CREATIVITÀ

quale creatività, il ruolo della donna

aprile 1975

 

In una cultura come la nostra, essenzialmente legata all’immagine, la figura femminile è una presenza insistente, quasi ossessiva. Se essa non scivola via ma ci turba e ci inquieta come la cattiva coscienza bisognerà che la guardiamo a lungo in profondità e che per fare ciò la isoliamo per un lungo momento dal contesto delle altre immagini e la poniamo di fronte a noi in modo diretto. Che la ritagliamo come una figura di carta isolandola dalla prospettiva del tempo e dalla relazione con le cose. Diciamo subito che a questa operazione opponiamo alcune resistenze: perché infatti proprio la donna dovrebbe essere un campione di analisi?

L’analisi ci restituirà un’immagine intatta o un’immagine frammentata e contraddittoria che può far paura? E in questo secondo caso da dove ripartiremmo per far ricombaciare le parti lacerate, le zone corrose, le membra artificiali? Una cosa è certa ed è che per dolorosa che sia dobbiamo arrivare alla conoscenza. Per ripartire da quel punto. È sentendo questa necessità, quella di leggere tra le parole e le immagini che ci vengono presentate, quale sia il ruolo culturale della donna, quanto essa lo agisca da interprete e quanto lo indirizzi personalmente, che noi accettiamo di occupare questo spazio che Effe ci apre, dove non esiteremo mai a portare come un prezioso contributo alla conoscenza anche le nostre perplessità critiche, le nostre incertezze profonde.

Vorremmo che il processo stesso della nostra indagine sì accomunasse ad essa divenendo materia d’esame che l’arricchisca. Perché nel momento in cui ci poniamo di fronte ad un tema come questo che tanto ci sta a cuore noi stesse dobbiamo creare una metodologia critica che non possediamo in relazione all’oggetto prescelto. La metodologia sì formerà e si svilupperà parallelamente e insieme alla chiarezza del nostro campo di indagine. Ci assumiamo dunque un duplice compito.

Quello di confrontare noi stesse con la materia della nostra analisi e vorremmo che questo punto fosse sempre presente. Per questo ci muoveremo su terreni specifici, tentando tramite i mezzi di lettura che già possediamo di indicare situazioni, scelte e comportamenti che raggiungano il limite dell’ambiguità espressiva. Quando cioè in un contesto chiaro non ristati chiaro il vero significato che il personaggio femminile assume, noi interverremo per evitare che esso si presti ad un capovolgimento d’interpretazione. E affrontare nello stesso momento il problema del mutamento delle capacità interpretative della donna come un nodo da districare. Sentiamo infatti che il tema della creatività, della libertà espressiva, la possibilità di uscire dall’ambito del medium per essere messaggio, è profondamente legato con il momento dell’interpretazione. E forse, proprio perché dobbiamo imparare a leggere, noi avremo la possibilità di costruire attorno a questa lettura un modo articolato e nuovo dì creare e dì indirizzare la cultura.

Le donne non hanno ancora inventato nulla, i messaggi nascono altrove. Ma la società, il mondo ha oggi bisogno come non mai, e lo dice e lo afferma in tanti modi, della nostra invenzione.

 

le arti visive

Facendo per professione il critico d’arte mi sono trovata assai spesso a dimenticare che la donna esiste. Era solo incidentalmente che nel cuore della produzione più significante del nostro tempo, là dove si crea cultura, mi capitava di notare per esempio che Nevelson si chiama Louise. Ed è solo più tardi che leggendo la biografia di Nevelson appresi di ritardi, difficoltà, controversie perché dietro al grande scultore c’era una famiglia e una storia di donna. Ma aveva tutto ciò qualche significato? Forse lo aveva ma non mi era chiaro quale perché gli artisti hanno sempre delle storie psicologiche che li condizionano e contro le quali devono lottare per trovare la via. Dunque? Forse mi dicevo più tardi la storia di una donna ha in questo caso qualcosa di diverso perché è una storia sociale del tutto particolare che riguarda tutte le donne. Del resto di questa storia nel senso più ampio sapevo ed avevo coscienza, ma nello stesso tempo è come se pensando e scrivendo io la negassi. E Nevelson restava un esempio nitido per un artista contemporaneo della vittoria sulla storia comune. Voglio dire che individualmente la vedevo salva e nella sua salvezza riconoscevo la mia possibile salvezza che mi pareva potersi realizzare per una via soltanto, quella della conquista di una zona di garanzia dalle interferenze della propria femminilità. Che turpe personaggio ero dunque in quel tempo in cui credevo alla salvezza per intelligenza riservata a pochi, tra i quali senza nessuna modestia includevo me stessa, riservando a quei pochi il dominio di una libertà profonda, esclusiva! Quei pochi erano uomini e donne non c’era distinzione, erano gli eletti. Erano quelli più severi con se stessi, quelli senza indulgenza e morbidezze, chiusi in un angolo del mondo a inventare il mondo.

Mi accorgo mentre rifletto ora su queste cose che nella mia accanita preparazione professionale ci devono essere stati accanto ai contributi scientifici che via via andavo assimilando nel senso della teoria della percezione o dell’antropologia o della psicanalisi, dei residui’ pesanti, gravosi tutt’altro che levitanti di una concezione romantica dell’artista, dell’uomo di cultura, del vero interprete della cultura. In altri termini quelli sono stati i miei pregiudizi e chissà mai se me ne sono liberata fino in fondo. Ma allora, potrebbero chiedermi le lettrici di Effe, con queste premesse, che cosa ci vuoi raccontare che ci interessi davvero?

Infatti credo di avere, sia pure con questo turpe passato, qualcosa da raccontare, o meglio da verificare con voi. Prima di tutto abbiamo insieme posto davanti a noi il tema della creatività e dobbiamo affrontarlo insieme ed è un tema molto vasto dove appunto vi dicevo io ho a che fare con le scorie dei miei pregiudizi e voi con quelle dei vostri che forse sono tra-loro più affini di quanto non si pensi. Sono pregiudizi femminili costruiti tutti quanti con il contributo maschile opportunamente indirizzato dalla società che ha fornito gli uomini di una creatività capillare, costruiti e cresciuti attorno al tema della femminilità. Fino ad ora infatti o una donna è un’artista e allora è nella stessa posizione di un uomo oppure non lo è e allora è una donna. Ma per gli uomini invece gli schemi non sono così rigidi.

Gli uomini hanno appunto, fornita di diritto dalla società in cui vivono, una creatività capillare che si esercita anche nel forgiare una certa immagine della donna che ci si offre attraverso i canali della cultura del nostro tempo che è una cultura di massa. La fotografia, il manifesto, l’immagine pubblicitaria, l’oggetto di design, la serigrafia, l’illustrazione a tutti i livelli sono oggi i veicoli della nostra cultura dell’immagine, almeno di quella che ci interessa di più perché agisce nella nostra vita e la cambia. Questo settore così esteso di creatività, che non sta nell’eseguire un certo prodotto ma nell’elaborarlo, nel progettarlo avendo presente i fini a cui si dirige appartiene di fatto alla donna? Certo esiste la donna grafica, disegnatrice, progettatrice, ma a quale livello la sua presenza è tale da agire in profondità, da determinare una cultura? Sia essa esecutrice del messaggio o interprete di esso, dalla cultura dell’immagine fino ad oggi la donna è fuori.

E nello stesso tempo più forte si fa l’urgenza che essa sia dentro. Che elabori, costruisca e preveda il mondo che attraverso l’immagine del mondo si va prefigurando esattamente come fino ad oggi ha fatto la società maschile che la governa.

Io penso che la donna dovrebbe conquistare la gestione dei centri di potere dove si elabora la cultura anche per sapere quale cultura vuole fornire, per affermare in quale cultura si riconosce. Ma da ciò siamo ancora lontani perché alla gestione del potere ci si prepara con una lenta acquisizione di mezzi e chiarificazione di fini. E da qui noi dobbiamo oggi partire.

Quale creatività infatti? Quella dell’artista, termine isolato di un momento della cultura, destino privato che si estende sul mondo? Quella dell’artigiano esecutore paziente di disegni altrui? Quella di conservatore di antichi modelli di cultura che nel tempo si potrebbero estinguere? A quale di questi ruoli, ove si parli del terreno dell’immagine che ci si trasmette attraverso le arti visive, vogliamo indirizzare la donna? Vogliamo insieme dire che tutte queste vie, queste possibili indicazioni di espressività la riguardano in modo diretto e che essa non deve a priori compiere in esse nessuna scelta nel senso di una direzione o di un’altra. La vicenda personale darà il ruolo alla donna così come avviene per qualunque vocazione, per qualunque scelta. Ma oggi noi sappiamo che quello che ci interessa è la società, la nostra società che vogliamo sia quella in cui effettivamente tutti possiamo arrivare a riconoscerci, uomini e donne. Vogliamo conservare delle cose che ci ‘riguardano, i cimeli della nostra storia sociale femminile e vogliamo proporne delle altre, sostitutive. Credo di esprimere il vostro sentimento, quando io dico che non vogliamo perdere nulla. Che vogliamo metterci in condizione di aver acquisito tanto da poter regalare: regalare le nostre immagini di vita e i nostri prodotti culturali più elevati.

Ma non crediamo nella mezza cultura, nella mezza conoscenza, nella mezza libertà.

E, se siamo nel numero di quegli eletti, a torto o a ragione, di cui si parlava prima, se cioè la nostra vicenda personale ha fatto sì che qualcuna di noi sia un’artista in cui tutta la società riconosca oggi un suo modello, da quella posizione di forza che per un caso della sorte abbiamo raggiunto rifiutiamo che -attorno alla nostra opera si strutturi un sistema economico di valore.

Questa mi pare una novità che la donna artista potrebbe già da oggi portare come contributo originale, del tutto originale alla società che ha fatto dell’arte uno dei simboli del capitalismo economico.

Gli artisti uomini non hanno saputo resistere alla capitalizzazione del proprio lavoro, quelli che sono rimasti ai margini difendendone l’intenzionalità sono una frangia ridotta. Il mercato dell’arte corrompe oggi il significato dell’arte stessa, ne mette in crisi la ragione di esistere. Gli artisti devono vivere come tutti gli uomini devono vivere, e hanno bisogno di materiali e di studi per il loro lavoro. Ma l’opera d’arte che è un messaggio di idee nella forma così come lo sono tutti gli altri messaggi che il mondo ci fornisce non deve essere ridotta a un bene di consumo da un prezzo che ne stabilisce il valore economico. Questo la donna artista può dire e affermando l’autonomia della creazione artistica da altre interferenze associa la pittura, la scultura, l’architettura a tutte le altre forme espressive che compongono la cultura del nostro tempo. Ponendo tutta la cultura dell’immagine sullo stesso piano di fronte a sé la donna ha oggi forse come non mai la possibilità di uscire dalla prigione romantica e di accostare la cultura alla storia.

Federica Di Castro

 

il cinema

Nell’ambito del cinema uno dei fenomeni che più particolarmente saltano agli occhi come spia del carattere di classe della produzione cinematografica appare il divario esistente tra la produzione del film a buon livello artistico e degli spettacoli, cosiddetti di consumo, destinati ad un pubblico popolare.

In generale, molto in generale il film d’arte è solitamente costruito con grande impegno di contenuti e con originalità di linguaggio filmico e per la sua natura è prodotto da e per un élite abbastanza ristretta, anche se si potrebbero trovare delle eccezioni.

Il cinema destinato invece al consumo da parte degli strati popolari è caratterizzato da povertà o facilità di contenuti e basso livello espressivo, un prodotto che ha chiari intenti di pura evasione squalificante e rifiuto di una benché minimo sforzo culturale.

Assistiamo da un po’ di tempo al tentativo di produrre film che possano superare questo divario, immettendo nel cinema cosiddetto di consumo tematiche e contenuti di maggior impegno politico culturale e perseguendo un livello tecnico-artistico dignitoso. Si va così alla ricerca di un colloquio con più vaste platee nell’intento di un’elevazione politico-culturale degli strati popolari, pur nel momento del divertimento e della cosiddetta evasione.

Anche se è da accogliere questo tentativo come positivo, occorre analizzare attentamente i risultati per vedere quanto le considerazioni commerciali pesino troppo su produttori e autori, mistificando e inquinando la resa del messaggio e finendo per impoverire anche certi contenuti di per sé validi. Nell’ambito di questo filone che ancora timidamente tenta di farsi strada, non mi pare ozioso esaminare il rilievo e la corposità nuove del personaggio femminile, da sempre spia infallibile del discorso più generale che si vuol far passare. Intanto bisogna notare che si comincia a sentire l’eco delle lotte e dei movimenti che agitano la società. Che la donna non sia proprio quella tradizionale, dedita all’uomo e alla faccende domestiche, è arrivato all’orecchio di produttori e registi e comincia a balenare qua e là anche nel cinema. Un esempio abbastanza positivo di questa attenzione e sensibilità è stato «Una breve vacanza», sceneggiato da Zavattini e diretto da De Sica, e che stranamente ha avuto una diffusione non abbastanza ampia.

Una storia amara, che per qualche verso ricorda le prove migliori della celebre coppia di artisti: un’operaia di una fabbrica di Milano, immigrata dalla Calabria, che col suo lavoro provvede all’intera famiglia — figli, suocera e marito temporaneamente invalido a una gamba — riesce a godere di «una breve vacanza» grazie ad una pleurite contratta appunto per il superlavoro e per gli affanni familiari perché mandata dalla mutua in un sanatorio in montagna. Il riposo, nuove conoscenze e amicizie che questa vacanza le permettono, le faranno prendere nuova coscienza di sé. Ma alla guarigione, il cerchio si chiude e torna alla vecchia via, piena di nuovi interrogativi e nuove esigenze. La condizione della donna operaia viene rivelata, specialmente nella prima parte del film, che è anche la migliore, in tutti i suoi aspetti: superlavoro, carico doppio di responsabilità della famiglia e del lavoro, subordinazione sessuale, condizionamenti psicologici; con il metodo caro a Zavattini della cronaca di uno spaccato della realtà capace di rivelare nei suoi accadimenti modesti e quotidiani significati e modi di esistere universali. La seconda parte, in special modo l’idillio con un poco probabile operaio, è molto più debole e abbonda troppo di facili concessioni consumistiche, ma è comunque degno di nota da parte degli autori aver voluto indicare la problematicità dell’esistenza femminile in tutti i suoi risvolti, sospendendo poi una qualsiasi indicazione risolutiva, quasi ad accentuarne la drammaticità. Ho voluto soffermarmi su questo film, prima di passare ad altri più recenti, perché mi sembra, nonostante i limiti, un caso unico e che, strana coincidenza, non è stato favorito dalla distribuzione quanto si sarebbe meritato. Due film recenti in cui il personaggio femminile assume toni nuovi e più rispondenti alla realtà sono «Romanzo popolare» di Monacelli e «C’eravamo tanto amati» di Scola: la moglie bambina — venuta dal Sud — di «Romanzo popolare», invece di scegliere uno dei due uomini che se la contendono come cosa propria, li abbandona entrambi e si costruisce una vita indipendente, anche se dura. La Luciana di «C’eravamo tanto amati» dopo aver consumato a proprie spese velleità artistiche e sogni di grande amore, trova una propria serenità e dimensione nella solidarietà e nell’affetto con il marito modesto infermiere e nella partecipazione alle lotte sociali, mentre Elide, moglie troppo innamorata dell’avvocato arrampicatore sociale. Ma pur in questa novità di accenti, rimangono ancora molti schemi vecchi: soprattutto ancora una volta, i veri protagonisti di queste storie sono gli uomini e lo sforzo di caratterizzazione sociale e psicologica degli autori è concentrato su di loro. Di queste donne, del loro travaglio interiore, delle loro esigenze, delle motivazioni delle loro scelte sappiamo ben poco. In «Romanzo popolare», la decisione di lasciare i due litiganti e andarsene è cosa di un attimo, non preparata da alcuna avvisaglia, e da vita autonoma che la ragazza si costruisce è «raccontata» dalla voce fuori campo. Il vero protagonista della storia è Giulio, interpretato dal bravo Ugo Tognazzi ed è proprio qui che il film trova gli accenti più felici, nella caratterizzazione di questo operaio del Nord, aperto e sindacalmente impegnato, ma nel fondo condizionato dai pregiudizi che pur professa di combattere. Stesso discorso vale per «C’eravamo tanto amati», in cui l’interesse degli autori è chiaramente diretto al racconto della vita dei tre amici. Di essi soprattutto viene seguita con attenzione la vicenda pubblica e privata, mentre Luciana è sostanzialmente una figura di contorno, o per meglio dire il pretesto intorno a cui ruota la storia dei tre. Di lei conosciamo solo gli atti esteriori, (il suo desiderio di far l’attrice, il tentato suicidio, il figlio illegittimo). Sappiamo alla fine che diventa la moglie di Antonio, il personaggio più positivo, e che acquista una dimensione umana e sociale più matura. Solo di Elide seguiremo un po’ più da vicino le ambasce e i disagi nel tentativo disperato e inutile di trovare una ragione di vita che non sia l’adorazione per il troppo egoista marito. E non a caso questo tentativo si chiude con il suicidio.

Balza agli occhi evidente la difficoltà dei nostri autori e registi, pur impegnati di chiarire in modo convincente a se stessi e al pubblico quale è la donna che è venuta maturando nei trent’anni del nostro travagliato dopoguerra. Nessuno ci aveva mai pensato, nessuno se ne era mai occupato e ora che le lotte e le prese di posizioni (e il grande stupore della vittoria del referendum da cui uomini politici e di cultura non si sono ancora ripresi) ha costretto tutti quanti >a vedere e a fare i conti con questa realtà un tantino fastidiosa, la famosa patata bollente, la conoscenza e l’approfondimento in termini cultural-artistici risulta quanto mai difficile.

Scilla Finetti

 

la televisione

Pur nella banalità e ovvietà dei temi che presenta e in parte proprio a causa di esse, la pubblicità televisiva mi sembra si presti particolarmente ad essere analizzata in chiave femminista, in quanto condensa e propone, nello spazio relativamente breve dei suoi shorts, i modelli di identificazione verso i quali la cultura di massa indirizza la donna. Già da tempo, infatti, la società si è orientata verso la promozione di valori cosiddetti «femminili», creando una vera e propria «mistica della femminilità», come la definì Betty, Friedan in un suo studio sociologico, il che significava e significa tuttora relegare il personaggio femminile in ruoli subalterni ed estranei al mondo produttivo e creativo. Intanto l’industria consumistica ‘alla donna principalmente si rivolge, facendo leva appunto, attraverso una spesso abile tecnica persuasiva, sui due aspetti principali nei quali s’incarna la sua femminilità» e che sono i prototipi standardizzati della donna vamp, preoccupata soltanto di accrescere la sua bellezza e della casalinga, il cui scopo principale è quello di rendere sempre più confortevole la casa per sé e la sua famiglia. A questi due tipi di donna corrispondono due settori ben determinati di generi di consumo e che si riferiscono alla moda e ai prodotti di bellezza da un lato, ad ogni sorta di confort e di arredamento per la casa dall’altro.

Nella pubblicità televisiva il personaggio femminile compare con insistenza in questo duplice ruolo ma direi che molto spesso i due ruoli tendono ad unificarsi: la «seduttrice» perde in parte la sua aggressività ‘sessuale per divenire una donna elegante, ben truccata, graziosa, spesso intenta a cucinare, fresca e sorridente dopo, si suppone, una giornata piuttosto faticosa, mentre attende marito e figli. Nel proporre questi modelli d’identificazione, i persuasori occulti puntano sulle delusioni e sulla noia delle casalinghe, sulle loro frustrazioni.

Questi sono tuttora, anno 1975, i messaggi che i caroselli mandano alle donne, messaggi che mi pare siano principalmente rivolti alle casalinghe benestanti, ma che arrivano indirettamente anche a quelle appartenenti ai ceti proletari che, indifese sul piano culturale, tendono ad impossessarsi delle stesse aspirazioni delle classi privilegiate. È doveroso, però, a questo punto, dare atto alla pubblicità televisiva di essersi resa conto che esistono anche donne che svolgono un’attività lavorativa extra-domestica. Esempio: Uno short rappresenta un personaggio femminile che di. volta in volta è preposto ad un compito di prestigio o che richiede un impegno particolare, a una di quelle attività «maschili»: comandante di una nave, pilota, paracadutista. Vediamo a che cosa pensa questa donna, proprio nel momento in cui il suo lavoro si presenta più difficile o addirittura pericoloso: al suo bucato». Esso l’aspetta a casa. Da questa sua giusta preoccupazione penserà poi a salvarla la tale lavatrice o il tale sapone.

Da questa situazione mi sembra che possano emergere alcune considerazioni; da una parte è evidente lo stato di colpevolizzazione che una certa opinione pubblica, di cui i mass-media si fanno interpreti, riesce ad insinuare nella donna che esplica anche un’attività al di fuori delle mura domestiche e a cui si deve sempre ricordare che il suo ruolo primario rimane pur sempre quello della casalinga, dall’altra direi che la forzatura dell’assunto è in questo caso veramente tale da ottenere l’effetto contrario. In altri casi, invece, in cui la stessa situazione è espressa in forma meno paradossale, questo volere ridicolizzare delle condizioni di effettivo disagio in cui si trovano tante lavoratrici alle quali la mancanza di servizi sociali efficienti rende il lavoro extra-domestico una fatica spesso durissima, appare quanto meno fastidioso e inopportuno, anche se, proprio per questo, ugualmente controproducente. Sempre su questo argomento un ultimo esempio: personaggi femminili di fama prestano la loro immagine per reclamizzare un certo prodotto: per quanto celebri in importanti campi della creatività (come abbiamo potuto vedere nel carosello che ha per protagonista Carla Fracci) anch’esse pagano un ingiustificabile tributo a questa società. Proprio la società autoritaria, infatti, che ha lasciato magnanimamente spazio alla loro ascesa e realizzazione, sembra voler chiedere loro un pubblico omaggio che, sia pure incidentalmente, le reinserisce tradizionalmente in essa.

Grazia Maria Costantini