abortire a londra è meglio, ma….
per la stragrande maggioranza delle donne che sono andate ad abortire a Londra, l’esperienza è stata positiva.
Non c’è il problema della clandestinità, l’assistenza medica è molto più accurata che in Italia, il metodo adottato quello per aspirazione, più rapido e sicuro del raschiamento, praticato in Italia in quasi tutti i casi, il costo dell’intervento non è esorbitante. In più c’è il fatto di essere con altre donne nella stessa condizione, di poter parlare liberamente della propria esperienza, confrontarla con quella delle compagne. L’aborto è sempre una violenza, un dramma: ma a Londra il trauma è in genere meno grave che in Italia.
Tuttavia ci sono anche episodi «in negativo», come quello raccontato in questa testimonianza.
Siamo partite con un viaggio organizzato dal CISA una domenica di aprile, non c’era altra scelta: la maggior parte di noi non poteva, per qualche complicazione, essere assistita in Italia dal self-help e non aveva i soldi per affrontare un intervento presso un medico italiano. Provenivamo tutte da città o paesi del nord Italia, non ci conoscevamo, alcune si erano intraviste al colloquio preliminare alle sedi del CISA, io non avevo visto nessuna e non sapevo quasi nulla: avevo dovuto fare tutto in fretta (sabato), perché venerdì la ragazza del self-help che al lunedì avrebbe dovuto farmi l’intervento, assieme al ginecologo del CED (consultorio), che visita le ragazze prima, mi aveva riscontrato un rigonfiamento eccessivo dell’utero rispetto al punto in cui era la mia gravidanza. In un giorno avevo dovuto trovare i soldi, prenotare il biglietto, preparare la valigia, tutto con l’angoscia di non riuscirci e lo stordimento di quella decisione forzata, la prospettiva di quel viaggio assurdo, gli interrogativi sul mio stato di salute (potevano essere più di due mesi, poteva essere un fibroma… che cosa era?). Comunque domenica, all’ora convenuta, ero al terminal con la mia valigetta e la morte nel cuore, Avrei voluto qualcuno vicino, le mie amiche, la mamma (ma lei non lo sa…).
Poi arriva l’accompagnatrice che ci riunisce tutte e finalmente capisco chi sono le mie compagne. Ci sistemiamo sul pullman e partiamo. Arrivate all’aeroporto, le solite file interminabili, le attese in piedi, tra i racconti allucinanti di chi aveva già abortito e che con molto tatto e dovizia di particolari lo raccontava alle altre.
C’erano anche degli scioperi e avevamo già un ritardo di due ore. A causa della tensione e della lunga attesa una di noi abortisce spontaneamente nel bagno della Malpensa, con il pericolo di un’emorragia. La poverina, dando una prova di grande coraggio, decide di proseguire il viaggio, ben sapendo che a quell’ora in un ospedale italiano sarebbe finita nelle mani di qualche macellaio. Intanto svenimenti, angoscia che cresce sempre di più. Se dio vuole partiamo e dopo un’ora e mezza arriviamo a Londra. Lì troviamo un pullman che ci accompagna all’albergo. Arriviamo alle due di notte, ci sistemiamo nelle stanze a due a due, mi capita una ragazza simpatica — meno male. Insieme commentiamo il viaggio, che entrambe vivevamo come un sogno, come qualcosa di inverosimile, e, quasi per riportarlo alla realtà, ci raccontiamo a vicenda le nostre storie e il perché eravamo lì. Poi ci addormentiamo. Il mattino dopo sveglia alle sei. Di nuovo tutte sul pullman, verso la clinica. Questa volta sono seduta vicino a un uomo (?), l’unico, che non ha per niente l’aspetto di un medico, e che alle mie domande, giustamente diffidenti, risponde candidamente che è un giornalista svizzero e che sta conducendo un’inchiesta sul «turismo dell’aborto», che aveva cercato di mimetizzarsi fino a quel momento ma che ora non era più possibile, e che comunque era stato autorizzato dal CISA di Milano. Non ci faccio molto caso preoccupata e tesa come sono. Appena arriviamo alla clinica e scendiamo dal pullman, quello comincia a scattare fotografie a tutte. Entrate in sala d’attesa io e le altre che lo avevano visto lo assaliamo dicendogli che non aveva nessun diritto, che nessuna di noi voleva che si facesse pubblicità, che molte erano venute all’insaputa di tutti, che potevamo perdere il posto di lavoro, che potevamo avere storie coi genitori, eccetera. Ma non c’è tempo per discutere e rimandiamo a dopo. Intanto quello si piazza lì e non si muove, ascolta i colloqui preliminari, assiste alle nostre nuove interminabili attese in fila, ai malesseri, agli svenimenti, ai nostri discorsi… Lui sì che può farlo a cuor leggero. La visita preliminare si rivela assurda, un dito in vagina e via, non c’è tempo per altre storie. Io parlo un po’ di inglese e con noi, nell’ambulatorio, c’era anche, sempre presente, l’interprete del CISA. Eppure il dottore quando ho detto che avevo anche una piccola abrasione e che volevo farla cauterizzare (pagando) mi ha risposto con aria svagata che io non potevo saperlo e che comunque era una cosa che hanno tutte e che lui non me lo poteva fare perché ero incinta (?). Neanche una parola sullo stato del mio utero (del resto, con una palpatina, era difficile stabilirlo, credo). Fatta l’analisi del sangue e pagate le 60 sterline a una segretaria scorbutica e scortese, chiamano le prime, e ci fanno accompagnare nelle stanze. Capito di nuovo con due simpatiche, la mia compagna di albergo è al piano di sotto. Questa mattina siamo solo la metà, le altre le faranno domani. Ci fanno mettere addosso una camiciona di carta bianca, ci appiccicano al polso nome e cognome e gruppo sanguigno, poi la prima iniezione intramuscolare, pre-operatoria. Arriva l’infermiera e mi carica su una sedia a rotelle, avvolta in una coperta. Sono la prima. Mi fanno l’anestesia, piombo subito nel sonno.
Poi lo choc del risveglio, un dolore fisico e morale, una sensazione quasi inspiegabile. Mi sono svegliata singhiozzando disperatamente, e sentivo un’altra che faceva lo stesso, accanto a me. Ero ancora in uno stato di semincoscienza, e forse per questo soffrivo così, non avendo la possibilità, in quel momento di un recupero razionale. Sono rimasta in quello stato, credo, a lungo. Poi ho un ricordo vago di qualcuno che mi accarezzava, e poi l’infermiera (non a caso di origine italiana — era la stessa che mi accarezzava prima?) che, su nella mia stanza, mi chiedeva dove fosse la mia camicia da notte. Poi più niente e poi ancora mal di pancia e là mia camicia da notte addosso e lei ai piedi del letto che mi chiedeva come stavo. È rimasta lì fino a che non mi sono svegliata e ho smesso di lamentarmi, assieme ad un’altra infermiera inglese, che poi ogni mezz’ora veniva a misurarci la pressione e a controllare le perdite. Loro venivano da un ospedale pubblico, ci diceva, ed era il primo giorno che lavoravano lì. Abbiamo avuto modo in seguito di notare l’enorme differenza di comportamento tra il personale esterno e quello interno alla clinica. Dopo la prima mezz’ora, noi della stanza 9 stavamo tutte bene, passato il male, passato l’intontimento dell’anestesia, potevamo parlare e ridere, prese dall’euforia di avere già finito tutto, di stare finalmente bene. Quel pomeriggio non abbiamo fatto altro che mangiare e bere thè coi biscotti. Ogni tanto arrivavano notizie dalle altre stanze, chi non l’aveva ancora fatto veniva a chiedere come fosse andata, noi eravamo ormai in forma e cercavamo di minimizzare tutto per non spaventarle, ma comunque è andata poi bene per tutto. Tranne che per quattro ragazze nella stanza accanto alla nostra, che essendo ormai troppo avanti con la gravidanza, dovevano abortire «naturalmente», e sopportarsi un travaglio più lungo e doloroso di quello del parto, con la flebo sempre attaccata al braccio e le doglie indotte, e le infermiere che le zittivano se osavano lamentarsi. Erano completamente abbandonate a sé stesse, e credo che soffrissero di più per l’indifferenza generale, tanto è vero che quando andavamo a trovarle sembrava che stessero un po’ meglio. Io mi sentivo male ogni volta che entravo in quella stanza, e, peggio quando le sentivo piangere e lamentarsi e non potevo fare niente.
Quella che stava peggio era una ragazza di Udine, che oltre a tutto il resto continuava a vomitare bile. Lei non sapeva nemmeno che cosa l’aspettava lì a Londra, era partita pensando di fare un raschiamento e una volta lì le avevano detto che non era più possibile, che bisognava fare nell’altro modo. Questa necessità tecnica, però, ci apparve piuttosto sospetta, il giorno dopo, quando una di Brescia, avvertita da noi su quel che succedeva, si è opposta a quel trattamento dicendo di tornarsene in Italia, e allora le hanno fatto il raschiamento. Su questo fatto abbastanza scandaloso ci siamo riservate di indagare in seguito, dal momento che lì era impossibile. Verso sera c’è stata una riunione al piano di sotto, in cui si è parlato soprattutto del giornalista e ognuna ha detto come secondo lei si doveva agire. C’era una grande animazione, mi sembrava che tutte dicessero delle cose giuste, che venisse fuori da tutte una spontaneità e una chiarezza di fondo su certe questioni, che solo le donne hanno e che gli uomini, diplomatici e costruiti come sono, neanche si sognano. Decidiamo di tentare il sequestro dei rollini (cosa che poi non andrà in porto) e di convocare comunque una riunione generale la sera prima della partenza. Alle infermiere dà fastidio questa nuova atmosfera così poco formale e una, guardandoci dall’alto in basso, ci dice che le regole della clinica sono di starsene ognuna nella propria stanza, e che se non ci andava bene potevamo restarcene in Italia. Sempre gentili. Ma non importa va tutto bene, stiamo bene e ci sentiamo unite e solidali. In realtà per nessuna era già finita, ce ne siamo accorte dopo, nel buio delle nostre stanze, dove abbiamo continuato a parlare sommessamente fino a tardi. P., nella mia stanza, piangeva. Soltanto adesso poteva rilassarsi, far uscire tutta l’angoscia del suo aborto avvenuto all’aeroporto e la paura di quei momenti, solo adesso le veniva in mente chiaro che cosa le era successo e che cosa era successo a tutte nella sala operatoria. Quel momento, mi diceva, c’è stato, anche se noi non lo possiamo ricordare, anche se facciamo finta che non ci sia stato. E allora mi è tornato in mente tutto, ho capito che per dimenticare la violenza subita eravamo state tutte pronte a spiegarci quell’orrendo risveglio come un effetto dell’anestesia, ma che invece quel pianto era qualcosa di autentico, che era una risposta al modo in cui ci avevano fatto quella cosa — una catena di montaggio, dilatazione di 8 millimetri e aspirazione in 2 minuti d’orologio (le ragazze del self-help lo fanno in mezz’ora, rendendoti partecipe e dandoti la possibilità di prenderti i tuoi tempi) — e qui si spiega anche il male fisico dovuto al trauma muscolare — e per me, che avevo abortito lì, era anche la disperazione di quella scelta obbligata, l’aver dovuto interrompere un processo naturale cui il mio fisico si era ormai abituato (e non solo il mio fisico), mi è tornata in mente l’esatta sensazione che mi fosse stato strappato da dentro qualcosa di mio, la sensazione che se anche dormivo, in quella sala operatoria, il mio subconscio era vivo, e soffriva, e che qualcosa, da qualche parte, stava registrando quella sofferenza, E poi mi è venuta la rabbia. La rabbia di capire quanto siano ancora salde le leggi di questa società che non ci permette di avere un figlio quando lo desideriamo (fino a che punto la mia era una gravidanza indesiderata?) e che nel momento in cui ci costringe ad abortire, anche nel modo più assistito e sicuro come questo, ci colpevolizza (vedi infermiere e anche purtroppo alcune tra noi eccetera) e ci manipola nel modo più cinico (classe medica, stessa razza in tutti i paesi), ci strumentalizza e ci sfrutta (vedi guadagni della clinica, dove ogni secondo giorno arrivano comitive di circa 50 persone, di cui ognuna paga come minimo 60 sterline, pari a 96.000 lire, per un intervento di due minuti). Se poi vogliamo parlare della situazione italiana in particolare, allora potrei dire che per me, che pure sono stata privilegiata rispetto a molte altre donne più povere e più disinformate, il fatto di stare in un paese in cui l’aborto non è legale ha significato affrontare un viaggio assurdo e allucinante, prelevata da un posto e sbattuta in un altro, senza sapere dove, con chi, in un paese dove non parlano la mia lingua, dove inevitabilmente succedono incomprensioni e fraintendimenti (ad esempio lo scambio di una cartella clinica), dove tutto è più difficile (spostarsi, usare i soldi, telefonare a casa etc). Insomma è stato tutto così angoscioso e sproporzionato rispetto a quel che è in fondo un intervento semplice come l’aborto per aspirazione! Comunque alla fine siamo riuscite ad addormentarci anche se ogni tanto sentivamo i lamenti della stanza accanto, ma non c’era niente da fare, non potevamo più andarci, dopo le dieci non ci si poteva più muovere dalla propria stanza.
Il mattino dopo sveglia alle sei, colazione e ordine di vestirsi e di trovarsi nella hall per le sette, ora in cui sarebbero arrivate le altre. Volevamo andare a salutare le ragazze della stanza accanto che ancora stavano lamentandosi e che chissà quando avrebbero finito di soffrire. Ma l’infermiera capo caccia via il malo modo P. e poi torna nella stanza e la redarguisce stizzita.
Io le dico che non sono affari suoi se noi vogliamo salutare quelle povere ragazze di là, e lei mi dice con disprezzo che quelle non sono povere ragazze. Poi dice di non fare tante storie e di andare giù a pagare, piuttosto. Avrei voluto picchiarla. Mi hanno trattenuta. Giù incontro con le facce interrogative delle altre, saluti e incoraggiamenti, di nuovo il fotografo, lo convochiamo alla riunione generale per domani sera. Torniamo all’albergo dove rimarremo per altri due giorni e mezzo, un albergo lussuoso, roba che nessuna di noi aveva mai visto prima, dove quelli che non sono in comitiva pagano 18 sterline al giorno, dove però tutti sanno perché siamo’ venute e si permettono di trattarci a pacche sul sedere. Il cameriere spagnolo, a cui ho chiesto un cucchiaino per il caffè, mi ha risposto di usare il dito, poi, arriva col cucchiaino e mi mescola il caffè, chiedendomi con un sorriso ironico: come stai, eh? Il capo cameriere ci caccia in malo modo dalla sala da pranzo non appena abbiamo finito la colazione, molto prima dell’ora di chiusura della sala stessa. Ogni volta che ci alziamo, sguardi di intesa tra i camerieri e commenti, ciao bella eccetera. Vado dal manager a lamentarmi, e così pure P., che sa parlare inglese. Il giorno dopo riceviamo delle minacce dal capo cameriere. Intanto si continua a parlare del giornalista e dell’intervento e di prima e di dopo e di quando torneremo a casa, però in un altro modo, più distaccato. Siamo di nuovo lontano. È un po’ triste, deludente, che ci si possa sentire così legate e solidali nel momento della paura e del dolore, e poi, il giorno dopo, dimenticarsi tutto. Per fortuna non per tutte è così, cioè per quelle che prima avevano un atteggiamento competitivo o superficiale, ad esempio le mie compagne di stanza. Eppure anche con loro ho avuto difficoltà a parlare dopo della solidarietà che si era creata tra molte di noi, del piacere di stare tra donne e di parlare e di capirsi perfettamente, dell’importanza di avere fatto questa esperienza insieme, dell’estraneità che tutte più o meno sentivamo rispetto all’uomo, in quel momento. Quanto alle altre, quelle che neanche prima mi erano piaciute, mi sono resa conto proprio in quei giorni passati in albergo di quanto sia limitativo nella lotta delle donne parlare esclusivamente in termini di lotta di classe o di diritti civili. E mi spiego partendo da un esempio reale, lasciamo perdere la teoria. Tutte noi eravamo di estrazione sociale diversa, età diverse, attività diverse, diversa cultura etc…, eppure si sono delineati nettamente due fronti, uno di quelle che vivevano la situazione in modo politico e collettivo, discutendo con le altre dei problemi che si erano via via presentati, l’altro delle individualiste, completamente indifferenti ai problemi delle altre,
che riuscivamo a coinvolgere solamente quando si trattava di non finire sul giornale (se ci finiva un’altra però non gliene importava più nulla). Tra queste poi mi hanno particolarmente colpito tre tizie, una credo casalinga, una operaia e una borghese dall’aspetto benestante, che si trovavano benissimo tra di loro, e che avevano raccolto una piccola corte di ragazzine affascinate dalla loro spregiudicatezza. Non facevano che parlare di sesso nel modo più schifoso e volgare, schernendo quelle che non riuscivano a divertirsi, e trattando in genere le altre come delle sottosviluppate — loro sì che erano emancipate! — questi e altri sono gli equivoci cui inevitabilmente si arriva continuando ad insistere sugli obiettivi (ad es. il diritto alla libertà sessuale, il diritto all’aborto) e a tralasciare le motivazioni più profonde, come se fossero meno politiche.
Finché quelle donne non prenderanno coscienza del perché si fanno certe lotte non avranno niente di nuovo da dire a nessuno, e non importa a quale classe sociale appartengano: l’ideologia sessista e quindi reazionaria la si può combattere o esserne schiave sia da borghesi che da proletarie.
Anche all’assemblea col fotografo sono venute in poche. Le emancipate non si sono automaticamente escluse, così pure le più sprovvedute e impaurite, ma più perché non erano abituate alle situazioni collettive che per altro. Di quelle che c’erano, la maggioranza erano preoccupate di non finire sul giornale. Soltanto due o tre hanno avuto il coraggio di denunciare la strumentalizzazione di cui eravamo state oggetto, e il fatto che sia il CISA che il fotografo stesso non avevano il diritto di decidere fino a che punto eravamo disposte a collaborare a quell’inchiesta, senza consultarci preventivamente. Comunque il tizio ha mollato i rollini (speriamo che siano quelli giusti) e la cosa si è risolta.
Siamo partite il giorno dopo, tutte sane, mi è rimasta la voglia di vedere ristabilita la ragazza di Udine, che non tornava con noi. Ancora adesso, ogni tanto, ci penso. E anche le altre, quelle con cui si stava bene, adesso avrei voglia di rivederle, di parlarci ancora in situazioni diverse, più positive. Ed è anche per questo che ho scritto queste cose, perché almeno loro, assieme a me, non se le dimentichino né le rimuovano, ma le usino per proseguire nella lotta, per migliorare la propria vita e quella delle altre donne.