unite per contare unite per lottare

«Come femminista mi interessa costruire un socialismo non patriarcale dentro e fuori di me».

giugno 1976

l’altro giorno ho incontrato un mio amico, militante del PCI il quale mi ha chiesto: «Ma dove vi state nascondendo voi femministe per le elezioni? Non vi si sente più. Come voterete? e tu per chi voterai?». Non ho fatto neppure in tempo a rispondergli che lui ha proseguito comiziando: «Guarda, veh, che se voi femministe non fate una scelta, non prendete parte a questa campagna schierandovi, rischiate di scomparire. Voi per me avete due possibilità: o dovete dichiarare che non vi esprimete come femministe in nessun partito e allora dovete prendere le distanze dalle femministe che hanno accettato di candidarsi nei partiti, oppure dovete sparare a zero su tutti i partiti della sinistra, criticando le loro posizioni nei riguardi della questione femminile, ma facendo poi però una scelta di voto motivata. Non potete rischiare di essere assenti, essere assenti è la peggior cosa». Poi aggrottando le sue copiose sopracciglia mi ha chiesto con aria rimproverosa: «Non sarai mica ancora indecisa per chi votare? Come fa una femminista di sinistra come te a non votare PCI? Non per fare della propaganda elettorale, ma scusa, guarda ai fatti. Chi è il partito che ha fatto più sforzi per capire il femminismo? Chi è il partito che porterà il maggior inumerò di donne in parlamento?». Veramente i socialisti sull’aborto hanno tenuto una posizione più vicina alle posizioni femministe — ho ribadito — soavemente. L’ho visto irrigidirsi: «Non mi dirai che una intelligente come te, non capisce che il PSI vi ha strumentalizzato; infatti non avete ottenuto nessun aborto». Mi sono venute in mente le parole d’un amico socialista, visto la sera prima: «Ma come fai a non capire che il PCI cerca di accaparrarsi voti delle donne, con questa storia delle candidature? Anche se ne elegge quaranta, di donne, mi sai dire che autonomia avranno di condurre le battaglie per l’aborto, ad esempio. In parlamento dovranno filare dritto, e seguire la linea del partito».

Nel tono più che nelle parole dei miei due amici-compagni c’era un senso di delusione e al tempo stesso una confidente speranza che alla fine il 20 giugno, io e con me migliaia d’altre donne sceglieremo per il meglio (PCI e non PSI o viceversa) perché in fondo ora ci riconoscono ” un cervello che ragiona “. Atteggiamenti simili, di stupito risentimento e di volenterosa speranza che alla fine voterete ” giusto “, l’ho riscontrato anche nei miei diversi amici maschi e femmine che militano nel PDUP. «Scusa — mi ha ricordato un compagno del PDUP — ma quale altro partito ha fatto un’analisi sui ruoli come il nostro, quale altro ha dato altrettanto spazio all’elaborazione di una autonoma linea femminista al suo interno? Pensaci su». E pensare, ho pensato. Innanzitutto cercando di capire perché mi sentivo così a disagio quando un militante del PSI attaccava ad esempio il PCI o viceversa, e perché mi sentivo portata a sottolineare gli aspetti positivi dell’operato del partito posto sotto accusa. Mi sono venute in mente immagini del Cile, del Portogallo e del Friuli. Insieme, sovrapposte l’una all’altra e allora ho capito che il mio disagio era rabbia. Come faremo dopo le elezioni, mi sono domandata, a fare un governo unitario (solo delle sinistre e partiti minori laici, o anche con la DC) se alcuni (quanti??) militanti della sinistra, nonostante le prese di posizione unitarie dei vertici del PSI e PCI, sotto-sotto continuano a ritenere i partiti in cui non militano loro, fratelli bastardi da tenere al guinzaglio, mentre il loro partito, è ritenuto l’unico «figlio legittimo di Marx» e dunque degno di essere «la forza egemone del processo di rinnovamento del paese»? Nel Friuli c’è voluto il terremoto per ottenere una mobilitazione democratica unitaria, come fanno a non rendersi conto che il nostro paese sta franando sotto una serie continua di difficoltà economiche, politiche, sociali e culturali? E inoltre, come osano questi, pensare che come femminista l’unica cosa che prenderò in considerazione votando, sarà come i «partiti della sinistra hanno trattato la questione femminile»? Come se essere femminista non significasse soprattutto, prima di tutto, volere, dovere rinnovare profondamente questa società, dunque essere vitalmente interessate ai problemi economici e sociali.

La rabbia che provavo era dovuta anche al sentirmi di nuovo ghettizzata, il veder prendere in considerazione alcune battaglie femministe (aborti, consultori, maggiore rappresentazione femminile nelle istituzioni) e dimenticato il messaggio centrale. A me come femminista interessa costruire un socialismo non patriarcale dentro e fuori di me.

Dentro di me combattendo i condizionamenti causati dai ruoli, cominciando a vivere quotidianamente, in modo diverso, la mia «politica» e la mia «sessualità», i miei rapporti cogli uomini e coi bambini, al lavoro come ad Effe, nei miei spazi «privati» e in quelli «pubblici». Dentro di me continuando ad esplorare i miei «ideali», i miei «bisogni», veri e costruiti, le mie paure, le mie contraddizioni. Ad esempio, come conciliare il mio bisogno d’appartenenza e quello altrettanto forte d’individuazione, come diminuire le mie spinte elitiste, competitive e autoritarie senza castrarmi in nome di un desiderato ma ancora mistificante egalitarismo cooperativo, come affrontare i problemi del potere (degli altri su di me, mio sugli altri), come non dominare e non essere dominata; come rivalutare il «femminile» che c’è in me senza ricadere in nuove ruolizzazioni? Ad esempio io sto vivendo con intensità e spesso con gioia la mia prima esperienza di maternità, eppure a volte, in certi ambienti esito a parlarne, quasi come mi fosse vietato o almeno sospetto in quanto femminista ammettere la tremenda maturazione determinata dall’accettazione cosciente di una maternità da cui ero sfuggita per anni, la miriade di nuove emozioni e pensieri scaturiti dal rivivere la mia infanzia e le mie parti infantili con Minou. Stavo per scrivere mia figlia, ma in questo senso sto vivendo una maternità femminista; mi dà fastidio usare il possessivo, non la sento mia, anche se per ora mi ritengo responsabile per lei. Piuttosto pensando a lei, ritorna assillante il problema della «gestione sociale della maternità e della paternità», problema chiave per la creazione d’un socialismo reale e su cui noi dobbiamo ancora tanto riflettere, discutere, sperimentare.

Insomma costruire un socialismo non patriarcale, dentro e fuori significa per me essere aiutata ed aiutare a crescere in senso socialista senza ruolizzazioni tra i sessi. Essendo d’accordo con Einstein, che l’uomo impara a sviluppare le sue parti «socialiste» solo se la società che lo circonda lo spinge in tal senso, io so che non posso costruirmi un socialismo dentro se non lotto.contemporaneamente perché mutino i contesti economici, politici e sociali che mi circondano. Per questo non si può fare «del femminismo» in modo paternalistico, perché essere femministe significa essere coscienti che non si lotta solo per le altre donne, per quelle più diseredate, ma che si lotta in primo luogo anche per se stesse. Ho bisogno, io, d’una società che garantisca lavoro e assistenza a tutti senza discriminazione di sesso per non dover essere più competitiva nella lotta per la sopravvivenza. Ho bisogno, io, d’una società che dia ad ognuno la possibilità di partecipare responsabilmente alla gestione della cosa pubblica per non cedere alla tentazione d’isolarmi nel mio «privato». Voglio una società in cui crescere sessualmente sereni, in cui vivere in fraterna solidarietà con gli altri e con la natura in ambienti non inquinati. Ho bisogno, io, di più sicurezza economica, d’una migliore assistenza sanitaria, di più servizi sociali, di più cultura, libertà, amicizia ed amore. Sono questi miei bisogni a darmi la voglia.di lottare, il coraggio per farlo, per me, e per quelli più oppressi che per ora hanno meno possibilità di organizzarsi e di agire.

Come femminista che vuole un socialismo non patriarcale è chiaro che non mi ritrovo pienamente in nessun partito e che potrei dilungarmi sui difetti degli attuari partiti di sinistra, tutti imbevuti di «egemonia patriarcale acuta».

Rimproverare al PCI una sua eccessiva vocazione egemonica e accentratrice e criticare la sua gestione verticistica del potere e la sua posizione sull’aborto. Potrei sbizzarrirmi lamentando la degenerazione clientelare e l’arrivismo poltroniero di molti esponenti del PSI, le lotte tra le correnti che impediscono il rinnovamento, le contraddizioni tra le posizioni di principio del PSI favorevole all’avanzamento delle donne nella società e il comportamento spietatamente maschilista dei suoi esponenti che impedisce anche una presenza minoritaria di donne del PSI in parlamento e negli organismi direttivi del Partito. Potrei imputare al PDUP una tendenza a non tenere conto della realtà politica, economica e sociale del nostro paese, di propugnare una rivoluzione mitica, impossibile e non attuabile in questo periodo storico, e di avere un’apertura solo illuministica sui problemi della donna. Ma preferisco sottolineare l’apporto positivo che ciascuna delle forze di sinistra può dare al rinnovamento della nostra società in questo particolare momento critico. Sono conscia, ad esempio, che la situazione internazionale richiede (perché l’esperimento italiano non venga soffocato sul nascere) che il PSI sia abbastanza forte da offrire garanzie ai nostri protettori d’oltreoceano. Sono persuasa che la crescita del PSI vada incoraggiata anche per impedire nuovi ripiegamenti sul centro sinistra. Sono convinta che l’apporto di competenza, serietà e impegno dei comunisti alla, gestione del nostro paese sia indispensabile e che vada potenziata col voto la loro linea unitaria. E anche se devo arrampicarmi più sugli specchi per trovare una buona ragione per votare PDUP ora che si è fuso con Lotta Continua per le elezioni, capisco che possa essere necessaria una stimolante presenza critica alla sinistra dei nostri partiti tradizionali. Le critiche di fondo che muovo ai partiti di sinistra riguarda il loro modo di fare politica solo «fuori di sé», nel paese e nelle istituzioni, senza un esame del dentro personale, del dentro di partito, del modo in cui si arriva e si detiene il potere, del come oltre al che cosa si fa. Non che noi femministe abbiamo risolto questi problemi, ma almeno abbiamo il merito di porceli in tutta la loro inquietante, difficile portata.

Riconosco tuttavia che è grazie al fatto che i partiti della sinistra hanno lottato, male e non a sufficienza, ma lottato per l’emancipazione della donna e dell’uomo dall’insicurezza materiale, dalla oppressione di classe, che io, e con me un’intera generazione di donne siamo state messe nelle condizioni di creare le premesse per un diverso tipo d’impegno. Per questo voterò, voterò un partito della sinistra tradizionale perché so che solo la loro vittoria unitaria mi garantirà quella continuità di spazi democratici in cui potremo proseguire la nostra battaglia per la liberazione della donna e dell’uomo. Battaglia che noi femministe dovremo portare avanti soprattutto a livello di comitati di quartiere, di consigli di fabbrica, di circoscrizioni, di consulte femminili, cioè in quelle strutture di base dove è meno arduo procedere rispettando la prassi di autocoinvolgimento e autocoscienza nell’azione che è un po’ il perno dell’«agire femminista». Solo dopo lunghi periodi di ricerca di momenti di unità fra noi donne potremo sperare di essere pronte anche ad entrare in molte nei partiti di sinistra e a lavorare insieme donne e uomini alla costruzione d’un socialismo non patriarcale.