Sanremo requiem per un festival
Qualche giorno fa, prima di scrivere quest’articolo, ho incontrato un mio amico, di professione Intellettuale di Sinistra. Il femminismo gli è del tutto alieno, ma adesso è di moda, le sinistre l’hanno, sia pur con le pinze accettato, e perciò anche il Nostro s’adatta a trangugiarne, di malavoglia, qualche boccone. Dato che fa l’Intellettuale e il suo compito è «Dare la Linea», s’affanna, ogni volta che incontra una femminista ritenuta «recuperabile», a spiegare come dovremmo «gestire la lotta» e «portare avanti il discorso». «Nella misura in cui», s’intende. Il mio amico, dunque, mi chiede cosa scriverò per il prossimo numero di EFFE. «Ma — dico io — veramente volevo vedere un po’ le canzoni di Sanremo da un punto di vista femminista». «Sanremo? — ribatte col sopracciglio attonito — Ma sei matta? Perché ti occupi di quelle cose lì?» E intona il ‘ memento ‘: di Quelle Cose Lì, del ciarpame, non dobbiamo occuparci, nostro compito è l’analisi del femminismo, dei ruoli, delle contraddizioni, delle alienazioni, delle cooptazioni, dei massimi sistemi. Insomma della Cultura che sta al piano nobile, degna dell’Analisi e della Sintesi, non della Sottocultura di cui l’immondo kitsch sanremese è decennale vessillo. Volevo dirgli — ma me ne mancava il tempo e la voglia — che giustappunto uscendo da una delle nostre sessioni di seriosissimo femminismo, mi era piovuto addosso da una finestra spalancata su una stradina della vecchia Roma, tra un’Analisi e una Sintesi, la canzone vincente del festival di Sanremo 1975, «Ragazza del Sud» (identificata mezz’ora più tardi, coll’ausilio di «Sorrisi e Canzoni»). E che, inchiodata a ascoltare, insieme a un sorriso di scherno per Quelle Cose Lì («ma come? c’è ancora quella schifezza di Sanremo?») mi era salito dal fondo della memoria, stratificato relitto, il ricordo delle sere passate al Bar Centrale, tutto il paese ammucchiato davanti alla TV, io e mia sorella coi volti arrossati intente a sgranocchiar croccanti nel fumo denso di sigarette, le bestemmie degli uomini che giocavano a biliardo e Mina che cantava «le mille bolle blu» con la gonna rigida, traboccante di sottovesti. Questo ciarpame, questa Sottocultura fa parte dell’Amarcord di tutte noi nate in provincia, da famiglie di contadini, operai, impiegati, nutrite di processioni – Juve o Inter – esercizi spirituali – Giro d’Italia -passeggiata della domenica sera – la Lollo – Tony Dallara – balera – Celentano, ammesse alla grande bouffe del boom economico per la prima volta in secoli felici di esserlo, pronte a trangugiare tutto quel che ci veniva generosamente concesso, la consecutio temporum e Little Tony, Leon Battista Alberti e i Caroselli, Il passero solitario e i libri del Delly, i pensieri del Guicciardini e quelli del parroco. Ignare che si trattasse di inganno, con gli occhi sgranati, grate di poter finalmente entrare, in punta di piedi, negli opulenti recinti del benessere: il frigorifero, l’acqua in casa, lo shampoo, la televisione! E lungo tutto l’arco del Cammino verso la Prosperità, a ritmare le stagioni dell’opaca, brianzola contentezza di «far soldi», c’erano il festival di Sanremo e il Disco per l’Estate e Canzonissima. Non era la nostra cultura, di cui ci andavano pian piano derubando con inavvertite sottrazioni, (niente dialetto perché era volgare, i sassi delle strade ricoperti di asfalto, le case contadine spalmate di cemento, le tettoie di ondalux al posto dei pergolati di glicine), era un’operazione di contrabbando, un Pacco Dono zeppo di Miti del Benessere preparato apposta per noi, una munifica elargizione dei potenti. Come polvere, questa Sottocultura travestita ci è entrata dentro, depositandosi in strati che ogni tanto tornano a galla (la grande fatica, dopo la Presa di Coscienza, è proprio la lotta con questi improvvisi ritorni, queste repentine recrudescenze). Tra questi strati è l’Immagine Femminile, la Donna delle Canzoni, inconscio modello che faceva da contraltare all’altro, mistico e azzurrognolo, della Vergine Maria e di sante dal viso compunto, giglio in mano, trafitte di spade, il cuore porporino trapassato da spine. La Lei della canzone era anch’essa trafitta, ma da spine amorose: sospirosa, «avvinta come l’edera», folle di LUI. Un LUI forte e potente, che la risucchia (se gli va) in un vortice di passione: «lo sono il vento — sono la furia che passa e che porta con sé — ho attraversato il deserto cercando di te — sono l’amore, la passione d’amore» (recitativo di Arturo Testa, un big dei festivals anni 50) e poi la rivelazione: «Qualcosa c’è in me, più forte di te». Ecco il Biologico, il Misterioso, la Naturale Superiorità Maschile che fa attraversare deserti come fossero giardinetti mentre Lei, che al massimo ha attraversato la cucina, lo attende palpitante sulla porta esalando «e questa gioventù — in un supremo anelito — a te la legherò — a te consacrerò — la vita». Anno dopo anno, mentre il paese cresce, scoppia la contestazione, digrignano i denti i fascisti, le donne escono dal bozzolo, l’Italia sta diventando adulta, quella del 12 maggio, la Donna di Sanremo, avvolta nella cieca nube del suo amore, singhiozza «Non ho l’età» e, irrimediabilmente minorenne e minus habens, continua a esibire cuori trafitti e attese stakanoviste. Né le cose cambiano nel ’75: anzi, il recupero è d’obbligo, la restaurazione incalza, la Rai TV vibra degli anatemi fanfaniani contro la permissività. Qualche anno prima si era permesso a Silvie Vartan di cantare «Come un ragazzo di qua e di là — io me ne vado per la città», ma le francesi, si sa, son puttane perciò non contano. A Sanremo ’75 trionfa la Mamma, la rima amore-cuore-dolore, la donna è una «Bella senz’anima», una «Madonna d’amore», «dolce dolce» e ovviamente «bella bella», di sani principi «l’amore clandestino, beh non parlo», grafomane ma solo per amore «ti scrivo stasera al di là della nostra frontiera». Non ha sussulti femministi e, se li ha, sono sbrigativamente risolti: «se nasco una altra volta, nasco uomo e non se ne parla più».
E poi c’è la Ragazza del Sud, la summa della Weltanschaung fanfan-bernabeiana in materia: è una donna che canta, una «signora», che se ne è andata da casa forse alla ricerca dell’Emancipazione (questo non lo si dice, lo si fa intuire) ma mal gliene è incolto, ora vive di Rimpianti e Ricordi e così si rivolge alla Ragazza del Sud che invece è rimasta a casa, fedele a Dio Patria Famiglia. «Ragazza del Sud — sospira la Traviata 1975 — tu che t’affretti perché suona la messa, cammini a testa bassa e saluti chi conosci» (ci si è dimenticati lo scialle nero, ma pazienza, gli ingredienti folkloristici ci son quasi tutti) «tu che vivi in un paese di aranci e oleandri» (quei pochi scampati alle grinfie della speculazione mafioso-governativa) «ti hanno insegnato a credere, a vivere aspettando LUI» (pudico accenno al suo futuro status di vedova bianca, con LUI emigrato nella Ruhr) «Rimani a ricamare il tuo nome sul lenzuolo» (possibilmente a cottimo; e non ti venga in mente di metterti coi sindacati il lavoro a domicilio è quel che ci vuole). Ragazza del sud, conclude la «signora» un po’ traviata ma ancora cosciente dei Veri Valori, darei tutto per avere il tuo sguardo. Ma non è soltanto la ragazza del Sud a vivere immota in un mondo immoto. Da Sassuolo a Civitavecchia, da Trapani a Bolzano la donna Italiana è lì che sospira con Mia Martini «e mi trovi qui, ricca ancora di te, dell’umanità che tu grande spargi su di me — al mondo cos’altro c’è» e
mugola con Rosanna Fratello «Tu mi hai cambiato il mondo, tu mi hai creato un volto che non avevo». Poi c’è Angela Luce, 19enne avvolta in veli sexy neri, stile LIBERA (quella della Tattilo) ma che canta dal più profondo dell’harem: «tu, grande in tutto come sei, dammi un addio grande come te, tu che sei sempre stato re nelle tue follie». LUI è dunque il Re Pigmalione, Demiurgo, Vento che Scuote e Travolge, Centro della Vita. E Lei? Si è detto: mamma-madonna, bella passiva e irrimediabilmente scema. Canta un certo Drupi: «sereno è — rimanere a letto ancora un po’ — e sentirti giù in cucina — che prepari il caffè; sereno è — ricordare il primo giorno che — tu sei stata sulla moto mia — e la volta che hai guidato tu — giù nel fosso a testa in giù». Stia a casa a fare il caffè, la Stupidina. E si faccia proteggere da LUI, possibilmente sì faccia anche sposare. Lui è infatti anche magnanimo «e come gli altri ti avrei sposata prima o poi — perché non dovessi credere che ti ho amato senza darti affetto». Ex ecclesia (Sacra Rota compresa) nulla salus, donne mie.
La musica non cambia neppure al di fuori del vetusto, ormai agonizzante festival di Sanremo (che ogni anno tutti danno per spacciato, come Fanfani, ma che ogni anno risorge a nostra penitenza). Anche un Lucio Battisti, che scrive canzoni cosiddette d’avanguardia, ripercorre i medesimi sentieri. Come in questo schizzo di vita campestre, una georgica battistiana che dedichiamo ai braccianti di Maccarese, in lotta da un anno, e ai pochi rimasti a fare i conti con quella che è oggi l’agricoltura in Italia (e soprattutto alle mogli dei braccianti): «Al ritorno dalla campagna — prima cosa voglio trovare
il piatto pronto da mangiare — Al ritorno dalla campagna — prima cosa voglio parlare di tutte le cose che ho da dire e qualcuno deve ascoltare — Donna mia, devi ascoltare, donna mia devi ascoltare — Terza cosa quando ho finito presto a letto voglio andare — e fra la seta della carne tua, mi voglio avvolgere fino al mattino — e donna senza più alcun pudore, dolce e impetuosa ti voglio sentire
Al risveglio alla mattina — prima cosa voglio sentire il profumo del caffelatte (rullio di tamburi) —. Non c’è bisogno di commenti. La Cultura per il popolo (non Del Popolo) non cambia modulo: di ciarpame ci hanno nutrito ieri, di ciarpame tentano ancora di nutrirci oggi. Ma l’inganno funziona sempre di meno: e nel mucchio della spazzatura, insieme a Quelle Cose Lì, a tutti gli specchietti-ciondoli-sonagli della Sottocultura, propinata a noi inferiori (donne in testa) perché Inferiori rimanessimo, butteremo ben altro che le canzoni di Sanremo.