cooperazione

all’insegna dello spreco

troppo spesso quando si parla di cooperazione tra paesi ricchi e paesi poveri si trascura il fatto che si tratta di rapporti tra esseri umani e che si parla dei bisogni più elementari di singole persone, le donne sono il fattore chiave dello sviluppo economico e sociale.

gennaio 1982

Con lo stanziamento di 6.500 miliardi di lire da utilizzare in tre anni per gli aiuti al Terzo Mondo, l’Italia della crisi economica interviene in maniera ormai comparabile a quella degli altri Paesi Occidentali in un campo che l’Italia degli anni grassi aveva trascurato: quello della cooperazione allo sviluppo.
Confermando così di essere un popolo imprevedibile quanto generoso, gli italiani hanno accettato senza proteste, anzi con consenso quasi unanime, di accollarsi questo nuovo e non indifferente carico, proprio nel momento in cui si dimostrano inevitabili i primi tagli alla spesa pubblica, si introducono tickets crescenti sulla spesa sanitaria e si parla addirittura di togliere il sostegno pubblico agli handicappati. L’interrogativo centrale è perciò quello di sapere come verranno spesi questi soldi, quanta parte di essi andrà veramente ad aiutare il Terzo Mondo, quanta verrà dirottata e quanta verrà puramente e semplicemente distrutta per inefficienza o stupidità. Su quest’ultima strada, purtroppo, si sembra già ben avviati. Un esempio tipico è stato quello del lussuoso convegno organizzato a Palazzo Barberini, a Roma, dell’IPAL-MO (Istituto per le relazioni tra l’Italia e i paesi dell’Africa, America Latina e Medio Oriente), nientepopodimeno che “la Conferenza Nazionale Cooperazione allo Sviluppo”, pagata dal Ministero degli Esteri. Un convegno che si è risolto in quattro giorni di ininterrotta e mortifera passerella di tromboni politici di ogni sponda, che con criteri di lottizzazione tratti dal manuale Cencelli hanno inondato il pubblico di banalità e di ipocrisie moralistiche, soffocando in una routine totalmente soporifera i pochi e brevi interventi concessi a chi di queste cose si occupa e capisce.
Per confermare l’impegno contro la fame nel mondo, un migliaio di partecipanti si è ingozzato per 4 giorni coi soldi dell’aiuto allo sviluppo. Ma va detto che i pranzi così generosamente offerti a spese dei contribuenti sono stati la parte più utile dell’incontro, consentendo un po’ di pubbliche relazioni tra i corridoi.
Ma per ottenere lo stesso risultato sarebbe probabilmente bastato riunire quelli che operano nel settore in un incontro attorno ad un bicchiere di vino, risparmiando non solo risorse economiche che potevano trovare migliore utilizzazione, ma anche le penose omelie propinate dai politici o aspiranti tali. E sì sarebbe risparmiata altresì l’angosciosa sensazione, con cui molti hanno lasciato la sala, che in tutti questi discorsi non c’era il minimo interesse effettivo per gli uomini e le donne la cui vita e la cui dignità sono in questione quando si parla del Terzo Mondo, della sua povertà e delle sue possibilità di sviluppo.
Da molte delle relazioni presentate a questo Convegno si ha avuto infatti l’impressione che troppo spesso, quando si parla di rapporti Nord-Sud, di cooperazione tra paesi ricchi e paesi poveri, di futuro delle relazioni tra paesi industrializzati e paesi meno avanzati, si usi ormai una terminologia senza molto significato che trascura il fatto che in definitiva si tratta di rapporti tra gruppi di gente reale, di esseri umani e che stiamo parlando dei bisogni più elementari di singole persone, sia nel senso di bisogni materiali, sia nel senso di un minimo di dignità nella loro collocazione sociale. I fattori umani – quando si parla di sviluppo -sono troppo spesso trascurati, nonostante essi siano il denominatore comune senza il quale non ci sarebbe una equazione Nord-Sud.
Se decidiamo veramente che quello che vogliamo è soddisfare i bisogni umani, allora dobbiamo occuparci concretamente di cibo, acqua, combustibile, case, salute e determinare qual’è la strada migliore per soddisfare i bisogni elementari del Terzo Mondo e in modo particolare dei più poveri tra i poveri, di coloro ai quali oggi ci si riferisce come Quarto Mondo. E se realmente facciamo ciò e se realmente abbiamo occhi e volontà per vedere, ci accorgeremo che esiste anche un Quinto Mondo che possiamo definire “quello specifico insieme di spazi in ogni società in cui le donne adempiono ai loro ruoli produttivi”.
L’attenzione per i problemi delle donne di questi paesi è nata sulla scia del vasto movimento di ricerca teorica ed empirica del femminismo. E stato in seguito alla Conferenza dell’ONU di Città del Messico, nel 1975, e a quelle di Copenhagen nel 1980, per il decennio delle Nazioni Unite per la donna, che si è riconosciuta l’esistenza di una “questione femminile” anche nei PVS e si è posta l’esigenza di non trascurare, quando si affrontano i problemi di queste società, quell’angolatura particolare che consente di vedere i risultati di una politica di sviluppo economico e sociale non soltanto nei confronti della popolazione in generale, ma anche nei confronti della condizione economica e dello status sociale della donna, così come tali risultati incominciano ad essere valutati nei confronti della parte più povera della popolazione.
Pur nel quadro gravissimo di sottosviluppo che riguarda tutti, uomini, donne, bambini, vecchi, i problemi della donna, infatti, rimangono problemi specifici che dipendono non solo dal suo status economico e sociale, ma anche dal suo ruolo nell’ambito della famiglia e della divisione familiare del lavoro.
Anche lasciando da parte ogni considerazione di carattere antropologico e limitandoci ad una analisi prevalentemente socio-economica, è possibile oggi affermare che non sempre il cosiddetto sviluppo economico e sociale porta automaticamente ad un miglioramento della condizione della donna, come non è detto che esso porti ad un miglioramento della parte più povera della popolazione di questi paesi. Anzi, molte forme di sviluppo recente (e le ricerche sul campo lo confermano) hanno reso più pesante, anziché migliorare la condizione delle donne, rendendole sempre più dipendenti dagli uomini, facendo loro perdere quel ruolo economico che le rendeva in parte autonome e che permetteva loro di avere una vita di relazione con le altre donne, causando in tal modo un danno irreparabile per l’intera società.
Si è infatti dimenticato che nei PVS, in Africa, Asia, America Latina e Caraibi, la soddisfazione dei bisogni elementari giornalieri dell’80% della popolazione dipende dal lavoro delle donne…
In quest’ambito le donne sono il fattore chiave. Sono loro che producono, conservano, preparano il cibo; sono loro che vanno a prendere l’acqua, raccolgono il combustibile, si occupano spesso della costruzione della casa. Sono le donne che curano i bambini, e la salute e l’educazione delle generazioni future sono nelle loro mani. . Se si vuole veramente cambiare lo schema della miseria di oggi e sviluppare la società – vale a dire creare le premesse perché le generazioni future siano più sane e produttive – il fattore chiave sono le donne. Ma si tratta di un fattore che è stato completamente ignorato, almeno fino ad alcuni anni fa.
Nella recente Assemblea della FAO ci sono stati forniti i dati sulla fame nel mondo. 36 anni fa, quando gli esperti mondiali si riunirono a Quebec per fondare tale organismo, il loro obiettivo era di liberare l’umanità dalla piaga della fame. Ciò non è avvenuto. E uno dei motivi per cui ciò non è avvenuto è che si è trascurato questo fattore determinante: la produzione e la trasformazione del cibo è nelle mani delle donne.
Eppure le donne non sono mai state consultate sui programmi e sulle politiche che potrebbero portare ad un cambiamento. Le donne sono state ignorate in quasi tutti i programmi di formazione. Solo agli uomini, infatti, vengono insegnate le nuove tecnologie, solo agli uomini vengono forniti nuovi attrezzi agricoli. Si è insomma applicato acriticamente il modello della società agricola europea, fondata su una unità familiare produttiva di piccoli coltivatori diretti con ruoli ben definiti secondo il sesso e l’età, a realtà sociali strutturalmente diverse. Gli esperti occidentali hanno sempre creduto che solo gli uomini in quanto detentori del ruolo centrale nella divisione familiare del lavoro, potessero essere innovatori, e quando ciò – malgrado i consigli e l’incoraggiamento degli esperti stranieri – non accadeva, si ricorreva a spiegazioni al limite del razzismo (la “pigrizia”, la “superstizione”, ecc.) invece di fare attenzione al fatto che la divisione dei compiti, nella famiglia di realtà sociali diverse da quella europea, è tale che, almeno per talune produzioni, il ruolo centrale è tenuto dalle donne, e che solo attraverso di esse è possibile introdurre innovazioni nelle tecniche di produzione. La coltura dei cash crops (vale a dire dei prodotti agricoli per l’esportazione), invece, è stata affidata quasi esclusivamente agli uomini, mentre alle donne è rimasto il compito di badare esclusivamente alle colture destinate all’autoconsumo, oltre naturalmente ad assumersi l’onere di diserbare e raccogliere i prodotti coltivati dal marito, con un conseguente aumento notevole del loro carico di lavoro. Le riforme agrarie hanno suddiviso la terra esclusivamente tra gli uomini ed anche il movimento cooperativistico ha gravi responsabilità. Solo le vedove, in taluni casi, hanno avuto diritto alla proprietà della terra che le loro madri coltivavano da secoli. Ancora oggi la maggior parte delle sovvenzioni governative vengono date per le migliorie dei cash crops, mentre i food crops vengono completamente trascurati.
Così, nel corso dello sviluppo agricolo la produttività del lavoro maschile tende ad aumentare, mentre quella del lavoro femminile rimane più o meno ferma o tende a diminuire.
Conseguenza di ciò è il declino del relativo status sociale della donna. Infatti, mentre l’analfabetismo, i comportamenti tradizionali, la superstizione, erano caratteristiche comuni a tutti nei villaggi, questi segni di arretratezza diventano caratteristica delle sole donne che hanno sviluppato una vera e propria cultura della marginalità, in cui l’atteggiamento di sottomissione, di passività, di inferiorità, vengono a coincidere con il comportamento femminile. Le donne diventano portatrici di valori tradizionali e ciò ha un enorme influsso negativo sulla educazione dei figli, soprattutto considerato il fatto che a causa della emigrazione maschile, moltissime donne sono oggi capo famiglia.
Gli indicatori socio-economici usati dagli esperti degli organismi internazionali e delle società di ingegneria pubbliche e private troppo spesso hanno ignorato le implicazioni delle loro politiche di sviluppo sulla condizione femminile.
Trascurando di considerare le donne in modo significativo, nel momento decisionale, di pianificazione e di azione pratica, l’umanità si è privata dell’esperienza, sensibilità e visione di metà dei suoi componenti. L’opinione delle donne invece potrebbe essere illuminante: le donne conoscono i loro bisogni ed è da questi che si deve partire se si vuole veramente incidere sulla realtà economica e sociale di questi paesi.
In questi ultimi anni si sono intensificati studi e ricerche sulle donne nei PVS e in parte si sta incominciando a colmare quel vuoto di dati e informazioni economiche e sociali che rendevano estremamente difficile ogni analisi e quindi anche lo studio del tipo di intervento da adottare. Oggi non c’è conferenza sulla cooperazione con i PVS che non si concluda con la constatazione che non c’è stato abbastanza progresso e con una serie di raccomandazioni che riguardano la posizione della donna nella società e la necessità di integrarla nel processo di sviluppo. In realtà, a parte qualche programma “di bandiera”, da vetrina, non si è trattato altro che di chiacchiere e il sostegno finanziario e morale per questi programmi è stato e continua ad essere minimo. Oggi è di moda parlare di “tecnologie appropriate” in agricoltura e per la trasformazione e la conservazione del cibo. Ma quante donne sono state consultate?
Tutti i progetti dì sviluppo dovrebbero essere studiati durante il loro stadio iniziale di preparazione per valutare se gli stessi rispondono ai bisogni delle donne e per stabilire il loro impatto sulla condizione femminile come parte dell’analisi costi e benefici. Solo così si potranno evitare errori come quelli in cui l’introduzione di tecnologie moderne si è risolta in un aumento del carico di lavoro della donna e in un peggioramento delle condizioni globali di vita della sua famiglia. Non si devono più ripetere casi di allevamenti di polli su scala industriale -solo per citare un esempio ormai classico – senza tener conto che i polli hanno bisogno di molta acqua e che in mancanza di un acquedotto sono le donne che devono andare e venire in continuazione dai pozzi lontani a volte qualche chilometro, trascurando così i loro compiti tradizionali e con un carico di lavoro pazzesco. Inoltre, una parte cospicua dei fondi per la cooperazione (non un paio di programmi “da vetrina”) dovrebbero essere destinati a progetti specifici che riguardino le donne. Devono essere le stesse donne dei PVS, conoscendo i propri bisogni, ad iniziare progetti specifici e a responsabilizzarsi per condurli a termine con le sole risorse che le donne occidentali, e in questo caso italiane, possono mettere a loro disposizione: informazione, esperienza e denaro.
E sia chiaro che le donne del Terzo e Quarto Mondo non chiedono programmi “sociali” che in qualche modo compensino la loro esclusione dal processo di sviluppo. Al contrario vogliono essere inserite in questo processo, attraverso progetti che tengano conto del loro ruolo produttivo e che attraverso di esse si facciano passare quelle innovazioni tecniche che sono indispensabili per inserire nell’economia monetaria le attività tipicamente femminili. Solo così, attraverso la trasformazione del lavoro femminile in un’attività che produce denaro (e non solo servizi o beni redistribuiti nella famiglia a titolo gratuito) è possibile avviare un processo auto sostenentesi di sviluppo che abbia le donne come protagoniste, ed elimini la necessità di programmi “sociali” a carattere più o meno caritatevole, in favore delle donne.
P.S. Il Ministro degli Esteri Colombo ha dichiarato di voler organizzare a Roma, nella primavera del 1982, una conferenza mondiale per l’alimentazione e lo sviluppo. Vorremmo ricordargli che, a Roma, nel novembre del 1981 si è tenuta l’Assemblea generale della FAO, con la partecipazione di centinaia di delegati da tutti i paesi. Vogliamo dunque ancora viaggi, cocktails, visite turistiche? Nello stesso giorno all’A.I.Do.S. è giunta richiesta da parte delle donne di un villaggio maliano di una macchina per macinare il grano. Con soli tre milioni di lire (il costo della litografia regalata ai partecipanti come ricordo del convegno IPALMO, in conto naturalmente del bilancio “aiuti allo sviluppo”) si potrebbe migliorare la condizione di vita di tutto un villaggio.