libri

la minestra degli stupidi, sabbia d’argento e la cicoria matta

la gastronomia è stata per anni una scienza maschile di cui siamo state le esecutrici.
ora le donne hanno iniziato a scrivere libri di cucina, ma in modo diverso, alternando le schede ai ricordi, alle storie, agli stati d’animo

gennaio 1982

“Ditelo con i fiori” consigliava la Fleurop, e un Mercurio con le ali ai piedi garantiva ovunque il trasporto del messaggio d’amore. Le donne lo dicevano con il cibo ed era molto più complicato: più un piatto richiedeva rischi di lievitazione, di maionesi impazzite, paziente triturazione di ingredienti, amalgama di salse, più l’uomo si sentiva amato.
Ma le cose cambiano anche a tavola: già negli anni del “boom” le abitudini conviviali avevano subito una svolta con l’arrivo di nuovi ingredienti da ogni parte del mondo, e per la padrona di casa avere ospiti a cena divenne l’occasione per mostrarsi aggiornata sulle novità gastronomiche internazionali. Furono gli anni opulenti del riso pilaff al curry del gazpacho, della paella alla valenciana, del prosciuttino tedesco bollito con salsa di mirtilli, e il tacchino ripieno di castagne, la cucina cinese. Si accantonava l’abilità tradizionale degli arrosti, dei fritti, dei soufflé: la cena diventava qualcosa di più che la dimostrazione di benessere e generosità: era ostentazione di livello culturale, sfoggio di informazione, capacità di muoversi in una società rinnovata.

la cucina dei monasteri
Intanto si differenziava sempre più la cucina di tutti i giorni dalla cucina per gli ospiti: finite le grandi famiglie con madri, figlie, cognate, ai fornelli, la donna si trovava sola, con una giornata sbocconcellata da una quantità di impegni e in molti casi anche con un lavoro extra domestico. Ma la scienza le veniva incontro stabilendo che si mangia troppo e troppo pesante: le diete suggerivano verdure bollite, carni al vapore, insalate miste e formaggi magri. La divulgazione scientifica s’insinuava nelle famiglie con tabelle precise sulle proteine, gli amidi, i grassi e ogni padrona di casa doveva saper soppesare il fabbisogno calorico di ognuno per altezza, peso, età. Interveniva anche la vita sedentaria che toglieva l’appetito, e le distanze della grande città che obbligavano ai tramezzini, alle tavole calde, alle mense. Ma non era solo questione di tempo o di frugalità a vantaggio della salute: il femminismo aveva fatto cadere il mito della dedizione, definita ormai come “nevrosi della casalinga”, che è quella speciale esaltazione del proprio sacrificio per cui una donna mangia il dorso del pollo lasciando le parti carnose agli altri o ruba un pezzo di pane per non aprire un panino per sé. L’amore cominciava a non manifestarsi più attraverso i servizi, anzi, ne veniva totalmente sradicato e trasportato nel tempo libero: nella tenerezza, nel dialogo, nella sessualità. Le incombenze fastidiose vanno svolte in fretta, riducendole al minimo indispensabile, e si svolgono in due.
Le femministe ebbero due atteggiamenti di fronte al cibo. Uno di assoluta negazione: donne dedite a professioni di grande impegno e con un’attivissima militanza, vivevano di panini, di precotti e dichiaravano con orgoglio: “Non so fare un uovo fritto”. L’altro atteggiamento, più morbido, era quello di non sprecar tempo nel cucinare quotidiano, ma conservando il gusto di buoni piatti nelle cene con amici: una pietanza riesumata dalla tradizione popolare, o il piatto “creativo”, inventato con raffinatezza. E fu un bene non “perdere la mano” e conservare . questa secolare esperienza attraverso cui molto di noi fu espresso ed è tuttora esprimibile. Un’esperienza che, negli ultimi tempi, va facendosi, se possibile, sempre più femminile. Le leggi gastronomiche, tranne il classico “Talismano della felicità” di Ada Boni, “Il cucchiaio d’argento” e poco altro, erano dettate dai vari Escoffier, Artusi, Carnacina, Veronelli: una scienza maschile inoppugnabile, eseguita dalle donne. Adesso invece le donne scrivono di cucina: tirano fuori dai cassetti i quaderni delle ricette tramandate, ricevute da madri e amiche, che decretarono il successo di pranzi subito dimenticati. E lo fanno in modo diverso: le schede si alternano ai ricordi, alle storie, agli stati d’animo, ai paesaggi: si vede che una buona pietanza non è uno studio, è un’ora della loro vita e vissuta con altre cose accanto.
Tre libri di donne sono usciti ultimamente. Il primo è “La cucina dei monasteri” di Sebastiana Papa (Mondadori). Si sono aperte le grate antichissime di 60 monasteri, si è raccontata la loro storia o addirittura la leggenda, intessuta di scorrerie, incendi, carestie, miracoli. Si sono riesumati i piatti di matrimoni cinquecenteschi e i dolcetti da poveri, le sacre ricorrenze che mettevano le monache in cucina, mentre cantavano strambotti in onore del santo. Si parla di Saraceni invasori, ma anche di birbi, tartufi, pappardelle. Nomi vecchi e mai sentiti persi nel tempo: La minestra degli stupidi, la torta di borragini, le feroncelle. Una serie di minestre e timballi di magro fanno della Quaresima un periodo di semplice e raffinata cucina vegetariana, dove non c’è il superfluo, ma neanche la mortificazione, pur parlandone come di una virtù cristiana. Salse, crostini, salmi, gelati, i liquori, i rosoli, i ratafià; i vini medicati di antichissime scuole mediche greche e romane, i decotti ricostituenti, per la tosse, per le scottature, per l’acne, per l’alito cattivo.

il libro di alice
Torroni, bibite, marmellate. Persino come si fa il sapone. Un libro con moltissime ricette praticabili, facili e poco costose, oltre al fascino di una vita segreta che attraverso i riti, la pazienza del fare, usciva dalle maglie penitenziali per dar ristoro alla carne. Altro clima, ma con eguale gioia, spazio, umanità, è nel “Libro di cucina di Alice B. Toklas” edito dalla Tartaruga e uscito alla fine dell’anno scorso. Da un sodalizio tra Gertrude Stein e Alice Toklas durato una vita, nascono le pagine di un’ospitalità, di incontri, di due guerre mondiali, i ritratti di artisti famosi, di cuochi, camerieri, amici. Uno degli ultimi salotti letterari visti dalla parte della cucina: l’ammirazione per la tradizione gastronomica francese si accompagna a pennellate d’ironia per certe ridondanze, per la formalità eccessiva degli inviti, e traccia ritratti di ospiti, gustosi come i piatti: il pittore Francis Picabia che dà una ricetta di uova, Pablo Picasso con la sua dieta ricca di spinaci e povera di carni rosse. Il cane di Gertrude Stein che fa razzie durante aristocratici inviti con valet-de-chambre e personaggi soffusi che vivono vicende d’amore un po’ stregate. Gertrude Stein che guida un furgone per portare aiuto ai feriti ma non sa fare marcia indietro. Si va dalle ostriche Rockfeller disposte in un piatto su sabbia d’argento a un inverno di guerra con due soli prosciutti. E i 650 militari italiani, dei quali alcuni ospitati in casa, che se ne andarono cantando dopo l’armistizio e furono tutti uccisi dai tedeschi. E ricette insolite, elaborate, fantasiose.

soffiando sulla cicoria
L’ultimo, appena uscito, è il libro di Ilaria Rattazzi “Soffiamo sulla cicoria matta” (La Tartaruga), illustrato con freschezza, come le favole, da Ettore Maiotti. Anche qui, tra un piatto e l’altro, si parla delle stagioni, dei giochi per bambini, di feste per ragazzi. La cucina è uno stato d’animo, è alacrità a provvedere non solo il cibo, ma una serie di interventi minimi come il decoratore, confezionare oggetti da regalo, purificare l’aria, preservare la lana dalle tarme, curare il corpo e la pelle con rimedi naturali. Un’alacrità che parrebbe quasi di altri tempi, da casalinga tuttofare, se dietro non si sentisse una persona intera, con le sue attività fuori casa, che fa, e tanto, ma quando decide di farlo. Una donna che non ha più bisogno di negarsi alle attività domestiche per sentirsi liberata, perché liberata è davvero.
Alle molte idee inconsuete: il menù per dormire, la caccia che non sa di caccia, come innaffiare le piante di casa quando si è in viaggio, si assommano piatti nuovi, semplici e ricercati, con ingredienti leggeri e naturali dove i grassi, i pesci, le carni, sono in minoranza rispetto ai sapori delle erbe e dei frutti. Anche in questo libro, come negli altri, la donna non insegna: parla di sé alle altre e la lettura non è una lezione: è dialogo.