mia nonna femminista
Durante la prima nevicata quest’inverno mia nonna morì. Era una di quelle nevicate che fanno del Middle West americano ancora oggi un posto indicato solo per i pionieri o per eremiti particolarmente desiderosi di soffrire, e non riuscirono a seppellirla per un paio di settimane, data l’altezza della neve: io vidi in ciò una ulteriore conferma della perversità della nonna, di un suo dispettoso rifiuto al normale corso delle cose.
La nonna lasciò poche cose dietro di sé: un anellino di fidanzamento, un copriletto ad uncinetto un po’ malfatto, una sedia a dondolo e un distintivo del 1919 con su scritto: Women Will Have the Right to Vote. Le donne avranno il diritto a votare. Questo distintivo si trovava insieme ad una fotografia color caramella in cui si vede la nonna arrestata da un poliziotto. Attiva durante l’ondata di femminismo dopo la Grande Guerra, la nonna era una suffragette, una delle fondatrici a Cleveland di quello che è oggi una potente organizzazione, la League of Women Voters (Lega delle Donne che Votano), che, finché la nonna aveva 85 anni, ancora la onorava ogni anno con una colazione e un bel discorsetto. Alla nonna piaceva specialmente il gelato alla fine. La nonna non era nata per fare la suffragetta; tutt’altro. Nacque negli anni ’70 in campagna nel sud dell’Ohio, tra le verdi colline sopra l’Ohio River. Suo papà, modesto proprietario agricolo, la mandò alla scuola del vicino villaggio finché non fosse pronta per affrontare là vita. Si preoccupò assai per la figlia, e cercò di indirizzarla verso un mestiere consono con il suo status nella vita provinciale; perciò le mise su un negozietto di cappelli, e lei, Martha, dai 18 anni in poi avrebbe dovuto dedicarsi alla decorazione con nastrini, piume, fiori e frutti artificiali, di cappelli che assomigliavano alle torte di nozze. Un giorno si presentò in paese un signore con un orologio d’oro e, cosa più importante, una catena di sette negozi di ferramenta sparsi tra le colline dell’Ohio. Così, tra un nastrino e un fiore di stoffa, Martha andava a spasso dopo il servizio nella chiesa calvinista in un calesse tirato da un bel cavallo baio.
Nacquero quattro figli, La modisteria fu venduta, e tutto filò liscio finché la figlia grande di 18 anni e il più piccolo, di quattro, morirono in un’epidemia di tifo. Il marito, stravolto, meditò a lungo, poi un giorno annunciò: «Dio ci ha colpito. Vuole dire che noi Lo abbiamo offeso».
Ne prese anche atto. Rinunciò ad ogni bene terrestre, tranne un asinello e una copia della Bibbia, e se ne andò a predicare alla gente per espiare i suoi presunti peccati.
Mentre egli si preoccupava della sua anima immortale, la nonna dovette occuparsi delle anime; e soprattutto delle bocche, di due bambine e di se stessa, dato che lui rinunciò anche ai beni terrestri loro. Purtroppo, la richiesta per cappelli come torte di nozze era oramai esigua. Nel frattempo era arrivata la cloche. In compenso gli atteggiamenti sociali non erano cambiati per niente. L’abbandono per forza maggiore spirituale era insolito, ma la nonna ottenne il divorzio e creò uno scandalo notevole per un paesino dell’Ohio. Legalmente esisteva da tempo il diritto a divorziare, ma in pratica una donna «a posto» non osava usufruire di questo diritto. Era mettersi sullo stesso piano di «una donna caduta». Non solo le mancava la difesa di un uomo, ma lei diventava una minaccia alla società costituita anche perché si dava per certo che una donna senza uomo doveva per forza cercarne un altro, e che quello là sarebbe stato già di un’altra donna. Le mamme prima di mandare le loro figlie a giocare con quelle della divorziata ci pensavano due volte. La situazione non fu migliorata dalla presenza del nonno, il fu commerciante borghesuccio, ora in sella ad un asino, che invitava la gente a pentirsi dei suoi peccati. In un’altra epoca, in un altro paese, forse sarebbe diventato un santo. Lì per lì gli davano del matto. L’umorismo dell’Ohio agricolo non andava molto per il sottile. Così, la nonna partì per la grande città. Un posto di lavoro lo trovò. Fu assunta in un alberghetto per commessi viaggiatori per il turno di notte, che nessun altro voleva fare. Non era una grande vita, ma in quel modo poteva riordinare e stanze d’affitto, cucinare, accudire a due figlie, metterle a letto, e poi, la notte, andare al lavoro. Bastava rinunciare a dormire. In più, durante le lunghe notti, aveva l’opportunità di studiare dietro al banco dell’albergo, e si preparava per un concorso di agente immobiliare.
Diventò un’agente abilissima. Amministrò saggiamente i suoi guadagni finché un giorno piantò di persona un acero davanti al suo proprio villino, quel villino col giardinetto che fa parte di ogni sogno del ceto medio anglosassone. A quarant’anni aveva dovuto ricominciare la sua vita, e ci era riuscita. Nel frattempo la nonna organizzava con tre sue amiche un gruppo femminista. Uno dei loro primi atti fu di rinunciare ai loro nomi di donna. Usavano solo i cognomi, e senza «signora» o «signorina». Erano queste quattro che a Cleveland si misero alla testa delle prime marce, nel 1918 e 1919, per chiedere il voto per la donna. Dopo il divorzio la nonna rifiutò ogni rapporto con gli uomini che non fosse di lavoro o di obbligo. Non era una che perdonava, e non sentii mai dalle sue labbra una parola buona nei confronti di un uomo. Semplicemente li detestava. Siccome viveva insieme con mio padre nella stessa casa, che poi era di lei, per più di tre decenni lo trattò con formale cortesia ma niente di meno, ma mai niente di più.
Solo una volta vidi negli occhi della nonna una scintilla di qualcosa simile all’approvazione per mio padre. Accadde nel 1952. Il nuovo pastore protestante si sentì in obbligo di farci una visita e mio padre lo cacciò di casa. In quell’occasione i due bevvero insieme, dopo, un bicchiere di vino rosso.