piccolo gruppo d.c. in un interno
per quanto possa sembrare strano, l’idea fu di Amintore. Sfogliando i giornali, all’indomani di quel 3 aprile che aveva visto scendere in piazza, a Roma, cinquantamila femministe a manifestare per il voto fascio-dicì contro l’aborto, il suo sguardo penetrante era caduto e si era soffermato sullo slogan «il nostro privato è politico» e un improvviso sorriso che più che sardonico sarebbe giusto definire aretino, aveva rischiarato il suo volto. La frase gli era piaciuta e subito aveva pensato: «Se il ” loro ” privato è politico, il nostro — visto che siamo già dei politici e per di più maschi — lo sarà molto di più. E, di questi tempi in cui la politica del nostro partito non offre più nessuna credibilità, chissà che non si riesca — partendo dall’analisi del nostro “vissuto “, come dicono quelle streghe — a rimpolparne i contenuti».
Detto fatto, con un rapido giro di telefonate avvisò alcuni compari di partito e spiegò brevemente che il tema dell’incontro sarebbe stato: «Piccolo gruppo di coscienza secondo la prassi femminista». Avevano deciso di ritrovarsi a casa di Giovanni, detto familiarmente Giuà, che abitava in un grande palazzone del ‘500 dove non era difficile reperire una stanza in più, con arazzi, tappeti e affreschi di Veneri e putti capriolanti, come anche i terremotati del Belice, in visita turistica, avevano avuto modo di constatare.
Arrivarono alla spicciolata. Oltre allo inevitabile, inamovibile ed immarcescibile Amintore e al succitato Giuà, c’erano Mariano, Emilio, Aldo e Giulio. Dopo molti ripensamenti si era deciso, di comune accordo, di non dir niente a Benigno e a Donat. Era convinzione generale che avrebbero soltanto aumentato la confusione. Giulio fu l’ultimo ad arrivare e, vedendo gli altri appollaiati in pose libere sul divano — o come Emilio e Mariano — accovacciati in posizioni yoga sul tappeto, disse con la voce ferma e autoritaria che gli era abituale: «Io voglio la mia solita poltrona.». Ci fu un breve conciliabolo e, come sempre, fu accontentato. Era venuto pieno di dubbi e controvoglia. Voleva che lo si sapesse. — «Allora — disse Amintore con il consueto fare professionale — se lorsignori sono d’accordo, si va ad incominciare, Per prima cosa, vi ricordo che abbiamo l’obbligo di essere sinceri». Un’espressione sbigottita si dipinse sul volto dei presenti e un lampo interrogativo balenò nei loro occhi. — «Possibile?». —
— «In omaggio alla prassi femminista — continuò il nostro — incominciamo col parlare di donne. Io le ho sempre amate. Alla mia mamma ero molto affezionato, come dico sempre nelle interviste ai giornali di destra e sinistra. E poi, ne ho sposate addirittura due. Quanti di voi possono dire la stessa cosa?». Emilio sbadigliò mentre borbottava: «Questo potrebbe anche voler dire che le odii…», mentre Mariano arrossiva vistosamente, tossicchiando ad occhi bassi. Giuà disse soddisfatto: «Io la penso uguale. Le amo assai. La donna ha da essere bella e graz-iii-osa. L’uomo non importa. Tanto sempre maschio è… (s’interruppe timoroso di aver fatto una gaffe) … L’uomo può anche non essere un Adone — si corresse. Pure io, mode-stam-eee-nte, non sono bellissimo… Ma la femmina, la femmina sì, eh sì! E per la verità, mi pare che queste femministe si stantio a fa piuttosto carucce. Eh, eh, io quando vedo a una bella guagliona, penso proprio che c’è un Dio…», E fece passare in giro una scatola di biscotti Lazzaroni inviatagli dagli Agnelli.
Aldo tentennava il capo, cogitabondo. Non era soddisfatto della piega che stava prendendo l’incontro e si mise a fabbricare un areoplanino di carta a lunga autonomia che poi lanciò in direzione di Giuà. Con la sua vocetta cadenzata, di sacrestia, disse: «Lasciamo stare Dio, Cristo e i santi… Mi pare che li abbiamo messi avanti e portati in giro anche troppo… Forse se il nostro partito si fosse chiamato Democrazia Laica, invece che Cristiana, le cose sarebbero andate meglio…». — «E perché, non ti sembra che siano andate bene?» chiese Giulio con arroganza rilanciandogli l’areoplanino che nel frattempo era planato dolcemente sul tappeto.
— «Ragazzi, da bravi, siate seri, In definitiva ci troviamo qui riuniti per vedere se riusciamo a rinnovare la politica del nostro partito con l’analisi del nostro privato», Fece Mariano conciliante. «E io sono interessato a parlare del rapporto che ho con il mio corpo. Non è buono, devo dire subito. Non è buono… E per di più, guardo con invidia ai comunisti che — non so perché — sono quasi tutti magri, asciutti, con facce credibili e serie. Noi dobbiamo riconoscerlo, compari — siamo bruttini, flaccidi, stinti…».
«Bruttino ci sarai tu — lo interruppe con livore Emilio — Io sono bellissimo e per di più piaccio… Piaccio molto. Anzi, quando vado a fare la sauna…» ma qui prudentemente si interruppe, autocensurandosi. A questo punto Amintore si spostò, prendendo posto accanto a Mariano sul tappeto e borbottando che le correnti gli avevano sempre dato fastidio e qui sentiva degli spifferi, ma degli spifferi!
«Todo modo, questo è vero — riconobbe Aldo che ultimamente si era un po’ lasciato andare nel fisico. Adesso la gente è orientata — politicamente, intendo dire — verso il tipo magro e grintoso, sul genere di Longo, Pajetta, che so Berlinguer… anche Pannella piace molto». «Beh, se è per questo, non vi resta che mangiare meno…» concluse falsamente gioviale l’Amintore che ultimamente era rimasto un po’ al di fuori della spartizione della torta.
— «Sciò, sciò, ciu-ciò-vè aglio, fravaglia, fattura ca’ nun quaglia, capa ‘e alice-e-cape d’aglio, cuorna e bicuorna!», saltò su come un’antilope Giuà, facendo corna e scongiuri e toccandosi qua e là. «Non ne voglio ‘ neppure sentire parlare. Quelli, i comunisti, al potere non ci devono venire. Storicamente parlando, sarebbe troppo compromettente». — «Ma guarda che al potere, tu, se vuoi fare autocoscienza femminista, ci devi rinunciare» disse Giulio che fino ad allora se ne era stato in silenzio a rosicchiare le unghie, aspettando il momento giusto per
intervenire. «Queste femministe, il potere non lo vogliono e lo contestano. Capisci?». Sembrava davvero molto informato e per un attimo restarono tutti interdetti. — «Ma non possiamo neppure parlare degli speculum?» propose speranzoso Mariano occhieggiando le polpe del giovane valletto — appunto in polpe — che era entrato portando su di un cuscino di velluto rosso, un telefono che depose ai piedi di Giuà, uscendo poi con discrezione. — «NÓOOOO!» rispose dispettosamente Giulio. «E smettila!». Giuà prese la cornetta, disse: «Pronto» e cadde a terra, sul tappeto, ginocchioni, segnandosi devotamente. La conversazione fu breve — pochi sì e qualche no — quindi Giuà posò il ricevitore e, pallido, disse agli astanti: «Era il Santopadre. È stato informato dalla C.I.A. alla quale lo ha detto la Mafia che lo aveva saputo da Comunione e Liberazione, di questa nostra iniziativa ed è molto addolorato. Dice che non dobbiamo aver niente a che fare con quelle streghe che vogliono l’aborto libero, gratuito e subito. Anzi, non ha detto streghe… ha detto proprio ” quelle puttane “… Si scambiarono vicendevoli occhiate interrogative e meravigliati e compunti, senza dire una parola, si alzarono.
Uscirono curvi, alla spicciolata, come erano venuti. Solo Amintore camminava impettito, per sembrare più alto.
Fuori, aveva smesso di piovere e nel roseo tramonto romano i pampini viola dei glicini stillanti, sulla cancellata in ferro battuto, avevano un’aria vagamente liberty. — «Liberty… Libertas…» mormorò fra sé e sé l’Amintore mentre ne annotava la scala cromatica con l’orecchio esperto del pittore.
Un gruppetto di lottatori continui, manifestanti e avanguardisti operai lo riconobbe e lo squadrò dall’alto in basso. Per un attimo ebbe paura ma riuscì a passare davanti a loro indenne. Nella calma serena della sera primaverile, lo raggiunse turgida, barocca, impietosa nella sua denuncia, una pernacchia.